Capitalismo cognitivo, ruolo della conoscenza e controllo sociale
Andrea Fumagalli


Quando si parla di tecnologia della comunicazione, di capitalismo delle reti, di società della conoscenza si intendono diverse realtà, spesso usate a sproposito e spessi fra loro frammischiate.
Quando si parla di sapere, formazione, competenze, conoscenze, si fa riferimento a concetti che qualche volta rimandono ad analogie (sinonimi) altre volte presentano sfaccettature differenziate.

L’assunto di partenza è che a più di un quarto di secolo dalla crisi del paradigma taylorista-fordista-keynesiano e dopo un decennio di studi e di analisi sulle nuove forme della produzione e dell’organizzazione sociale, è possibile mettere in luce alcuni elementi portanti che caratterizzano in modo strutturale ed irreversibile il nuovo paradigma produttivo, organizzativo e sociale che opera nel nord-capitalistico del pianeta e che chiamiamo “dell’accumulazione flessibile” (meglio) o “post-fordista” (peggio) e anche “capitalismo cognitivo”.

? La produzione di ricchezza non più è fondata solo ed esclusivamente sulla produzione materiale ma si basa sempre più su elementi di immaterialità, vale su “merci” intangibili, difficilmente misurabili e quantificabili, che discendono direttamente dall’utilizzo delle facoltà relazioni, sentimentali e cerebrali degli esseri umani;

? La produzione di ricchezza non è più fondata su uno schema omogeneo e standardizzato di organizzazione del lavoro, a prescindere dal tipo di bene prodotto. L’attività di produzione si attua in diverse modalità organizzative, caratterizzate da una struttura a rete, grazie allo sviluppo delle tecnologie di comunicazione linguistica e di trasporto. Ne consegue uno scompagimento della tradizionale forma gerarchica unilaterale interna alla fabbrica che viene sostituita da strutture gerarchiche che si attuano sul territorio lungo filiere produttive di subfornitura, caratterizzate da cooperazione e/o comando;

? La prestazione lavorativa si modifica sia quantitativamente che qualitativamente. Riguardo le condizioni di lavoro (l’aspetto quantitativo), si assiste ad un aumento degli orari di lavoro e, spesso ad un cumulo di mansioni lavorative, al venir meno della separazione tra tempo di lavoro e tempo di vita, ad una maggior individualizzazione dei rapporto di lavoro. Inoltre la prestazione lavorativa acquista sempre più elementi di immaterialità: l’attività relazionale, di comunicazione e cerebrale diventano sempre più compresenti e importanti. Tali attività richiedono formazione, competenze e attenzione: la separazione tra mente e braccia, tipica della prestazione taylorista, si riduce sino a sviluppare un connubio di routines e di intensa partecipazione attiva al ciclo produttivo. Alla divisione tradizionale del lavoro per mansioni si aggiunge la divisione dei saperi e delle competenze, aumentando il grado di assoggettamento del/la lavoratore/trice ai tempi del processo produttivo. Tale assoggettamento non è più imposto in modo disciplinare da un comando diretto, il più delle volte viene introiettato e sviluppato tramite forme di condizionamento e di controllo sociale. L’individualismo contrattuale che ne consegue rappresenta la cornice istituzionale giuridica, al cui interno il processo di emulazione e di competizione individuale tende a diventare la linea-guida del comportamento lavorativo.

