EDUCAZIONE
Massimo Bontempelli insegna storia e filosofia nel liceo classico, Pisa

L’educazione è, in ogni società, un elemento essenziale per la riproduzione della vita comunitaria. Lo dice l’etimo stesso della parola, che rinvia al latino ex ducere, cioè trarre a sé (ducere) fuori da (ex): si tratta infatti del processo attraverso cui l’individuo trae a sé, appropriandosene e rendendoli costitutivi della propria identità, saperi e valori della comunità a cui appartiene, tirandoli fuori, cioè attingendoli, dalle sue tradizioni.
L’educazione è dunque, sociologicamente e psicologicamente, un processo di mediazione tra due poli: la tradizione culturale di una comunità, e l’identità personale dei suoi individui. L’operatore della mediazione, che guida l’individuo all’appropriazione di una tradizione culturale, è denominato agente educativo.
A partire dalla rivoluzione francese, la scuola pubblica e nazionale si è imposta, in Europa, come agente educativo strategico per la riproduzione sociale. Le società europee, infatti, avendo perduto, o essendo sulla via di perdere, istituzioni coesive ed educative (oltre che soffocatrici della libertà individuale) quali la comunità di villaggio, la corporazione, la casa-bottega, e la Chiesa come fonte di norme morali civilmente obbliganti, non potevano più trovare coesione comunitaria se non attorno allo Stato e al sentimento di cittadinanza politica. Ciò esigeva che l’educazione diventasse educazione alla cittadinanza e compito dello Stato. Sono nati così i sistemi nazionali dell’istruzione pubblica, basati dappertutto su due distinti percorsi educativi: una scuola per l’educazione alla cittadinanza subalterna, centrata sull’acquisizione dell’etica e della competenza dei vari mestieri popolari, e una scuola per l’educazione alla cittadinanza dirigente, affidata ad una cultura teoretica e letteraria, sganciata da ogni esigenza pragmatica ed utilitaria, e atta a promuovere l’autonomia di giudizio indispensabile a compiere in maniera ponderata e responsabile scelte di direzione sociale.
La scuola deputata alla selezione delle classi dirigenti, presente, con varie denominazioni ed articolazioni, ma comune sostanza, nei sistemi educativi pubblici e nazionali dei vari paesi coinvolti nella modernizzazione portata dalla rivoluzione francese, risente dell’ambiguità ideologica delle borghesie nazionali che l’hanno creata.
La borghesia, infatti, è diventata classe dominante affermando da un lato valori universalistici, ma intendendo dall’altro l’universalismo come universalizzazione, di stampo classista e di impossibile attuazione, del particolarismo borghese. Così, da un lato, in nome della sua ideologia universalistica della cittadinanza, ha affidato l’educazione ad una scuola pubblica e nazionale, in linea di principio accessibile anche nei suoi livelli più elevati a qualsiasi cittadino, purché meritevole, ma da un altro lato l’ha organizzata in modo tale che, di fatto, il successo scolastico di un allievo è sempre dipeso, in larga misura anche se mai esclusivamente, dalla cultura trasmessagli nel tempo prescolastico ed extrascolastico, e dall’agio della sua condizione di vita, dunque dal particolarismo familiare. Di fatto, dunque, l’educazione scolastica è rimasta riservata, nei suoi livelli più alti, a parte eccezioni, ai giovani di famiglie borghesi; quella accessibile agli strati sociali più bassi, proprio perché senza interesse per i ceti alti, è stata privata di mezzi materiali e contenuti culturali adeguati; le stesse scuole di rango, infine, proprio perché il loro carattere classista poteva preservarsi soltanto spegnendo lo spirito critico, sono spesso, anche se non sempre e mai totalmente, cadute ad un insegnamento aridamente nozionistico, il cui vuoto era coperto dall’autoritarismo. Questa era la scuola tradizionale.
