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L’etimologia (dal latino curriculum = carretto)
ci ricorda che quando parliamo di curricolo non ci riferiamo solo alla virtualità
di un percorso ma anche alla concretezza dell’esperienza di chi lo percorre.
Allora la prima domanda è: chi è il soggetto del curricolo scolastico?
Domanda che può essere interpretata in (almeno) due sensi: il soggetto
di un curricolo è l’individuo o il gruppo? oppure: il soggetto
di un curricolo è l’insegnante o l’allievo?
Ho l’impressione che, mentre riconosciamo la prima come domanda significativa
(culturalmente e “politicamente”) la seconda ci appaia vagamente
insensata. Eppure si tratta di una premessa fondamentale: i bambini-ragazzi
sviluppano, nella loro crescita personale e sociale, un percorso cognitivo (curricolo
di apprendimento); gli/le insegnanti, nell’esercizio delle loro funzioni,
pensano come organizzarlo e se lo rappresentano (programmazione curricolare).
Tra le due cose c’è un rapporto territorio-mappa, realtà-rappresentazione,
che non è simmetrico: la seconda ha senso solo in quanto riferita alla
prima.
Se nella “mappa” dell’insegnante il “territorio”
è l’apprendimento dei bambini, qual è il “territorio”
dell’insegnamento? È un luogo “esterno” da cui l’insegnante
osserva l’apprendimento dei bambini-ragazzi, da cui può controllare
gli input per ottenere gli output voluti? Mi pare che se così fosse gli
insegnanti non avrebbero così tanto il senso dell’insuccesso, di
cui dare la colpa a se stessi o ai bambini a seconda della propria psicologia.
Forse la domanda deve coinvolgere le premesse: è possibile distinguere
l’insegnamento dall’apprendimento dei bambini-ragazzi?
Certamente è necessario distinguere, se si esaminano le azioni dei diversi
soggetti nei diversi ruoli (e relative responsabilità), ma la domanda
è un’altra: separando le due dinamiche (ad esempio studiando “la
psicologia” dell’apprendimento e “la didattica”, come
competenze per il curricolo) che cosa si perde nella comprensione del sistema
apprendimento-insegnamento? che è un sistema vivente dove sono pertinenti
le relazioni. Il problema della progettazione allora non è “che
cosa fa l’insegnante?” ma “che cosa fa l’insegnante
in risposta a quello che gli allievi fanno in risposta a ciò che lui
ha fatto in risposta a….?”
Se i percorsi cognitivi sono evolutivi significa anche che sono contingenti,
che vanno inquadrati nella dimensione della storia, che per definizione si racconta
solo dopo che è accaduta. Questo discorso è in relazione con le
differenze e le relazioni che, nel contesto scolastico, vi sono tra laboratorio
e curricolo, intendendo il laboratorio come luogo della ricerca e il curricolo
come struttura d’ordine della conoscenza verso il sapere disciplinare.
La problematica dell’insegnamento ha un altro versante: può essere
un luogo di formazione per gli insegnanti la progettazione del curricolo, e
in particolare quella del curricolo longitudinale? Potrebbe esserlo nella forma
di una “ricerca-progettazione”, che arrivi al discorso sul curricolo
attraverso la rielaborazione delle esperienze degli/delle insegnanti relative
a quella che è di fatto la loro programmazione e gestione delle attività
didattiche nelle diverse scuole: osservare la propria esperienza e rifletterci
sopra per capire “che cosa viene prima e che cosa viene dopo” nell’apprendimento-insegnamento.
Ecco come da una ricerca-progettazione con un gruppo misto di insegnanti elementari-medie-superiori
sul curricolo di educazione scientifica si possono ricavare alcune dimensioni
effettive di sviluppo della relazione di apprendimento-insegnamento:
- modalità cognitive. L’esperienza spontanea del bambino ha la
dimensione della globalità e non separa gli aspetti cognitivi da quelli
affettivi e di relazione; ma anche, nell’attività cognitiva, il
bambino non considera a-priori degli “oggetti” cui attribuire qualità:
nel flusso delle percezioni (e nel “territorio” della realtà)
non esistono delimitazioni, che nascono nella “mappa” delle rappresentazioni;
la progressiva delimitazione del campo cognitivo in aree di pertinenza è
in relazione all’attività dell’adulto educatore.