Ciò che cui preme sottolineare all’interno di questo abbozzo di quadro analitico, è il ruolo assunto dalla conoscenza e dai saperi e, di conseguenza, dai processi formativi.
Il primo punto è che la conoscenza oggi è un fattore produttivo centrale, soprattutto nelle aree del mondo dove si sviluppano le funzioni di controllo tecnologico, finanziario e organizzativo della produzione materiale, che sempre più viene dislocata ed esternalizzata, secondo filiere produttive, le più disparate, nel Sud del mondo. C’è una catena di subordinazione gerarchica permessa dal fortissimo sviluppo avuto negli ultimi anni dalle tecnologie del linguaggio e della comunicazione da un lato, e le tecnologie del trasporto virtuale e materiale dall’altro. Viviamo in una realtà dove alle autostrade che trasportano merci si sono aggiunte autostrade che trasmettono i flussi di informazione e conoscenze. E il controllo a distanza tramite le tecnologie della conoscenza e del linguaggio consente ai paesi ricchi del mondo di controllare i processi produttivi fatti a migliaia di chilometri di distanza, e di mantenerli sotto quello stesso livello della subalternità e del comando che è insito in un’organizzazione capitalistica, dove il rapporto capitale-lavoro, pur modificandosi nelle sue forme, rimane in un rapporto discriminante e impari, a vantaggio del capitale e a danno delle diverse condizioni lavorative.
Si sviluppa così una nuova divisione internazionale del lavoro che a quella tradizionale delle mansioni e qualifiche di origine taylorista aggiunge anche quella generata dalla divisione spaziale della conoscenza e della comunicazione. E’ questa la nuova divisione internazionale dei processi di accumulazione che sta alla base delle dinamiche spaziali globali. La geografia della comunicazione e della conoscenza è anche geografia dell’esclusione. A livello internazionale, siamo di fronte ad un mondo a pelle di leopardo in cui le zone ipertecnologizzate e connesse in rete sono circondate dai mondi della fame e della sete, che comprendono buona parte del pianeta. Quello che è comunemente chiamato il digital divide non è altro che il fattore strutturale che sta alla base dell’accumulazione globale postfordista, senza il quale le leve del comando neoliberista non riuscirebbero ad imporsi. Le gerarchie geoeconomiche che ne derivano sono il frutto di tale divisione iperspaziale della conoscenza e del saper “far rete” o “saper comunicare”..
Questo avviene grazie al fatto che si è sviluppato un mercato della conoscenza, un mercato in cui c’è scambio di informazioni, scambio di competenze, di saperi. In generale lo scambio di conoscenze, anche se il mercato della conoscenza è molto segmentato al suo interno, si basa sul fatto che la conoscenza sia una merce. La questione è la seguente: la conoscenza (e di conseguenza, da un lato, il processo di trasmissione della conoscenza, ovvero la formazione scolastica, e, dall’altro, il processo di generazione della conoscenza, ovvero l’attività di ricerca scientifica) può essere effettivamente considerata una merce, alla stregua di un qualsiasi fattore produttivo? Sappiamo che, in un’ottica capitalistica neoliberista, diventa merce tutto ciò a cui è possibile associare un valore positivo (prezzo) sulla base del principio della scarsità. La teoria del valore che giustifica il libero mercato è, infatti, il principio della scarsità. Più un bene è abbondante, più il suo prezzo sarà basso, più il bene è scarso, più il suo prezzo sarà alto. E questo spiega perché c’è diversità di prezzi e diversità di redditi; viene presentato, in modo fittizio, come un’equilibrio quasi naturale. La condizione ulteriore che giustifica lo scambio economico è che, contemporaneamente, lo scambio economico sancisce un passaggio di diritti di proprietà. Quando compro un qualunque bene, di fatto compro il diritto di proprietà esclusiva su quel bene: una volta acquistato, infatti, posso fare quello che voglio (anche distruggerlo, invece di usarlo o consumarlo) senza incorrere in nessun reato penale. Lo scambio economico è quindi di fatto, per tutte le merci, un passaggio di diritti di proprietà. Più problematico diventa l’analisi di quei mercati e quelle merci che in qualche modo hanno a che fare o con la natura o con l’essere umano. Per esempio il lavoro. Spesso il lavoro viene considerato, in termini