Lettera di un insegnante prima punito, oggi assolto per non aver somministrato i test Invalsi

Ai colleghi, agli organi di stampa

Trieste, 15 giugno 2006
Ho sempre visto nella scuola un luogo per dialogare, per confrontarsi tra insegnanti, studenti, genitori, per convincersi; un luogo dove le decisioni, che riguardano l’educazione delle giovani generazioni, dovrebbero essere condivise o perlomeno essere il frutto di un dibattito costruttivo anche se talvolta sofferto.
Sono un insegnante di scuola media ed in questi ultimi anni ho potuto constatare che ci si è sempre più allontanati da un modello democratico di scuola per approdare ad un sistema che fonda le proprie ragioni educative sull’autorità, su decisioni e riforme calate dall’alto, su provvedimenti coercitivi che poco hanno a che fare con i principi costitutivi della scuola pubblica italiana nata sulle fondamenta della nostra Costituzione.
Il mio caso forse potrà sembrare di poco conto ma per me è stato un chiaro sintomo di involuzione del sistema scolastico oltre a rappresentare una ferita alla professionalità dell’insegnante.
La materia del contendere sono stati i Test Invalsi, fortemente voluti dal Ministro Moratti: i quiz che avrebbero dovuto misurare la preparazione degli alunni delle scuole italiane; tutti uguali per tutti, quasi una prova generale per il futuro esame della patente. Non c’è bisogno di tener conto che Luisa incontra difficoltà nell’analisi di un testo, che Sergiu è giunto in Italia dalla Romania solo sei mesi fa e non vuole prove differenziate ma solo essere aiutato quando ne ha bisogno, che Costantino affronta ancora con molta ansia tutte le prove di verifica. Non importa. Il Ministero e l’Invalsi vi vogliono tutti uguali, la scientificità è il valore supremo su cui non si può discutere.
Ed io, insegnante? Anche qui il problema è risolto alla radice. Per alcuni giorni devo smettere i panni del professore e diventare un “somministratore di test”; c’è poco da discutere, mi hanno preparato anche un manuale, che devo seguire scrupolosamente, dall’applicazione delle etichette autoadesive alla parole da dire agli studenti in difficoltà, dove far sedere gli alunni audiolesi e come relazionarmi con la mia classe. La mia classe? Azzardato. Mi conoscono bene: come con tutti i professori che credono ancora nell’articolo 33 della Costituzione italiana, anche di me non ci si può fidare. Mi metteranno a somministrare test di una materia che non insegno (la matematica) e soprattutto in una classe che non conosco. Il gioco è fatto. Cerco di discuterne nel Collegio dei docenti (che può essere considerato il parlamento di ogni scuola): non c’è spazio di discussione. I test si devono fare e basta! Qualcuno ha deciso che sono obbligatori e che gli insegnanti sono anche somministratori. In realtà si parla più di circolari ministeriali che di fonti legislative; ma non importa, la macchina non può essere bloccata; le scuole non possono permettersi di fermarsi a riflettere.
Io sì; con i miei limiti ma anche con le mie competenze di insegnante non posso non pensare e rendermi conto di essere costretto a fare una cosa sbagliata. A questo punto decido di usare l’unico strumento a mia disposizione: l’obiezione di coscienza fondata su ragioni di ordine legislativo, deontologico e didattico-pedagogico; più di quarant’anni fa Lorenzo Milani sosteneva che l’obbedienza non è più una virtù <<Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto>>. Io, nel mio piccolo, mi sono sentito responsabile dei miei alunni e degli alunni che non conoscevo ma ai quali mi obbligavano di somministrare dei test; mi sono sentito responsabile nei confronti del ruolo del docente e di una scuola pubblica che va tenuta lontana da una deriva pseudoscientifica che vuole misurare e valutare senza conoscere e coinvolgere i protagonisti di questa scuola, cioè gli alunni e gli insegnanti. Dentro di me sentivo di fare la cosa giusta anche perché non ero solo; altri insegnanti in tutta Italia si stavano muovendo in modo simile con il sostegno decisivo dell’unico sindacato disposto ad appoggiarci: i COBAS della scuola e il Cesp.
La dirigente del mio Istituto non ha compreso le ragioni della mia scelta ed ha preferito percorrere l’impervio sentiero dell’imposizione e del provvedimento disciplinare: richiamo verbale, ordine di servizio, contestazione di addebiti ed infine l’avvertimento scritto.
Alla mia storia bisogna però aggiungere un epilogo, un positivo epilogo: giovedì 15 giugno, in sede di Conciliazione, la dirigente ha ritirato il provvedimento disciplinare nei miei confronti. Cosa l’ha convinta? Le nostre ragioni? Un ripensamento sull’obbligatorietà dei Test Invalsi? Forse l’idea che il dialogo ed il confronto possono più dei provvedimenti disciplinari? La constatazione che a livello ministeriale è stato avviato un processo di revisione di questi test nella consapevolezza che le riforme (qualunque esse siano) richiedano tempo, dialogo, costruzione e convincimento?
Per quanto mi riguarda posso solo dire che il prossimo anno ritornerò tra i banchi di una scuola pubblica il cui valore, insieme ad altri, ho cercato di difendere e di promuovere.

Davide Zotti (Trieste)