- il linguaggio. Se nella prima fase le parole dei bambini rimandano ad un’area
di senso legata da una parte al vissuto e dall’altra agli usi sociali
(i bambini comunque “pescano” le parole dal bagno di linguaggio
in cui sono immersi), poi, attraverso una continua mediazione, i significati
vengono condivisi, ma ciò avviene in riferimento a degli oggetti comuni
di conoscenza; si arriva così ad un sistema di significati più
stabile e rigido nella sua convenzionalità. Se all’inizio le forme
di comunicazione linguistica sono abbastanza libere in funzione dell’espressione
di un contenuto (inteso nella relazione tra vissuto del soggetto e descrizione
dell’oggetto) sempre più si impongono forme “regolamentate”;
non si tratta soltanto di tradizioni scolastiche, ma anche della progressiva
importanza che il linguaggio assume nella struttura stessa del discorso discipinare,
con le sue esigenze “formali”.
- la dimensione sociale. Dietro alle diverse forme della comunicazione c’è
anche una diversa angolatura nel considerare la socialità come sfondo
e finalità della scuola: se con i più piccoli viene valorizzata
come costruzione di una rete di relazioni interpersonali che allarghi e diversifichi
il contesto di riferimento rispetto alla famiglia, più avanti acquista
spessore la Società intesa come entità antropologica, sociologica
e storica in cui lo studente si inserisce come cittadino. La co-costruzione
di conoscenza nell’interazione assume dapprima come riferimento un gruppo
locale che condivide l’esperienza; il gruppo costruisce una memoria collettiva
del percorso come primo passo verso una fissazione, attraverso il confronto,
la cooperazione e il conflitto, di un patrimonio di conoscenze che poi non possono
fare a meno di confrontarsi con quelle della comunità globale degli esperti
nelle sue espressioni istituzionali.
- l’intenzionalità pedagogica. Lungo l’asse di sviluppo che
parte dalla soggettività “egocentrica” del bambino piccolo
per arrivare ai “saperi” sociali, la gerarchia delle finalità
sposta il fuoco pedagogico della scuola dall’attivazione di ogni bambino
in quanto soggetto di conoscenza alla relazione cognitiva tra soggetto e oggetto,
alla strutturazione della conoscenza di un oggetto nella sua specificità
e nella sua rappresentazione sociale. Su questo asse di sviluppo nella pratica
didattica con i bambini piccoli viene dato più spazio al gioco delle
domande nella scoperta del mondo; poi le domande dell’insegnante prendono
maggiore spazio e alla domanda che apre o mantiene il “conflitto cognitivo”
si affianca anche la domanda “di verifica” di quanto l’alunno
sa, funzionale alla valutazione; all’alunno è richiesto sempre
più di fornire risposte adeguate. Le varie forme di meta-conoscenza messe
in atto con il progredire dell’età e degli ordini di scuola, sono
indicative di un altro passaggio che sta nella dimensione dell’autonomia:
l’insegnante passa ai ragazzi sempre maggiori competenze cognitive che
renderanno sempre meno centrale il suo ruolo.
- l’esperienza. Sul piano dell’attività che la scuola propone
si assiste al passaggio da una esplorazione più libera, cioè legata
all’iniziativa spontanea del soggetto che osserva, che raccoglie e organizza
ciò che della realtà lo colpisce, alla organizzazione di situazioni
più strutturate dal punto di vista cognitivo. La ricerca si esercita
sempre meno sulla realtà “naturale” così come si presenta
(utilizzando essenzialmente la percezione) e sempre più su situazioni
“artificiali”, ovvero organizzate ad hoc, operando una selezione
sulla realtà, introducendo strumenti e contesti di manipolazione della
realtà. Così l’attività cognitiva all’inizio
sembra centrata sulla complessità sistemica delle relazioni che la realtà
presenta; più avanti il centro d’attenzione si sposta progressivamente
sulle rappresentazioni, sulla loro coerenza interna, con un ricorso sempre maggiore
alla formalizzazione. E ancora: l’attenzione, che all’inizio si
focalizza sull’aspetto contingente della realtà così come
si presenta “qui e ora” legata al contesto di osservazione, si sposta
poi sul cogliere gli aspetti trasferibili, generalizzabili e di conseguenza
più “astratti”.