economici, una merce (forza lavoro, merce lavoro). Quello che viene scambiato non è l’essere umano (questo capitava nelle realtà schiavistiche, e, in parte, perdura ancora oggi). Ciò che viene scambiato è la disponibilità lavorativa in termini di ore di tempo di vita, in cambio di un salario che dovrebbe rappresentare il prezzo della disponibilità oraria a lavorare. C’è una separazione tra disponibilità lavorativa ed essere umano in carne ed ossa che ha questa disponibilità (spesso necessità). E questo comporta problemi di alienazione, segmentazione, separazione, tutta una serie di problemi che hanno caratterizzato l’evoluzione del mercato del lavoro capitalistico a seconda dei contesti produttivi. Nelle produzioni fordiste, meccaniche e ripetitive, la separazione tra tempo di lavoro e tempo di vita, cioè tra disponibilità lavorativa ed essere umano, era molto netta. Nel contesto attuale, invece, l’evoluzione delle forme capitalistiche di produzione e la necessità di allargare i termini consentiti dallo sfruttamento delle risorse naturali e umane, hanno portato sempre più ad inserire in un contesto lavorativo tutta una serie di fattori, attività e facoltà umane, che in passato non erano mercificabili: i sentimenti, le relazioni, l’apprendimento, l’esperienza di vita maturata nel corso della propria esistenza. Così come non basta più il processo di controllo della natura e delle risorse naturali, ma si cerca di passare al controllo delle trasformazioni genetiche di queste risorse naturali, un ulteriore processo che incrementa l’intensità dello sfruttamento delle basi stesse della nostra vita, di noi come esseri animali, la natura e tutto il resto. E da questo punto di vista il sistema capitalistico diventa molto più feroce, molto più pervasivo, molto più intensivo. Non produce più solo quantità di merce ma produce anche qualcosa che va al di là della pura e semplice merce. E’ un processo bioeconomico, ma non nel senso di quell’ecologismo radicale degli anni Settanta, esemplificato dagli scritti di Georgescu-Roegen che parlavano di bioeconomica in termini di sfruttamento della natura. Oggi siamo in un contesto bioeconomico non solo perché si sfrutta intensamente la natura, ma si sfrutta soprattutto la vita nel senso di bios. E la conoscenza è l’elemento centrale di questo sfruttamento.
Lo scambio di conoscenza è, infatti, scambio di emozioni, di vita, di esperienze. Ma la conoscenza non è completamente separabile dall’essere umano. Mentre la capacità lavorativa è in qualche modo separabile e si può scindere dall’essere umano (tanto più il lavoro è alienante), la conoscenza, e l’attività cognitiva fanno parte integrante dell’essere umano. Scambiare conoscenza vuol dire scambiare attività cerebrali-cognitive (il cervello). E’ possibile che tale scambio implichi passaggio di diritti di proprietà? Ovviamente no, perché ogni trasmissione (scambio) di informazione e conoscenza, quando avviene, ha come risultato effettivo la diffusione di tale informazione o conoscenza tra un numero sempre più vasto di individui.. In altre parole, lo scambio di informazioni e conoscenze non implica alienazione del bene venduto da parte di chi vende, come avviene per tutti i beni materiali ed i servizi, per i quali si matura un certo valore e un certo prezzo in base alla loro scarsità. La conoscenza non è scarsa, non potrà mai essere un bene scarso; è un bene che man mano che la conoscenza aumenta produce processi di cumulazione delle conoscenze, e diventa sempre più abbondante. Paradossalmente, più si consuma informazione e conoscenza, invece di diminuire, quest’ultime tendono a diffondersi e a divenire “abbondanti”.E da questo punto di vista, secondo la teoria liberista classica, come i padri dell’equilibrio economico generale hanno scritto, il prezzo della conoscenza dovrebbe essere zero. Il che significa che in un’ottica puramente capitalistica non è possibile esercitare diritti di proprietà sulla conoscenza. Per l’ideologia del libero scambio, si tratta di una contraddizione insanabile: perché la conoscenza abbia un prezzo positivo e diventi quindi merce di scambio, è necessario imporre la struttura della proprietà intellettuale dei brevetti, cioè un sistema artificioso che consenta di imporre un valore a un bene che da un punto di vista capitalistico non dovrebbe averne e dovrebbe liberamente circolare.

