CURRICOLO LONGITUDINALE (1)
Marcello Sala

L’etimologia (dal latino curriculum = carretto) ci ricorda che quando parliamo di curricolo non ci riferiamo solo alla virtualità di un percorso ma anche alla concretezza dell’esperienza di chi lo percorre. Allora la prima domanda è: chi è il soggetto del curricolo scolastico?
Domanda che può essere interpretata in (almeno) due sensi: il soggetto di un curricolo è l’individuo o il gruppo? oppure: il soggetto di un curricolo è l’insegnante o l’allievo?
Ho l’impressione che, mentre riconosciamo la prima come domanda significativa (culturalmente e “politicamente”) la seconda ci appaia vagamente insensata. Eppure si tratta di una premessa fondamentale: i bambini-ragazzi sviluppano, nella loro crescita personale e sociale, un percorso cognitivo (curricolo di apprendimento); gli/le insegnanti, nell’esercizio delle loro funzioni, pensano come organizzarlo e se lo rappresentano (programmazione curricolare). Tra le due cose c’è un rapporto territorio-mappa, realtà-rappresentazione, che non è simmetrico: la seconda ha senso solo in quanto riferita alla prima.
Se nella “mappa” dell’insegnante il “territorio” è l’apprendimento dei bambini, qual è il “territorio” dell’insegnamento? È un luogo “esterno” da cui l’insegnante osserva l’apprendimento dei bambini-ragazzi, da cui può controllare gli input per ottenere gli output voluti? Mi pare che se così fosse gli insegnanti non avrebbero così tanto il senso dell’insuccesso, di cui dare la colpa a se stessi o ai bambini a seconda della propria psicologia. Forse la domanda deve coinvolgere le premesse: è possibile distinguere l’insegnamento dall’apprendimento dei bambini-ragazzi?
Certamente è necessario distinguere, se si esaminano le azioni dei diversi soggetti nei diversi ruoli (e relative responsabilità), ma la domanda è un’altra: separando le due dinamiche (ad esempio studiando “la psicologia” dell’apprendimento e “la didattica”, come competenze per il curricolo) che cosa si perde nella comprensione del sistema apprendimento-insegnamento? che è un sistema vivente dove sono pertinenti le relazioni. Il problema della progettazione allora non è “che cosa fa l’insegnante?” ma “che cosa fa l’insegnante in risposta a quello che gli allievi fanno in risposta a ciò che lui ha fatto in risposta a….?”
Se i percorsi cognitivi sono evolutivi significa anche che sono contingenti, che vanno inquadrati nella dimensione della storia, che per definizione si racconta solo dopo che è accaduta. Questo discorso è in relazione con le differenze e le relazioni che, nel contesto scolastico, vi sono tra laboratorio e curricolo, intendendo il laboratorio come luogo della ricerca e il curricolo come struttura d’ordine della conoscenza verso il sapere disciplinare.
La problematica dell’insegnamento ha un altro versante: può essere un luogo di formazione per gli insegnanti la progettazione del curricolo, e in particolare quella del curricolo longitudinale? Potrebbe esserlo nella forma di una “ricerca-progettazione”, che arrivi al discorso sul curricolo attraverso la rielaborazione delle esperienze degli/delle insegnanti relative a quella che è di fatto la loro programmazione e gestione delle attività didattiche nelle diverse scuole: osservare la propria esperienza e rifletterci sopra per capire “che cosa viene prima e che cosa viene dopo” nell’apprendimento-insegnamento.
Ecco come da una ricerca-progettazione con un gruppo misto di insegnanti elementari-medie-superiori sul curricolo di educazione scientifica si possono ricavare alcune dimensioni effettive di sviluppo della relazione di apprendimento-insegnamento:
- modalità cognitive. L’esperienza spontanea del bambino ha la dimensione della globalità e non separa gli aspetti cognitivi da quelli affettivi e di relazione; ma anche, nell’attività cognitiva, il bambino non considera a-priori degli “oggetti” cui attribuire qualità: nel flusso delle percezioni (e nel “territorio” della realtà) non esistono delimitazioni, che nascono nella “mappa” delle rappresentazioni; la progressiva delimitazione del campo cognitivo in aree di pertinenza è in relazione all’attività dell’adulto educatore.
