L’educazione è, in ogni società, un elemento
essenziale per la riproduzione della vita comunitaria. Lo dice l’etimo
stesso della parola, che rinvia al latino ex ducere, cioè trarre a sé
(ducere) fuori da (ex): si tratta infatti del processo attraverso cui l’individuo
trae a sé, appropriandosene e rendendoli costitutivi della propria identità,
saperi e valori della comunità a cui appartiene, tirandoli fuori, cioè
attingendoli, dalle sue tradizioni.
L’educazione è dunque, sociologicamente e psicologicamente, un
processo di mediazione tra due poli: la tradizione culturale di una comunità,
e l’identità personale dei suoi individui. L’operatore della
mediazione, che guida l’individuo all’appropriazione di una tradizione
culturale, è denominato agente educativo.
A partire dalla rivoluzione francese, la scuola pubblica e nazionale si è
imposta, in Europa, come agente educativo strategico per la riproduzione sociale.
Le società europee, infatti, avendo perduto, o essendo sulla via di perdere,
istituzioni coesive ed educative (oltre che soffocatrici della libertà
individuale) quali la comunità di villaggio, la corporazione, la casa-bottega,
e la Chiesa come fonte di norme morali civilmente obbliganti, non potevano più
trovare coesione comunitaria se non attorno allo Stato e al sentimento di cittadinanza
politica. Ciò esigeva che l’educazione diventasse educazione alla
cittadinanza e compito dello Stato. Sono nati così i sistemi nazionali
dell’istruzione pubblica, basati dappertutto su due distinti percorsi
educativi: una scuola per l’educazione alla cittadinanza subalterna, centrata
sull’acquisizione dell’etica e della competenza dei vari mestieri
popolari, e una scuola per l’educazione alla cittadinanza dirigente, affidata
ad una cultura teoretica e letteraria, sganciata da ogni esigenza pragmatica
ed utilitaria, e atta a promuovere l’autonomia di giudizio indispensabile
a compiere in maniera ponderata e responsabile scelte di direzione sociale.
La scuola deputata alla selezione delle classi dirigenti, presente, con varie
denominazioni ed articolazioni, ma comune sostanza, nei sistemi educativi pubblici
e nazionali dei vari paesi coinvolti nella modernizzazione portata dalla rivoluzione
francese, risente dell’ambiguità ideologica delle borghesie nazionali
che l’hanno creata.
La borghesia, infatti, è diventata classe dominante affermando da un
lato valori universalistici, ma intendendo dall’altro l’universalismo
come universalizzazione, di stampo classista e di impossibile attuazione, del
particolarismo borghese. Così, da un lato, in nome della sua ideologia
universalistica della cittadinanza, ha affidato l’educazione ad una scuola
pubblica e nazionale, in linea di principio accessibile anche nei suoi livelli
più elevati a qualsiasi cittadino, purché meritevole, ma da un
altro lato l’ha organizzata in modo tale che, di fatto, il successo scolastico
di un allievo è sempre dipeso, in larga misura anche se mai esclusivamente,
dalla cultura trasmessagli nel tempo prescolastico ed extrascolastico, e dall’agio
della sua condizione di vita, dunque dal particolarismo familiare. Di fatto,
dunque, l’educazione scolastica è rimasta riservata, nei suoi livelli
più alti, a parte eccezioni, ai giovani di famiglie borghesi; quella
accessibile agli strati sociali più bassi, proprio perché senza
interesse per i ceti alti, è stata privata di mezzi materiali e contenuti
culturali adeguati; le stesse scuole di rango, infine, proprio perché
il loro carattere classista poteva preservarsi soltanto spegnendo lo spirito
critico, sono spesso, anche se non sempre e mai totalmente, cadute ad un insegnamento
aridamente nozionistico, il cui vuoto era coperto dall’autoritarismo.
Questa era la scuola tradizionale.
Negli ultimi decenni del Novecento sono venuti meno due presupposti storici
della scuola tradizionale creata dalla borghesia. E’ stata eliminata ogni
autonomia dello Stato dalle forze economiche dominanti, per le quali la scuola
pubblica e nazionale come agente educativo di selezione dei gruppi dirigenti
della società è, nell’epoca della privatizzazione di ogni
funzione sociale e della globalizzazione dei mercati, soltanto un anacronistico
impaccio. Ed è scomparsa la stessa borghesia nazionale. Non si fraintenda:
non è scomparsa, ovviamente, l’area sociale di quanti traggono
ricchezza e potere dagli affari e dalle professioni, perché, semmai,
quest’area si è estesa. Ma i suoi componenti non sono più
definibili come borghesia nel senso di classe socialmente omogenea e portatrice
di una specifica idea di convivenza collettiva: si tratta, invece, di una moltitudine
di agenti della distribuzione capitalistica con costumi geograficamente e professionalmente
diversificati, privi di una qualsiasi forma comune di coscienza.
Il risultato di questa trasformazione è stata una tendenza del mondo
economico a selezionare direttamente i propri dirigenti, senza pagare i costi
di un sistema nazionale della pubblica istruzione, e senza farsi più
alcun carico dell’educazione delle nuove generazioni, per le quali sembra
bastare un’istruzione al consumo e all’adattamento per le masse,
e qualche scuola di eccellenza, nel senso delle competenze tecniche e manageriali,
non dell’educazione, per una minoranza di eletti. Quest’opera di
distruzione dell’educazione attraverso la scuola esigeva politici sufficientemente
in sintonia con le tendenze dominanti da essere potenzialmente capaci di distruggere
la scuola tradizionale, e sufficientemente incolti e ottusi da illudersi, distruggendo,
di creare qualcosa di nuovo. E politici di questa stoffa si sono fatti avanti.
Gli apripista dello smantellamento del sistema educativo pubblico sono stati
Prodi e Berlinguer, dopo la vittoria elettorale del centro sinistra del 1996.
L’illusione di superare il classismo della scuola tradizionale ha loro
permesso di impoverire la scuola di contenuti culturali e impegno di studio,
creando una scuola tendenzialmente frequentata da tutti, che però non
dà più nulla di serio a chi la frequenta, e non opera una selezione
classista soltanto perché questa viene spostata fuori e dopo la scuola,
diventando più feroce ed arbitraria di prima. L’illusione della
modernizzazione didattica ha condotto Berlinguer a lasciare spazio, nella scuola,
alla lobby dei pedagogisti o psicopedagogisti, così da demolire radicalmente
contenuti culturali e percorsi organici di educazione, sommersi da farraginosi
metodologismi valutativi, buoni solo a giustificare classi sempre più
numerose, con il risparmio di tempo consentito da un giudizio degli allievi
sempre più affidato a questionari. Occorrerebbe un’indagine sociologica
per spiegare come possa essersi formato un gruppo di così supponente
incultura come quello degli psicopedagogisti, che spacciano addirittura per
scienza una mera fraseologia, le cui prescrizioni non hanno fondamento né
scientifico né filosofico. Essi sono serviti, tuttavia, a dare una vernice
pseudoprogressista alla demolizione del sistema nazionale dell’educazione
pubblica. L’illusione della cosiddetta autonomia scolastica ha legittimato
il disimpegno dello Stato dal compito di provvedere all’educazione alla
cittadinanza e l’imposizione di una concezione aziendalistica delle scuole,
che è la negazione dell’educazione.
La tendenza a sostituire all’educazione ed alla cultura l’istruzione
al consumo e all’adattamento e la formazione tecnicistica, se si consoliderà,
sfocerà inevitabilmente, non importa se ad opera di governi di centro-destra
o di centro-sinistra, nell’abolizione del valore legale dei titoli di
studio, nell’assunzione degli insegnanti direttamente da parte dei dirigenti
scolastici, nella precarizzazione permanente degli insegnanti, e nella diffusione
di insegnamenti dettati dalle forze economiche o dalle mode.
Già ora gli insegnanti, reclutati con criteri sempre più cangianti
ed arbitrari, non sanno più bene cosa insegnare. Occorrerebbe, nella
scuola, una resistenza in nome della cultura e dell’educazione.
Vedi anche: autonomia scolastica, laicità