Fai anche tu il tuo test invalsi!

Mettiti alla prova, sai capire i tempi in cui vivi?
Fai anche tu il tuo test invalsi! Leggi attentamente i due testi che seguono. Poi, senza guardare gli autori cerca di capire quale dei due è stato pubblicato sul "manifesto", giornale italiano di sinistra, e quale invece è stato pubblicato su una rivista statunitense da un formatore di presidi americani. Infine vai a verificare la soluzione
Buon test!

A molte persone sembra ovvio che gli insegnanti debbano guadagnare di più quando i loro alunni vanno bene. Se un commerciante guadagna di più quando vende di più, perché non dovrebbero essere pagati di più gli insegnanti i cui studenti prendono voti più alti nelle prove esterne standardizzate?
Non si tiene conto però che il merit pay si è dimostrata una strategia inefficace per migliorare l’insegnamento e l’apprendimento. Ecco perché:
• Mina il lavoro d’equipe. Gli insegnanti che sono ricompensati per i migliori risultati conseguiti dai loro studenti sono meno propensi a condividere idee ed esperienze con i propri colleghi.
• I migliori insegnanti lavorano già moltissime ore e non ci sono prove che un aumento di stipendio li porti a lavorare di più o in modo più brillante, o che per converso gli insegnanti mediocri siano motivati a migliorare. Capita esattamente il contrario e i mediocri faranno ancora peggio.
• Le prove standardizzate spesso sono “insensibili” nei confronti dei problemi educativi, e il più delle volte misurano le condizioni familiari più che il valore aggiunto dato dal lavoro dell’insegnante.
• In molti Stati le prove standardizzate non pongono sufficiente enfasi sulle competenze relative alla lingua scritta e al pensiero critico, quindi l’introduzione del merit pay con tali test potrebbe indurre gli insegnanti a trascurare queste importanti competenze per la vita.
• Infine per fare fronte alle due ultime obiezioni sopraesposte è stato detto che le scuole dovrebbero usare prove rigorose prima e dopo i test, in settembre e in maggio, per misurare il contributo di ciascun insegnante agli apprendimenti degli studenti. E’ una bella idea, ma gli esperti dicono che occorrono almeno tre anni di dati per misurare l’efficacia di ciascun insegnante individualmente.
• Se si innalza la difficoltà dei test si aumenta anche la tendenza a “tarroccare” le prove. La maggioranza degli insegnanti sono scrupolosi ed onesti quando fanno vigilanza durante le prove, ma un aumento della difficoltà dei test potrebbe modificare questi comportamenti.
• Una buona percentuale di alunni sono presi fuori dall’aula per ricevere aiuto in piccoli gruppi gestiti da altri insegnanti. Come si può prefigurare un corretto incentivo in base ai risulati di questi alunni?
• E come si fa con quella metà di insegnanti che insegnano in classi o impartiscono discipline che non sono soggette a test, come per esempio la scuola dell’infanzia, la 1^ e 2^ primaria, l’educazione artistica, la musica, l’educazione fisica, ecc… ?

Queste considerazioni demoliscono la validità del merit pay.

Eppure il ministro Arne Duncan ha assolutamente ragione quando dice che lo studente deve essere al centro di qualsiasi provvedimento.
Allora come si può risolvere il problema senza creare problemi aggiuntivi e incentivi perversi?
La soluzione è già presente nelle nostre buone scuole.
Nella maggioranza delle migliori scuole americane il dirigente fa, senza annunciarle, frequenti visite nelle classi e dà dei feedback informali su ciò che gli studenti stanno imparando e su come può essere migliorato l’insegnamento. In queste scuole i team di insegnanti progettano collegialmente le unità di apprendimento, fanno valutazioni comuni ogni 4 o 6 settimane, e immediatamente dopo discutono ciò che ha o non ha funzionato e come si può migliorare l’insegnamento, e aiutano gli studenti in difficoltà.
Facendo frequenti valutazioni per l’apprendimento e definendo gli obiettivi di apprendimento, queste scuole fanno leva sulla “saggezza” collettiva degli insegnanti e dei dirigenti e mantengono costante il focus sulle questioni più importanti:” Gli studenti stanno imparando? E se no, che cosa dobbiamo fare?
Nessuna meraviglia se gli studenti di queste scuole fanno progressi straordinari, e gli insegnanti migliorano continuamente la loro professionalità.
Mettere in moto questo motore non è facile. Alcuni fattori di successo sono tecnici, come i confronti costanti sui risultati delle valutazioni interne e una continua disponibilità di dati, ma altri hanno a che fare con il livello di reciproca fiducia fra gli insegnanti e il dirigente e gli amministratori. E se è importantissimo portare la discussione all’interno delle scuole sui risultati è altrettanto importante mantenere informale il processo di valutazione, in modo che gli insegnanti non si sentano sotto controllo o peggio sotto accusa e si sentano a loro agio nell’ammettere quando le cose non funzionano, e saranno più disponibili ad ascoltare le idee e le proposte dei colleghi. Ciò che serve è un continuo aggiustamento in itinere più che “ispezioni” finali.
Si deve allora rimanere ancorati al vecchio sistema retributivo basato sull’anzianità di servizio e i titoli accademici? No!
Ci sono altri modi di aggredire questo vetusto anchilosato sistema: incrementi retributivi possono essere dati a insegnanti che fanno da mentori ai colegjhi, a insegnanti esperti che svolgono attività e di progettazione e organizzazione del curricolo, fanno attività di formazione, guidano gruppi di lavoro. Oppure selezionare e pagare di più i docenti per le scuole più difficili e ancora quelli delle discipline dove c’è carenza di docenti.
Sperimentiamo queste idee. Ma soprattutto emuliamo la supervisione dei buoni dirigenti e l’approccio a frequenti valutazioni comuni delle nostre migliori scuole e lasciamo perdere l’inefficace strategia del merit pay individuale. E’ fuorviante rispetto alle nostra finalità di migliorare le scuole americane.

 

 

 