- il linguaggio. Se nella prima fase le parole dei bambini rimandano ad un’area di senso legata da una parte al vissuto e dall’altra agli usi sociali (i bambini comunque “pescano” le parole dal bagno di linguaggio in cui sono immersi), poi, attraverso una continua mediazione, i significati vengono condivisi, ma ciò avviene in riferimento a degli oggetti comuni di conoscenza; si arriva così ad un sistema di significati più stabile e rigido nella sua convenzionalità. Se all’inizio le forme di comunicazione linguistica sono abbastanza libere in funzione dell’espressione di un contenuto (inteso nella relazione tra vissuto del soggetto e descrizione dell’oggetto) sempre più si impongono forme “regolamentate”; non si tratta soltanto di tradizioni scolastiche, ma anche della progressiva importanza che il linguaggio assume nella struttura stessa del discorso discipinare, con le sue esigenze “formali”.
- la dimensione sociale. Dietro alle diverse forme della comunicazione c’è anche una diversa angolatura nel considerare la socialità come sfondo e finalità della scuola: se con i più piccoli viene valorizzata come costruzione di una rete di relazioni interpersonali che allarghi e diversifichi il contesto di riferimento rispetto alla famiglia, più avanti acquista spessore la Società intesa come entità antropologica, sociologica e storica in cui lo studente si inserisce come cittadino. La co-costruzione di conoscenza nell’interazione assume dapprima come riferimento un gruppo locale che condivide l’esperienza; il gruppo costruisce una memoria collettiva del percorso come primo passo verso una fissazione, attraverso il confronto, la cooperazione e il conflitto, di un patrimonio di conoscenze che poi non possono fare a meno di confrontarsi con quelle della comunità globale degli esperti nelle sue espressioni istituzionali.
- l’intenzionalità pedagogica. Lungo l’asse di sviluppo che parte dalla soggettività “egocentrica” del bambino piccolo per arrivare ai “saperi” sociali, la gerarchia delle finalità sposta il fuoco pedagogico della scuola dall’attivazione di ogni bambino in quanto soggetto di conoscenza alla relazione cognitiva tra soggetto e oggetto, alla strutturazione della conoscenza di un oggetto nella sua specificità e nella sua rappresentazione sociale. Su questo asse di sviluppo nella pratica didattica con i bambini piccoli viene dato più spazio al gioco delle domande nella scoperta del mondo; poi le domande dell’insegnante prendono maggiore spazio e alla domanda che apre o mantiene il “conflitto cognitivo” si affianca anche la domanda “di verifica” di quanto l’alunno sa, funzionale alla valutazione; all’alunno è richiesto sempre più di fornire risposte adeguate. Le varie forme di meta-conoscenza messe in atto con il progredire dell’età e degli ordini di scuola, sono indicative di un altro passaggio che sta nella dimensione dell’autonomia: l’insegnante passa ai ragazzi sempre maggiori competenze cognitive che renderanno sempre meno centrale il suo ruolo.
- l’esperienza. Sul piano dell’attività che la scuola propone si assiste al passaggio da una esplorazione più libera, cioè legata all’iniziativa spontanea del soggetto che osserva, che raccoglie e organizza ciò che della realtà lo colpisce, alla organizzazione di situazioni più strutturate dal punto di vista cognitivo. La ricerca si esercita sempre meno sulla realtà “naturale” così come si presenta (utilizzando essenzialmente la percezione) e sempre più su situazioni “artificiali”, ovvero organizzate ad hoc, operando una selezione sulla realtà, introducendo strumenti e contesti di manipolazione della realtà. Così l’attività cognitiva all’inizio sembra centrata sulla complessità sistemica delle relazioni che la realtà presenta; più avanti il centro d’attenzione si sposta progressivamente sulle rappresentazioni, sulla loro coerenza interna, con un ricorso sempre maggiore alla formalizzazione. E ancora: l’attenzione, che all’inizio si focalizza sull’aspetto contingente della realtà così come si presenta “qui e ora” legata al contesto di osservazione, si sposta poi sul cogliere gli aspetti trasferibili, generalizzabili e di conseguenza più “astratti”.
