Dopo l’introduzione delle norme sull’autonomia
scolastica alcuni elementi della funzione docente hanno subito una mutazione
che ne ha stravolto l’assetto. Per poter sviluppare in termini propositivi
un lessico alternativo a quello aziendalistico e dunque permettere all’insegnante
di “riappropriarsi” di strumenti consoni alla sua funzione, occorre
innanzitutto sentirsi “parte” di un processo generale di trasformazione
della funzione docente all’interno di un mutamento degli scopi per cui
la scuola viene ancora finanziata: è alla luce di tali mutamenti, per
lo più violentemente subiti, che si comprendono veri e propri fenomeni
di disagio/insoddisfazione. Soffermiamoci pertanto su alcuni elementi salienti
della trasformazione del lavoro docente, in modo da poterne circoscrivere meglio
le fenomenologia.
Si va affermando con un alone di modernismo nell’organizzazione didattica
una modalità dell’essere docente sempre più legata ad atti
e sequenzialità, che mirano a strutturare/destrutturare il suo lavoro.
Gli aspetti strutturanti
Il primo step è il cosiddetto insegnamento modulare (per una puntuale
definizione ,si rinvia alla voce “modularità” del lessico).
Esso ormai pervade il lavoro docente e ne condiziona il suo agire quotidiano:
1) settorializzando il sapere in modo esasperato, facendo smarrire all’allievo/a
la visione d’insieme di una tematica 2) coartando l’insegnante in
obiettivi specifici e togliendogli quella discrezione di poter “divagare”
dal tema, prestando attenzione alle esigenze specifiche del gruppo classe con
cui sta lavorando, 3) configurandosi come un vero e proprio pilastro, su cui
costruire elementi di valutazione del docente e mutatis mutandis del gruppo
docente di un determinato consiglio di classe o dell’istituto in cui si
lavora nel suo complesso.
Non a caso l’insegnamento modulare è molto caldeggiato dai dirigenti
scolastici. Le conseguenze sull’agire quotidiano sono che: a) il modulo
permette il controllo sistematico sul lavoro docente b) obbliga la relazione
docente/allievi dentro un canale in cui la personalità di entrambi viene
massimamente circoscritta, c) standardizza il lavoro docente al più alto
livello possibile e gli sottrae qualsiasi margine di discrezionalità,
dunque stravolge il principio costituzionale della libertà didattica.
Un altro step fortemente strutturante ,diremmo standardizzante, è lo
sviluppo prepotente delle cosiddette “griglie di valutazione” (ormai
un tormentone per i docenti impegnati negli esami di stato). Una siffatta modalità
di valutazione nasconde ,dietro il reale problema dell’oggettività
del giudizio, la volontà di prefigurare una “performance”
dell’allievo/a attesa , dopo un determinato passaggio didattico, senza
mai prendere in considerazione che la relazionalità instaurata tra docente
e allievo/a è per definizione “aperta”, dunque può
avere soluzioni differenziate, tutte ugualmente valide. La prefigurazione delle
“performances”, in base alle quali si precostituiscono le griglie
valutative finiscono immancabilmente per penalizzare la criticità, lo
sviluppo del pensiero divergente e last but not least il comportamento . Per
sviluppare dunque contrasto su questo campo è consigliabile rifiutare,
li dove esista ancora la facoltà di farlo, tale organizzazione del lavoro/valutazione.
La battaglia va condotta in primis a livello di istituto, poi eventualmente
di corso e infine di consiglio di classe. Opporre a ciò un insegnamento
che preveda la considerazione della criticità espressa dai singoli, del
disagio sociale di partenza, offre potenti antidoti al principio di darwinismo
sociale e mette in discussione la valutazione per griglie, poiché tali
fattori non possono facilmente essere introdotti nelle griglie stesse in termini
di scale valutative numeriche : non è infatti pensabile, ad esempio,
che ad un reddito sulla soglia di povertà si aggiunga per definizione
un voto o frazione di punto. Ciò invece è possibile, se si porta
una argomentazione complessiva, che va oltre la mera performance .L’espressione
di un giudizio, in alternativa alla valutazione “grigliata”, permette
,anche sul piano del linguaggio, di esprimere tutte le peculiarità racchiuse
in un/a giovane. Vi è un altro fattore che depone contro la valutazione
standardizzata: la pluralità delle intelligenze. Che esistano diverse
tipologie di intelligenza, è ormai un dato acquisito (per consultazione
offriamo il seguente libro: R.J.Sternberg, L-Spear-swerling, le tre intelligenze,
Erickson,1997). Se dunque esistono intelligenze differenti, tutte naturalmente
valide, come si può offrire un test valido per tutti i soggetti di un
gruppo classe, che presentano peculiarità completamente differenti? Persino
il giornale porta-voce della Confindustria italiana si interroga in un recente
articolo sulla non validità dei cosiddetti test strutturati (cit. “Ilsole24Ore
del 02.09.04, pag. 8).