Abbiamo argomentato che la conoscenza non può essere una merce nel senso capitalistico del termine, non è una quindi una merce privata, su cui poter esercitare dei diritti di proprietà, a meno che non si considerino degli interventi ad hoc (brevetti, copyright, diritti di esclusiva, ecc.).
Ne consegue che la conoscenza è un bene “comune”, nel senso che è frutto dell’interazione collettiva dell’agire umano e sociale.
Anche la trasmissione(formazione scolastica) e la generazione della conoscenza (attività di ricerca) è per forza un attività comune e pubblica. Non è necessario partire da premesse ideologiche anticapitalistiche per arrivare a questa conclusione: anche in un’ottica capitalistica si arriverebbe a tale conclusione se si applicasse una teoria rigorosamente liberista.

Tuttavia, non è così. E la ragione è chiara. Nel moderno capitalismo cognitivo, la conoscenza diventa una variabile di comando e di dominio che differenzia tra loro gli uomini, un nuovo fattore di gerarchia e segmentazione nel lavoro.
Siamo in un contesto in cui la differenza tra lavoro manuale e lavoro intellettuale si sta tendenzialmente rimodellando. Oggi la pervasività della conoscenza e la mercificazione imposta alla conoscenza fanno sì che la differenza tra lavoro manuale e lavoro intellettuale stia di fatto venendo meno. Ci sono lavori cosiddetti manuali che richiedono l’accesso ad informazioni, conoscenze e pratiche linguistiche, magari standardizzate e proceduralizzate mediante il linguaggio della macchina informatica, e quindi ripetitive, ma che comunque abbisognano di saperi, copmpetenze, in/formazione. Così come molto lavoro intellettuale, grazie proprio alle tecnologie informatiche, si sta in un certo senso taylorizzando. Non c’è più creatività nel lavoro, creatività in senso “artistico” Il cervello diventa fattore produttivo esattamente come il braccio. Non c’è più separazione tra braccio e cervello, c’è una commistione delle due componenti principali dell’agire umano, il corpo e la mente. E questo, oltre a essere un sintomo del ruolo della conoscenza nei processi produttivi, pone anche il problema di come controllare la prestazione lavorativa.
Finché si deve controllare il corpo ci sono organismi disciplinari che consentono di raggiungere lo scopo, ma controllare la mente è un qualcosa più complesso. Lo strumento centrale per raggiungere questo obiettivo è il controllo e la manipolazione del processo di trasmissione della conoscenza. In tal modo si possono ottenere contemporaneamente più risultatio. Da un lato, si selezionano le nozioni di sapere che possono essere diffuse su larga scala, dall’altro, si inducono processi di specializzazione delle competenze sulla base delle esigenze di profittatilità del processo di accumulazione.
Credo che la riforma universitaria in Italia (quella dei “tre anni più due”), sul modello anglosassone, sia molto esplicativa da questo punto di vista. I primi tre anni di università si chiamano “laurea professionalizzante”, gli ultimi due anni si chiamano “laurea specialistica”.
La laurea professionalizzante è finalizzata a insegnare una professione, cioè a fornire una specializzazione in un qualsiasi settore, in un tempo relativamente breve, considerando che c’è un ammasso di conoscenze in continuo accumulo, e quindi comporta necessariamente un processo di specializzazione e selezione tecnocratica rispetto alle finalità operative e lavorative, e quindi innesca il controllo.
La laurea specialistica è quella che, a un livello più alto, dovrebbe consentire la formazione di competenze non immediatamente diffondibili. Quando uno studente ha finito i primi tre anni di università è in grado di produrre competenze codificate all’interno dei processi lavorativi, che le macchine informatiche consentono di diffondere. Chi detiene quelle competenze può essere “usato e gettato”, perché c’è sempre qualcun altro che può adoperare quelle stesse competenze, dato che sono competenze interscambiabili. Chi invece va avanti col processo di selezione entra in possesso di conoscenze “tacite”, cioè conoscenze che non sono immediatamente scambiabili attraverso mezzi meccanici e autostrade informatiche, e che invece per essere utilizzabili richiedono la presenza del lavoratore. Il lavoratore ha così un potere contrattuale.
Quindi abbiamo una divisione dei saperi con forme di controllo differenziate sui processi di educazione che implicano processi di controllo delle menti, dei cervelli, e quindi in un certo senso processi di controllo sociale. La disciplina della fabbrica viene poco a poco sostituita da meccanismi di controllo sociale che si basano sul controllo della diffusione di informazioni, sapere, conoscenze, in una parola, dei processi formativi in corso.
In conclusione, credo sia necessario iniziare a discutere della formazione professionale partendo dai seguenti punti:

