E’ una parola nobile che evoca creatività e intraprendenza:
la progettualità appartiene all’uomo come i tre lati appartengono
al triangolo. Il linguaggio registra questa connotazione positiva della parola,
in qualsiasi contesto la si utilizzi.
Dal settembre 2000 la scuola è stata trasformata con la riforma Berlinguer
in scuola dell’autonomia, con lo scopo –citiamo le fonti del tempo-
di “mettere in moto un meccanismo che tenda a portare tutte le componenti
della scuola a lavorare per progetti e nell’ottica dei progetti”.
Per la scuola e gli insegnanti del nuovo millennio si sarebbe dovuta aprire
un’epoca di fermento creativo senza precedenti. Così non è
stato, non è e non sarà, perché la parola progetto, distorta
nel suo significato, è stata introdotta nel vocabolario e nella prassi
scolastica non per esigenze culturali, ma per effetto della pressione esercitata
negli ultimi decenni dal processo di deregolamentazione neoliberista sull’intera
sfera delle attività umane.
Il sistema dei progetti è nato negli enti locali, e si è poi diffuso
in quasi tutti i rami della pubblica amministrazione, come via maestra per realizzare
una sostanziale privatizzazione di ambiti di lavoro formalmente pubblici. I
progetti sono il mezzo più efficace per esternalizzare le prestazioni
lavorative, per creare competizione e differenze salariali tra i lavoratori
e per consentire la loro utilizzazione in forma precaria. La Legge Biagi ha
dato veste giuridica al “lavoro a progetto”, cioè a un tipo
di assunzione a termine che scade al compimento del progetto stesso. La parola,
oggi, è stata talmente dequalificata da consentirne l’uso anche
per indicare la più banale delle attività, a scuola come in tutti
gli enti privati e pubblici; nelle aziende anche l’essere impiegati per
chiudere scatoloni può valere un’assunzione a “progetto”.
La “scuola dei progetti” oltre a promuovere un’assimilazione
di massa dei nuovi linguaggi aziendali, predispone il terreno per un radicale
cambiamento del rapporto di lavoro scuola-docente: non più assunzioni
attraverso graduatorie e concorsi pubblici, ma a chiamata diretta e, soprattutto,
a “progetto”, ovvero a termine. Si faccia attenzione ad alimentare
questo sistema nella scuola, dove vale il detto “chi di progetti ferisce
di progetti perisce”. Sarà soprattutto la prossima generazione
di docenti a pagare per intero le conseguenze distruttive di questa pratica,
per cui è un dovere dei docenti di oggi respingere un modello di scuola
culturalmente insensato.
Allo stato attuale la prima vittima della scuola dei progetti è il sistema
nazionale pubblico dell’istruzione. Assegnare ad ogni scuola il compito
di elaborare un Progetto educativo (il ridicolo POF), imperniato sulla specificità
dei progetti proposti dai singoli docenti della singola scuola, equivale, quanto
a senso, ad assegnare ad ogni singola caserma il compito di elaborare in autonomia
un piano di difesa del territorio. L’effetto sarebbe il medesimo: tanto
più numerosi e articolati fossero i progetti concepiti dalle singole
caserme, tanto più sarebbe disarticolato il sistema di difesa nazionale,
che cesserebbe di essere tale.
La seconda vittima è l’unità organica dei percorsi disciplinari.
Una disciplina di studio si definisce come struttura di conoscenze che educa
a pensare con l’alfabeto proprio di quella disciplina. I contenuti disciplinari
sono parti dell’intero, e in esso hanno la loro ragion d’essere.
Scorporare le parti e parcellizzarle all’infinito, per poi chiamarle “progetto”
è porsi agli antipodi di qualsiasi autentico progetto culturale, che
non può prescindere da una costruzione organica della conoscenza in vista
di uno scopo educativo globale.
La terza vittima della scuola dei progetti è la qualificazione culturale
dei docenti, perché insegnanti dediti con impegno dilettantesco ad attività
che esulano dalle specifiche competenze professionali, prefigurano, al di là
delle buone intenzioni, il docente della scuola riformata: un animatore privo
di reali interessi culturali, in balia delle mode e impegnato in attività
subalterne e di facciata. Non fare resistenza su questo terreno strategico significa,
tra l’altro, non disporre di alcun potere contrattuale per contrastare
la svalutazione del profilo professionale docente (enfatizzato a chiacchiere)
e dei livelli retributivi. L’insegnante della scuola dei progetti sarà
trattato a pesci in faccia. Ed è giusto che sia così.
L’opposizione alla scuola dei progetti non si fa contrapponendo ai cattivi
progetti senza capo né coda i buoni progetti e di “sinistra”.
I progetti buoni fanno danni maggiori di quelli cattivi, perché ancor
di più accreditano il sistema e quindi alimentano il processo di svuotamento
culturale della scuola. Bisogna scardinare il sistema: il Collegio docenti,
ad esempio, potrebbe dirottare le risorse disponibili per i progetti verso una
retribuzione unitaria che valorizzi l’insegnamento di cattedra, nel quadro
di una concezione disciplinare ed organica del sapere. In questa prospettiva
di autodifesa professionale ben venga, allora, che il Collegio approvi il “progetto
correzione dei compiti”, ovvero un riconoscimento di un congruo numero
di ore retribuite per quegli insegnanti che per interi pomeriggi correggono
i compiti in modo serio, e che perciò non ricorrono alla devastante didattica
dei test. O il progetto “preparazione delle lezioni a casa”. E via
dicendo.
Vedi anche: aziendalizzazione
della scuola, precario/a
- precarizzazione