Stiamo in effetti affermando che oggi si valuta e si viene valutati con categorie
che hanno caratteristiche molto affini a quelle con cui si valuta una merce.
L’attività valutativa strutturante e sequenziale, è accettata
(a torto) da un numero consistente di insegnanti, poiché apparentemente
più semplice e diretta. Essa permea il lavoro docente con un processo
di tipo consuetudinario, dunque molto difficile da individuare, proprio perché
legato alla quotidianità dell’agire. Sviluppare contrasto su questo
piano è una battaglia di lungo periodo, ma assolutamente ineludibile:
passano i governi con i vari orientamenti, si alternano ministri, ma restano
invariate le procedure valutative.
Gli aspetti destrutturanti.
Di nuovo, le leggi e i regolamenti berlingueriani hanno permesso la destrutturazione
di alcuni elementi costituenti la funzione docente. Questi appaiono poco logici,
se rapportati ad un concetto di scuola secondo i dettami costituzionali, ma
pregnanti, se rapportati ad obiettivi di scuola intesa come funzione di un mercato
più allargato.
1) La legge sull’autonomia scolastica induce ad una concorrenzialità
tra le scuole, soprattutto la dove in un determinato territorio se ne trovano
più di una con stessa tipologia di indirizzi. La logica è: concorrere,
perché attraverso la concorrenza si migliora la qualità : concetto
questo tipico della produzione su scala industriale delle merci. Ne consegue
per la funzione docente un reinventarsi continuo di progetti e di direttive
didattiche, la cui qualità nessuno ancora lo ha verificato, ma che mette
in discussione sicuramente: a) la materia come disciplina insegnata, poiché
essa si colloca come paritaria rispetto alle varie attività, con conseguente
sottrazione sistematica e reiterata di ore di insegnamento nel corso dell’anno
scolastico, a favore di progetti integrativi b) la sottrazione di libertà
didattica per il docente, il quale diventa ,in regime di concorrenza, un “soddisfatore
di esigenze” del cliente-utente (allievo, genitore) che, se non gradisce
la sua “relazionalità”, si rivolge altrove e sarà
accolto a braccia aperte, felice di aver sottratto un giovane-utente all’isituto
concorrente. Da ciò deriva: a) una ormai esasperata attenzione dei dirigenti
scolastici per i genitori degli alunni, spesso a scapito dei docenti b) una
crisi profonda di senso dei docenti , che vengono costretti a rinunciare a strategie
e principi didattici alla lunga paganti, ma poco graditi dall’utenza,
in favore di un insegnamento tutto volto alla soddisfazione di allievi sempre
più impertinenti e legati a risultati di breve/brevissimo respiro, ma
poco formanti da un punto di vista culturale più ampio. Perciò
la riappropriazione di un senso del proprio lavoro può passare attraverso:
a) il rifiuto di mischiare le ore di insegnamento con quelle di progetti, da
realizzare a latere, b) la verifica con discussione plenaria sulla validità
o meno dei progetti sviluppati nell’a.s. precedente, con relativa battaglia
sul profilo culturale che essi devono rispettare, per poter essere ritenuti
validi a tutti i livelli (cons. classe, collegio docenti, cons. d’istituto),
anche se ciò, lo sappiamo, comporta uno scontro con cricche di colleghi,
che attraverso questo modo pensano di costruirsi di fatto un personale aumento
salariale.
Un altro caposaldo della funzione docente viene destrutturato, in alcuni casi
addirittura per contratto: il potere decisionale del collegio docenti. E’
il luogo dove per definizione il dirigente scolastico può esercitare
la sua nefasta influenza con minor pesantezza. E’ anche il luogo però
dove i docenti spesso rinunciano a portare il proprio punto di vista. Questo
è un grave errore: nessun altro mestiere ancora oggi prevede una assise,
in cui il capo e i suoi sottoposti possano dialogare e decidere, nel senso che
il detentore del potere (capo d’istituto) non può rifiutarsi di
applicare le sue delibere. Ciò è ben presente anche al sindacalismo
concertativo, che ha trasformato, per contratto, la figura del vice-preside
da docente eletto dagli altri docenti in uomo dello “staff” della
direzione della scuola-azienda. Riprendere la lotta nei collegi docenti, anche
su aspetti secondari, significa mettere materialmente in discussione il potere
esecutivo del dirigente scolastico. Discutere, contenderne palmo palmo il loro
debordante atteggiamento da dirigenti aiuta a costruire un progetto di scuola,
che pur se focussizzato nel singolo istituto, comunque contribuisce da esempio
generalizzabile.
Vedi anche: autonomia scolastica , aziendalizzazione della scuola, modularità, valutazione (didattica),