1. Il concetto di sapere non è univoco ed omogeneo, così come si presentava all’inizio del ciclo di lotte degli anni ’60 e ’70. In quanto nuova frontiera della divisione del lavoro, il sapere è definibile almeno a tre livelli:
? sapere come formazione tecnica, specializzata e professionale codificata, standardizzata e diffusa; è il livello di base, necessario per l’inserimento nella produzione materiale e immateriale; in quanto sapere diffuso deve essere garantito da centri di istruzione istituzionale (siano essi pubblici o privati), in quanto sapere professionale, la sua diffusione deve essere controllata dal mondo della produzione (il che implica che l’attività di produzione coordina e controlla la distribuzione e i contenuti della formazione professionale ? riproposizione della segmentazione sociale fondata sul sapere e della presunta neutralità della conoscenza).
? sapere come competenza e conoscenza tacita, non codificabile, non trasmettibile, esclusiva e individuale; rappresenta la forma di sapere più produttrice di valore aggiunto, pertanto nevralgica per attività produttive competitive, la più “coccolata” soprattutto nell’ambito delle nuove tecnologie e nella risoluzione di problemi logistici; chi detiene tale sapere ha di solito un buon potere contrattuale a livello individuale con elevato turn-over lavorativo ed una flessibilità attiva non subita e, spesso, tende ad omologarsi con la visione imprenditoriale.
? sapere come cultura in grado di sviluppare capacità critica e analitica autonoma, in grado di contestualizzare le varie situazioni. E’ la forma di sapere più libera e meno condizionabile dall’apparato produttivo, quindi la più pericolosa e sovversiva. In un contesto di società di controllo e sorveglianza, deve essere negato. E’ il tipo di sapere che rischia l’estinzione.

2. Si assiste oggi ad un controllo crescente del sapere e dell’informazione, in quanto fattori cruciali di produzione. Ma controllare il sapere, in tutte le sue forme, è comunque qualcosa di complesso e difficile in quanto il sapere è per sua natura sapere individuale, dell’individuo. In ciò sta una potenziale contraddizione. Il controllo del sapere avviene tramite processi forzati diretti e processi indiretti di controllo della coscienza individuale. Un esempio del primo caso è costituito dalla proposta di formazione professionale obbligatoria sino a 18 anni. Un esempio del secondo caso è la costruzione del senso comune dominante relativo alla necessità di dotarsi di saperi professionali per avere più chanches di migliorare la propria capacità lavorativa, senza avere gli strumenti o senza rendersi conto che si tratta di saperi professionali standardizzati e trasmettibili.

3. Il risultato è che più aumenta la formazione professionale più aumenta il livello di “ignoranza”, dove per ignoranza si intende l’incapacità di contestualizzare e di sviluppare un pensiero critico.

4. Si tratta di una contraddizione in fieri su cui è necessario operare.