E perché non progettare direttamente un curricolo unico? Nella costruzione
di un curricolo longitudinale in gruppi misti di insegnanti una difficoltà
è costituita dalla separazione delle “culture dell’istituzione”
delle scuole di diverso ordine, che crea incomprensioni e conflitti (spesso
basati sulla convinzione che le proprie premesse culturali siano universali)
sulla pelle dei ragazzi che sono “interi” nel loro percorso di vita.
Allora è augurabile raggiungere una omogeneità nella cultura degli
insegnanti? Spesso si tratta di una operazione ideologica: ad esempio in campo
scientifico il “metodo scientifico”, che sembra poter essere il
riferimento unitario, si rivela essere più che altro un mito scolastico.
Se ha un senso riferirsi ai soggetti in quanto infanti, pre-adolescenti, adolescenti,
allora si tratta anche di riconoscere gli elementi di discontinuità.
Sono i contesti ad essere diversi e diverse le culture che in essi si sviluppano;
ciò che appare insensato agli occhi di un insegnante elementare quando
ascolta parlare di obiettivi e metodologie un insegnante delle superiori (e
viceversa) acquista senso ai suoi stessi occhi quando lo può osservare
mentre accade nel suo contesto reale. La questione sta nel dare un senso alla
diversità dei contesti, a vederli come tappe di un percorso di inserimento
progressivo nella cultura; una successione che da una parte è funzionale
allo sviluppo cognitivo-affettivo-relazionale dei bambini-ragazzi, dall’altra
risponde alle scansioni istituzionali con cui la società sostiene e regola
l’integrazione dei nuovi cittadini.
Questo ci riporta alla domanda posta nelle righe iniziali se il soggetto del
curricolo è l’individuo o il gruppo. Quanto… e soprattutto…
come la conoscenza è un percorso sociale piuttosto che individuale? Da
una parte questo significa porsi il problema del contesto: se l’apprendimento
è “situato” in un contesto comunicativo culturalmente connotato,
come ad esempio il laboratorio, è possibile verificarne i percorsi attraverso
strumenti di verifica formalizzati?
D’altra parte: l’apprendimento è un fatto sociale soltanto
perché avviene in un contesto interattivo, o perché la conoscenza
del gruppo è maggiore della somma delle conoscenze individuali? o anche
perché, ad un qualche livello di senso, il gruppo come tale è
soggetto di conoscenza?
Di conseguenza, per passare ad un’altra operazione fondamentale del curricolo,
diventa estremamente difficile verificare l’apprendimento individuale,
in due sensi:
1. un contributo personale alla costruzione collettiva di conoscenza non corrisponde
ad un possesso della conoscenza uniforme per qualità e forma in tutti
i soggetti partecipanti; questa uniformità può essere avvicinata
(e non raggiunta) attraverso quel processo che porta dalla costruzione “situata”
di conoscenza ad un “sapere” storicamente consolidato e socialmente
condiviso da una più ampia comunità
2. il contributo personale alla costruzione collettiva di una conoscenza è
un contributo appunto, un elemento di sistema, che vive nella differenza e nell’interconnessione
con gli altri elementi: senza questo contesto perde senso.
Il discorso vale in generale per la cultura ed è il problema fondamentale
di senso della scuola: attraverso quali processi avviene l’ “in-culturazione”
di un giovane membro di una comunità sociale? che per livelli di organizzazione
materiale e di significati, è irriducibile ad una pura estensione della
famiglia.
Note:
1 - La parola “longitudinale” è suggestiva della dimensione
di sviluppo di un percorso. La metafora del “verticale” che cosa
vuole suggerire? che i bambini con l’età si allungano e la posizione
in cui li confrontiamo è quella in piedi? oppure che l’educazione
è una elevazione verso il Cielo (che si presuppone “migliore”
della Terra)?
Vedi anche: