FENOMENOLOGIA DELLA FUNZIONE DOCENTE NELLA SCUOLA AZIENDA
Ettore D’Incecco, docente di Tedesco presso l’ ITCG “Manthonè” di Pescara

Dopo l’introduzione delle norme sull’autonomia scolastica alcuni elementi della funzione docente hanno subito una mutazione che ne ha stravolto l’assetto. Per poter sviluppare in termini propositivi un lessico alternativo a quello aziendalistico e dunque permettere all’insegnante di “riappropriarsi” di strumenti consoni alla sua funzione, occorre innanzitutto sentirsi “parte” di un processo generale di trasformazione della funzione docente all’interno di un mutamento degli scopi per cui la scuola viene ancora finanziata: è alla luce di tali mutamenti, per lo più violentemente subiti, che si comprendono veri e propri fenomeni di disagio/insoddisfazione. Soffermiamoci pertanto su alcuni elementi salienti della trasformazione del lavoro docente, in modo da poterne circoscrivere meglio le fenomenologia.
Si va affermando con un alone di modernismo nell’organizzazione didattica una modalità dell’essere docente sempre più legata ad atti e sequenzialità, che mirano a strutturare/destrutturare il suo lavoro.
Gli aspetti strutturanti
Il primo step è il cosiddetto insegnamento modulare (per una puntuale definizione ,si rinvia alla voce “modularità” del lessico). Esso ormai pervade il lavoro docente e ne condiziona il suo agire quotidiano: 1) settorializzando il sapere in modo esasperato, facendo smarrire all’allievo/a la visione d’insieme di una tematica 2) coartando l’insegnante in obiettivi specifici e togliendogli quella discrezione di poter “divagare” dal tema, prestando attenzione alle esigenze specifiche del gruppo classe con cui sta lavorando, 3) configurandosi come un vero e proprio pilastro, su cui costruire elementi di valutazione del docente e mutatis mutandis del gruppo docente di un determinato consiglio di classe o dell’istituto in cui si lavora nel suo complesso.
Non a caso l’insegnamento modulare è molto caldeggiato dai dirigenti scolastici. Le conseguenze sull’agire quotidiano sono che: a) il modulo permette il controllo sistematico sul lavoro docente b) obbliga la relazione docente/allievi dentro un canale in cui la personalità di entrambi viene massimamente circoscritta, c) standardizza il lavoro docente al più alto livello possibile e gli sottrae qualsiasi margine di discrezionalità, dunque stravolge il principio costituzionale della libertà didattica.
Un altro step fortemente strutturante ,diremmo standardizzante, è lo sviluppo prepotente delle cosiddette “griglie di valutazione” (ormai un tormentone per i docenti impegnati negli esami di stato). Una siffatta modalità di valutazione nasconde ,dietro il reale problema dell’oggettività del giudizio, la volontà di prefigurare una “performance” dell’allievo/a attesa , dopo un determinato passaggio didattico, senza mai prendere in considerazione che la relazionalità instaurata tra docente e allievo/a è per definizione “aperta”, dunque può avere soluzioni differenziate, tutte ugualmente valide. La prefigurazione delle “performances”, in base alle quali si precostituiscono le griglie valutative finiscono immancabilmente per penalizzare la criticità, lo sviluppo del pensiero divergente e last but not least il comportamento . Per sviluppare dunque contrasto su questo campo è consigliabile rifiutare, li dove esista ancora la facoltà di farlo, tale organizzazione del lavoro/valutazione. La battaglia va condotta in primis a livello di istituto, poi eventualmente di corso e infine di consiglio di classe. Opporre a ciò un insegnamento che preveda la considerazione della criticità espressa dai singoli, del disagio sociale di partenza, offre potenti antidoti al principio di darwinismo sociale e mette in discussione la valutazione per griglie, poiché tali fattori non possono facilmente essere introdotti nelle griglie stesse in termini di scale valutative numeriche : non è infatti pensabile, ad esempio, che ad un reddito sulla soglia di povertà si aggiunga per definizione un voto o frazione di punto. Ciò invece è possibile, se si porta una argomentazione complessiva, che va oltre la mera performance .L’espressione di un giudizio, in alternativa alla valutazione “grigliata”, permette ,anche sul piano del linguaggio, di esprimere tutte le peculiarità racchiuse in un/a giovane. Vi è un altro fattore che depone contro la valutazione standardizzata: la pluralità delle intelligenze. Che esistano diverse tipologie di intelligenza, è ormai un dato acquisito (per consultazione offriamo il seguente libro: R.J.Sternberg, L-Spear-swerling, le tre intelligenze, Erickson,1997). Se dunque esistono intelligenze differenti, tutte naturalmente valide, come si può offrire un test valido per tutti i soggetti di un gruppo classe, che presentano peculiarità completamente differenti? Persino il giornale porta-voce della Confindustria italiana si interroga in un recente articolo sulla non validità dei cosiddetti test strutturati (cit. “Ilsole24Ore del 02.09.04, pag. 8).
Stiamo in effetti affermando che oggi si valuta e si viene valutati con categorie che hanno caratteristiche molto affini a quelle con cui si valuta una merce. L’attività valutativa strutturante e sequenziale, è accettata (a torto) da un numero consistente di insegnanti, poiché apparentemente più semplice e diretta. Essa permea il lavoro docente con un processo di tipo consuetudinario, dunque molto difficile da individuare, proprio perché legato alla quotidianità dell’agire. Sviluppare contrasto su questo piano è una battaglia di lungo periodo, ma assolutamente ineludibile: passano i governi con i vari orientamenti, si alternano ministri, ma restano invariate le procedure valutative.

Gli aspetti destrutturanti.
Di nuovo, le leggi e i regolamenti berlingueriani hanno permesso la destrutturazione di alcuni elementi costituenti la funzione docente. Questi appaiono poco logici, se rapportati ad un concetto di scuola secondo i dettami costituzionali, ma pregnanti, se rapportati ad obiettivi di scuola intesa come funzione di un mercato più allargato.
1) La legge sull’autonomia scolastica induce ad una concorrenzialità tra le scuole, soprattutto la dove in un determinato territorio se ne trovano più di una con stessa tipologia di indirizzi. La logica è: concorrere, perché attraverso la concorrenza si migliora la qualità : concetto questo tipico della produzione su scala industriale delle merci. Ne consegue per la funzione docente un reinventarsi continuo di progetti e di direttive didattiche, la cui qualità nessuno ancora lo ha verificato, ma che mette in discussione sicuramente: a) la materia come disciplina insegnata, poiché essa si colloca come paritaria rispetto alle varie attività, con conseguente sottrazione sistematica e reiterata di ore di insegnamento nel corso dell’anno scolastico, a favore di progetti integrativi b) la sottrazione di libertà didattica per il docente, il quale diventa ,in regime di concorrenza, un “soddisfatore di esigenze” del cliente-utente (allievo, genitore) che, se non gradisce la sua “relazionalità”, si rivolge altrove e sarà accolto a braccia aperte, felice di aver sottratto un giovane-utente all’isituto concorrente. Da ciò deriva: a) una ormai esasperata attenzione dei dirigenti scolastici per i genitori degli alunni, spesso a scapito dei docenti b) una crisi profonda di senso dei docenti , che vengono costretti a rinunciare a strategie e principi didattici alla lunga paganti, ma poco graditi dall’utenza, in favore di un insegnamento tutto volto alla soddisfazione di allievi sempre più impertinenti e legati a risultati di breve/brevissimo respiro, ma poco formanti da un punto di vista culturale più ampio. Perciò la riappropriazione di un senso del proprio lavoro può passare attraverso: a) il rifiuto di mischiare le ore di insegnamento con quelle di progetti, da realizzare a latere, b) la verifica con discussione plenaria sulla validità o meno dei progetti sviluppati nell’a.s. precedente, con relativa battaglia sul profilo culturale che essi devono rispettare, per poter essere ritenuti validi a tutti i livelli (cons. classe, collegio docenti, cons. d’istituto), anche se ciò, lo sappiamo, comporta uno scontro con cricche di colleghi, che attraverso questo modo pensano di costruirsi di fatto un personale aumento salariale.
Un altro caposaldo della funzione docente viene destrutturato, in alcuni casi addirittura per contratto: il potere decisionale del collegio docenti. E’ il luogo dove per definizione il dirigente scolastico può esercitare la sua nefasta influenza con minor pesantezza. E’ anche il luogo però dove i docenti spesso rinunciano a portare il proprio punto di vista. Questo è un grave errore: nessun altro mestiere ancora oggi prevede una assise, in cui il capo e i suoi sottoposti possano dialogare e decidere, nel senso che il detentore del potere (capo d’istituto) non può rifiutarsi di applicare le sue delibere. Ciò è ben presente anche al sindacalismo concertativo, che ha trasformato, per contratto, la figura del vice-preside da docente eletto dagli altri docenti in uomo dello “staff” della direzione della scuola-azienda. Riprendere la lotta nei collegi docenti, anche su aspetti secondari, significa mettere materialmente in discussione il potere esecutivo del dirigente scolastico. Discutere, contenderne palmo palmo il loro debordante atteggiamento da dirigenti aiuta a costruire un progetto di scuola, che pur se focussizzato nel singolo istituto, comunque contribuisce da esempio generalizzabile.

Vedi anche: autonomia scolastica , aziendalizzazione della scuola, modularità, valutazione (didattica),