Negli ultimi decenni del Novecento sono venuti meno due presupposti storici della scuola tradizionale creata dalla borghesia. E’ stata eliminata ogni autonomia dello Stato dalle forze economiche dominanti, per le quali la scuola pubblica e nazionale come agente educativo di selezione dei gruppi dirigenti della società è, nell’epoca della privatizzazione di ogni funzione sociale e della globalizzazione dei mercati, soltanto un anacronistico impaccio. Ed è scomparsa la stessa borghesia nazionale. Non si fraintenda: non è scomparsa, ovviamente, l’area sociale di quanti traggono ricchezza e potere dagli affari e dalle professioni, perché, semmai, quest’area si è estesa. Ma i suoi componenti non sono più definibili come borghesia nel senso di classe socialmente omogenea e portatrice di una specifica idea di convivenza collettiva: si tratta, invece, di una moltitudine di agenti della distribuzione capitalistica con costumi geograficamente e professionalmente diversificati, privi di una qualsiasi forma comune di coscienza.
Il risultato di questa trasformazione è stata una tendenza del mondo economico a selezionare direttamente i propri dirigenti, senza pagare i costi di un sistema nazionale della pubblica istruzione, e senza farsi più alcun carico dell’educazione delle nuove generazioni, per le quali sembra bastare un’istruzione al consumo e all’adattamento per le masse, e qualche scuola di eccellenza, nel senso delle competenze tecniche e manageriali, non dell’educazione, per una minoranza di eletti. Quest’opera di distruzione dell’educazione attraverso la scuola esigeva politici sufficientemente in sintonia con le tendenze dominanti da essere potenzialmente capaci di distruggere la scuola tradizionale, e sufficientemente incolti e ottusi da illudersi, distruggendo, di creare qualcosa di nuovo. E politici di questa stoffa si sono fatti avanti.
Gli apripista dello smantellamento del sistema educativo pubblico sono stati Prodi e Berlinguer, dopo la vittoria elettorale del centro sinistra del 1996. L’illusione di superare il classismo della scuola tradizionale ha loro permesso di impoverire la scuola di contenuti culturali e impegno di studio, creando una scuola tendenzialmente frequentata da tutti, che però non dà più nulla di serio a chi la frequenta, e non opera una selezione classista soltanto perché questa viene spostata fuori e dopo la scuola, diventando più feroce ed arbitraria di prima. L’illusione della modernizzazione didattica ha condotto Berlinguer a lasciare spazio, nella scuola, alla lobby dei pedagogisti o psicopedagogisti, così da demolire radicalmente contenuti culturali e percorsi organici di educazione, sommersi da farraginosi metodologismi valutativi, buoni solo a giustificare classi sempre più numerose, con il risparmio di tempo consentito da un giudizio degli allievi sempre più affidato a questionari. Occorrerebbe un’indagine sociologica per spiegare come possa essersi formato un gruppo di così supponente incultura come quello degli psicopedagogisti, che spacciano addirittura per scienza una mera fraseologia, le cui prescrizioni non hanno fondamento né scientifico né filosofico. Essi sono serviti, tuttavia, a dare una vernice pseudoprogressista alla demolizione del sistema nazionale dell’educazione pubblica. L’illusione della cosiddetta autonomia scolastica ha legittimato il disimpegno dello Stato dal compito di provvedere all’educazione alla cittadinanza e l’imposizione di una concezione aziendalistica delle scuole, che è la negazione dell’educazione.
La tendenza a sostituire all’educazione ed alla cultura l’istruzione al consumo e all’adattamento e la formazione tecnicistica, se si consoliderà, sfocerà inevitabilmente, non importa se ad opera di governi di centro-destra o di centro-sinistra, nell’abolizione del valore legale dei titoli di studio, nell’assunzione degli insegnanti direttamente da parte dei dirigenti scolastici, nella precarizzazione permanente degli insegnanti, e nella diffusione di insegnamenti dettati dalle forze economiche o dalle mode.
Già ora gli insegnanti, reclutati con criteri sempre più cangianti ed arbitrari, non sanno più bene cosa insegnare. Occorrerebbe, nella scuola, una resistenza in nome della cultura e dell’educazione.

Vedi anche: autonomia scolastica, laicità