Nelle prese di posizione di qualche collegio dei docenti a proposito delle prove Invalsi, per la prima volta quest’anno somministrate alla scuola secondaria superiore, si sono lette parole durissime. Più dure – ma perché? – di quanto non sia mai successo nella scuola di base, dove le prove nazionali in terza media sono ormai entrate a far parte anche della valutazione conclusiva. Sembrerebbero tutti insieme minacciati il diritto alla riservatezza, la libertà di insegnamento, il pluralismo culturale, la complessità dell’educazione e dell’apprendimento. Mentre le prove, derubricate a «quiz» e «telequiz», vengono additate al pubblico ludibrio come esempi del peggiore «nozionismo». Un eccesso di fuoco, in verità. E soprattutto il rischio di spararsi sui piedi, visto che all’opinione pubblica può arrivare in questo modo l’immagine non proprio presentabile di un corpo professionale che, pur maneggiando gli strumenti della valutazione con qualche discrezionalità di troppo (come sa chiunque nella sua vita scolastica abbia conosciuto diversi insegnanti di una stessa disciplina) e anche con una rimarchevole disinvoltura (sono ancora il 20%, il doppio della media Ue, gli studenti italiani che non arrivano a diplomi o qualifiche), proprio non sopporta che ci siano prove elaborate e corrette da altri che non se stessi. Immagine deformata, peraltro, perché la maggioranza degli insegnanti, pur non entusiasta della novità, è assai più riflessiva di quanto facciano pensare quei comunicati.
C’è dell’altro, quindi, dietro quelle inquietudini e quel disagio. Intanto, proprio il rovescio dell’evocato «nozionismo». Chi abbia letto le prove di italiano proposte quest’anno agli studenti delle seconde classi, deve riconoscere che la loro difficoltà deriva al contrario proprio dal fatto di essere mirate ad accertare non il possesso o meno di “nozioni”
ma la capacità di uso di quello che si sa – il proprio bagaglio culturale, la propria esperienza di lettura – nel comprendere un testo e ragionarci sopra.
Le prove Invalsi possono essere fatte più o meno bene, sicuramente non costituiscono il solo modo di valutare, in questo caso ce n’era almeno una che avrebbe potuto essere congegnata meglio, ma il problema è un altro. Quello che inquieta molti insegnanti è proprio che prove di questo tipo misurano risultati più profondi e interiorizzati di tanto imparaticcio scolastico; e mettono a nudo non pochi limiti della nostra tradizione pedagogica.
Sta proprio qui, in effetti, la loro utilità. Perché è da un approccio diverso da quello prevalente nella nostra scuola secondaria superiore – non è il sapere in sé l’obiettivo, ma la capacità di far “lavorare” quello che si sa – che deriva la possibilità per gli insegnanti, e per la scuola come sistema, di accertare se c’è qualcosa che non va nell’insegnamento,
nei programmi, nei metodi, nell’organizzazione dell’ambiente di apprendimento, e
magari di migliorarlo. O dobbiamo pensare che solo nella scuola italiana non ci sia niente di perfettibile? Ma molti insegnanti, anche tra quelli che non hanno espresso contrarietà esplicite, hanno altri tipi di preoccupazioni . Temono, per esempio, che da prove di
questo tipo, uguali per tutti e non finali come quelle degli esami di maturità, vengano in piena luce differenze tra classi e sezioni che le famiglie, gli studenti, il dirigente scolastico, l’amministrazione potrebbero attribuire, non alle condizioni di contesto, alle caratteristiche socio-culturali degli allievi, ai soliti danni prodotti dalla solita scuola media-elementare-materna, alle solite famiglie che non educano, al solito internet che fa perdere la
concentrazione e così via,ma alla maggiore o minore capacità professionale dell’uno
o dell’altro insegnante.
E che, prima o poi, da tutto ciò si possa passare – c’è, del resto, già scritto nero su bianco
anche in un certo numero di intese contrattuali – a una valutazione comparativa tra gli istituti scolastici e anche a una valutazione dei singoli insegnanti, finalizzata a diversificare una carriera finora basata unicamente sull’anzianità . In cui sono pagati tutti allo
stesso modo, bravi e scadenti, impegnati e pigri, colti e meno colti, con buona pace ovviamente dei più giovani che, anche se di ottime capacità, devono comunque aspettare i previsti 35 anni di servizio per poter arrivare al 45-50% di incremento retributivo sui livelli iniziali. È vero, tutto ciò è all’ordine del giorno da diverso tempo, ormai da più di una decina di anni. Ed è spiegabilissimo che a una prospettiva di questo tipo si guardi
con grande preoccupazione in una categoria con uno statuto professionale del tutto diverso, basato sull’assoluta identità della funzione, anche in presenza di specificità e specialismi evidenti; e su una sostanziale non controllabilità dei suoi risultati.
Tanto più in tempi connotati, oltre che da “tagli” e politiche fortemente restrittive nei confronti dell’istruzione pubblica, anche a pesanti e ricorrenti campagne di diffamazione dei suoi insegnanti, da ripetuti tentativi di censura culturale, da un clima politico e amministrativo mai così chiuso e conformista come oggi. Tanto più poi, se alla valutazione delle scuole si dovesse attribuire il compito di introdurre anche nell’istruzione pubblica una logica di mercato.
Sono temi che scottano e che preoccupano dunque, e giustamente.
Ma proprio per questo non ha senso, ed è anzi
controproducente, negare attendibilità e utilità a prove basate su presupposti teorici di valenza nazionale
e internazionale. È assai meglio, se non funzionano, proporne il cambiamento. Discutendone in grande, a voce alta, nei luoghi appropriati delle associazioni e delle
rappresentanze professionali.

 

 

 

 

 

 

Kim Marshall, Is Merit Pay the Answer?è stato pubblicato il 15/12/09 su "Education week"

Kim Marshall è stato insegnante, preside e provveditore a Boston per 32 anni, ora forma i nuovi dirigenti scolastici (in New Leaders for New Schools http://www.nlns.org/).

Fiorella Farinelli, Eccesso di fuoco sui test invalsi ( da “Il Manifesto” 17/05/11)

Già direttrice del Centro Studi e Programmazione del ministero della Pubblica Istruzione. E' stata insegnante di scuola secondaria superiore, sindacalista Cgil, assessore all'educazione e alle politiche giovanili del Comune di Roma.