Il dovere costituzionale alla formazione del pensiero critico
Riflessioni sulla conclusione (probabile) della vicenda del minuto di silenzio

Nei giorni scorsi si è conclusa, crediamo, la vicenda legata alla mancata diffusione, nelle scuole da noi dirette, della nota ministeriale che invitava a effettuare un minuto di silenzio, il 22 settembre, in commemorazione della morte di sei soldati italiani, in territorio afghano. Come si ricorderà la nostra scelta ha indotto la Direttrice Regionale per il Lazio ad aprire nei nostri confronti un procedimento disciplinare. La modalità con cui si arriva adesso alla conclusione ci è apparsa illegittima, sul piano formale e di contenuto, come del resto tutto il percorso precedente. Infatti, pur sotto la specie della semplice comunicazione (così recita l’oggetto della nota), il tono e il senso sono quelli di una censura, di un avvertimento scritto a recedere in futuro da comportamenti analoghi.
E’ necessario allora tornare un po’ indietro. Occorre in premessa sottolineare che lo scopo per il quale oggi ricapitoliamo la vicenda, è segnalarla all’attenzione pubblica per il carattere eclatante, sul piano della esemplarità amministrativa e della eccezionalità politica. Ed è proprio l’ illegittimità di tutta la procedura ciò che ci preoccupa, soprattutto nel momento in cui si stanno delineando provvedimenti legislativi più restrittivi in ambito di pubblica amministrazione e si stanno definendo le regole che governano la relazione fra un dirigente e l’amministrazione di appartenenza. E’ necessario prestare attenzione alla forma, perché essa dice molto di più del contenuto.
Siamo state chiamate, una alla volta, per le vie brevi – non convocate – ad un colloquio dalla Direttrice Regionale durante il quale ci è stato chiesto di spiegare quanto si era appreso dalla stampa, il significato della nostra scelta e le sue modalità operative. La conversazione si è svolta informalmente, senza tutela di parte, di fronte a testimoni che si sono rivelati tali solo in seguito, senza alcuna verbalizzazione condivisa, come ci si attiene durante una conversazione, appunto. Non ci è stato chiesto di produrre nessun atto a supporto di quanto avevamo dichiarato, anche per iscritto, per spiegare la nostra condotta, e nessun atto ci è stato consegnato a sostegno dell’apertura del procedimento. La conversazione – informale ribadiamo – e le fonti di stampa, sono state utilizzate per costruire gli addebiti. Curiosamente la stessa stampa a cui, ci è stato detto, noi non possiamo accedere senza il placet dell’amministrazione.
Le contestazioni degli addebiti e le comunicazioni finali sostanzialmente identiche per ciascuna di noi richiamano in modo parafrasato alcuni articoli della Costituzione e utilizzano il testo e la funzione della Legge 36/87 sui cerimoniali di Stato, in modo da virarla, trasformando in obbligo, in forza di legge, un semplice invito.
Come è evidente nella relazione fra contenuto di legge e diritto, inteso nel suo significato esteso di casistica e consuetudine, ci sono comportamenti che non possono essere adottati, o fatti adottare, in forza di legge, e il cordoglio, in tutte le sue forme culturali, è uno di questi. Solo in regime di stato di eccezione, in cui è sospesa la pratica del diritto ordinario, dunque in vigenza di regimi totalitari o di uno stato di guerra dichiarato, l’autorità dispone relativamente a comportamenti che afferiscono a problemi etici, e detta le relative procedure. Nel merito, l’invito ad effettuare un minuto di silenzio, mancava della fattispecie normativa, orientato com’era da valori e guidato da principi tipici della politica del governo in carica, per quanto attiene al ruolo dell’Italia nella guerra in Afghanistan e ai suoi significati ideologici.
In società pluraliste, dotate di Carte Costituzionali che tutelano la libertà di espressione e in cui convivono ideologie e ispirazioni ideali diverse, non si può chiedere adesione ad un comportamento quale il cordoglio, in forma di obbedienza, semmai si può indurre una adesione orientata alla eventuale condivisione. Proprio nel rispetto della condivisione, per noi sancita dal carattere collegiale dell’autonomia scolastica a cui si deve piegare la decisione del Dirigente in ambito educativo e didattico, l’atto mancato, come vogliamo chiamare il non aver voluto condizionare i lavoratori delle due scuole ad una adesione non ragionata, è stato sostenuto dalla informazione tempestiva, avvenuta nei giorni successivi, nelle sedi dei Collegi Docenti e dei Consigli di Circolo, e dalla riflessione sulle motivazioni che lo avevano ispirato.
Ricordiamo che la cerimonia del minuto di silenzio e la conseguente riflessione, peraltro, non venivano proposte solo agli adulti della scuola, docenti e ATA, ma agli studenti, nel nostro caso a bambini di età infantile, con i quali è molto delicato affrontare temi complessi come la pace e la guerra, che richiedono conoscenze approfondite e capacità di argomentazione storica e di pensiero critico, senza scadere nella retorica e nel puro coinvolgimento emotivo. In un contesto di scuola dell’infanzia e primaria la programmazione attenta di eventuali interventi dal punto di vista pedagogico educativo si presentava in questo caso, e si presenta sempre in casi analoghi, come un preciso dovere pedagogico – educativo, a cui nessun docente può sottrarsi.
Per onestà intellettuale aggiungiamo poi che, l’arrivo tardivo della circolare, oltre a costituire un esempio di consueta trascuratezza da parte dell’amministrazione, a fronte poi della scandalizzata reazione della stessa alla non adesione da parte di innumerevoli scuole, non ha di per sé motivato la nostra scelta, se non in quanto ci ha impedito di condividere con i docenti e le docenti riflessioni e decisioni sui comportamenti da tenere di fronte all’invito del Ministro.
La nostra scelta, di cui ci assumiamo tutta la responsabilità, è stata orientata oltre che dal rispetto della autonomia educativa dei docenti, dai nostri profondi convincimenti di tipo etico e politico e dal ripudio della guerra., questo sì assolutamente legato al dettato costituzionale. La reazione scomposta di alcuni politici nell’apprendere la notizia della nostra scelta e il processo che ne è seguito, non sono certamente scollegati dalla tensione creata nel Paese attorno ad una guerra non dichiarata, e dunque illegittima anche sul piano formale. Lo ha ammesso un militare in alto grado durante una trasmissione radiofonica andata in onda di recente (Rai 3 “Soldati”, 21 dicembre 2009), lo ammettono il Ministro della Difesa e molti Capi di Stato dei paesi impegnati nel conflitto.
Ritornando allo specifico della nostra professione, tutta la vicenda segnala le ambiguità del nostro contratto di lavoro, pubblico e privatistico ad un tempo, le aporie del rapporto fra doveri del funzionario e lo spazio di autonomia e di responsabilità che si deve a qualsiasi professionista perché possa svolgere al meglio la sua prestazione, i vincoli costituzionali e quelli dettati da amministrazioni legate a doppio filo ai governi in carica. Quel che raccontiamo interroga, in modo assai poco sereno, la relazione fra il rispetto degli scopi istituzionali e le forme della fedeltà (termine di accezione fascista) ai dettami della politica scolastica, spesso poco condivisibili, proprio sul piano del dovere costituzionale alla formazione, nelle creature piccole, del pensiero critico.

Roma, 25 gennaio 2010

Renata PULEO
Simonetta SALACONE