E perché non progettare direttamente un curricolo unico? Nella costruzione di un curricolo longitudinale in gruppi misti di insegnanti una difficoltà è costituita dalla separazione delle “culture dell’istituzione” delle scuole di diverso ordine, che crea incomprensioni e conflitti (spesso basati sulla convinzione che le proprie premesse culturali siano universali) sulla pelle dei ragazzi che sono “interi” nel loro percorso di vita.
Allora è augurabile raggiungere una omogeneità nella cultura degli insegnanti? Spesso si tratta di una operazione ideologica: ad esempio in campo scientifico il “metodo scientifico”, che sembra poter essere il riferimento unitario, si rivela essere più che altro un mito scolastico.
Se ha un senso riferirsi ai soggetti in quanto infanti, pre-adolescenti, adolescenti, allora si tratta anche di riconoscere gli elementi di discontinuità. Sono i contesti ad essere diversi e diverse le culture che in essi si sviluppano; ciò che appare insensato agli occhi di un insegnante elementare quando ascolta parlare di obiettivi e metodologie un insegnante delle superiori (e viceversa) acquista senso ai suoi stessi occhi quando lo può osservare mentre accade nel suo contesto reale. La questione sta nel dare un senso alla diversità dei contesti, a vederli come tappe di un percorso di inserimento progressivo nella cultura; una successione che da una parte è funzionale allo sviluppo cognitivo-affettivo-relazionale dei bambini-ragazzi, dall’altra risponde alle scansioni istituzionali con cui la società sostiene e regola l’integrazione dei nuovi cittadini.
Questo ci riporta alla domanda posta nelle righe iniziali se il soggetto del curricolo è l’individuo o il gruppo. Quanto… e soprattutto… come la conoscenza è un percorso sociale piuttosto che individuale? Da una parte questo significa porsi il problema del contesto: se l’apprendimento è “situato” in un contesto comunicativo culturalmente connotato, come ad esempio il laboratorio, è possibile verificarne i percorsi attraverso strumenti di verifica formalizzati?
D’altra parte: l’apprendimento è un fatto sociale soltanto perché avviene in un contesto interattivo, o perché la conoscenza del gruppo è maggiore della somma delle conoscenze individuali? o anche perché, ad un qualche livello di senso, il gruppo come tale è soggetto di conoscenza?
Di conseguenza, per passare ad un’altra operazione fondamentale del curricolo, diventa estremamente difficile verificare l’apprendimento individuale, in due sensi:
1. un contributo personale alla costruzione collettiva di conoscenza non corrisponde ad un possesso della conoscenza uniforme per qualità e forma in tutti i soggetti partecipanti; questa uniformità può essere avvicinata (e non raggiunta) attraverso quel processo che porta dalla costruzione “situata” di conoscenza ad un “sapere” storicamente consolidato e socialmente condiviso da una più ampia comunità
2. il contributo personale alla costruzione collettiva di una conoscenza è un contributo appunto, un elemento di sistema, che vive nella differenza e nell’interconnessione con gli altri elementi: senza questo contesto perde senso.
Il discorso vale in generale per la cultura ed è il problema fondamentale di senso della scuola: attraverso quali processi avviene l’ “in-culturazione” di un giovane membro di una comunità sociale? che per livelli di organizzazione materiale e di significati, è irriducibile ad una pura estensione della famiglia.

Note:
1 - La parola “longitudinale” è suggestiva della dimensione di sviluppo di un percorso. La metafora del “verticale” che cosa vuole suggerire? che i bambini con l’età si allungano e la posizione in cui li confrontiamo è quella in piedi? oppure che l’educazione è una elevazione verso il Cielo (che si presuppone “migliore” della Terra)?

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