Atti anticipati
del III Convegno nazionale sul Tempo Pieno Firenze, 3 dicembre 2005 |
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Il tempo
per lo spettacolo. La scuola come ritorno al cortile negato. |
La testa tra
le nuvole Gianluca Gabrielli |
Saluto Maria Francesca Corigliano Vice Sindaco Comune di Cosenza |
Piccoli ritratti
a tutto tempo Manuela Giusti |
La valutazione
all'epoca dela riforma Moratti: Il Tempo Pieno distrutto per "passaggi
interni"? |
Il laboratorio di teatro Angela Batoni e Sonia Bortolotti |
Tempo Pieno, gruppo
classe e compresenza Bruna Sferra, maestra, Roma |
La 'colonizzazione'
degli spazi Carla Carpigiani, Bologna |
Scuola migrante Alidina Marchettini |
Il gruppo,Tempo Pieno: problematiche
e ricchezze in un percorso con tutte le risorse necessarie Sonia Bortolotti |
Riflessioni sparse sulla
ricreazione Carla Carpigiani e Gianluca Gabrielli |
Il tempo per lo spettacolo. La scuola come ritorno al cortile negato.
Quale differenza profonda viviamo tra un’organizzazione
oraria a tempo pieno a quella modulare con rientri? Ve ne sono molte, d’accordo,
ma quella della qualità del tempo e del conseguente miglioramento della
relazione all’interno del gruppo classe, ci pare molto significativa.
Perché un bambino viene a scuola? Vogliamo dire, per lui cosa è
importante e gratificante? Molti studi ma anche una semplice osservazione diretta
portano alla conclusione che il bambino pensa principalmente ai propri compagni.
Le varie materie di studio, le insegnanti e i genitori con la crescita e il
raggiungimento dell’autonomia personale diventano progressivamente sempre
più motivazioni secondarie. Il principale interlocutore diventa l’amico,
il compagno di classe. E quando può avvenire questa reale socializzazione
se non lontano dalla mediazione dell’adulto e in spazi destrutturati che,
scolasticamente parlando, solo il tempo pieno può fornire ?
Tutti possono vedere che per varie ragioni i bambini, ma anche gli adulti…,
vengono sempre più controllati e non vivono più momenti di libertà
lontani da occhi o orecchie indiscrete. Certamente tale lontananza deve essere
comunque valorizzata-incentivata-monitorata dal docente tuttavia crediamo che
solamente il tempo pieno, pensiamo soprattutto alla pausa mensa, permetta di
far rivivere e stimolare le dinamiche tipiche della vita dei bambini nei cortili,
o nei giardini, oggi di così difficile fruizione specialmente nelle grandi
città.
Abbiamo avuto la conferma di questa affermazione osservando gli spettacoli che
gli alunni della nostra seconda elementare organizzano durante l’intervallo-mensa.
Non abbiamo mai chiesto loro di farlo. Certo, durante l’anno andiamo a
teatro e durante le attività quotidiane cerchiamo di inserire attività
espressive in molte direzioni ma non abbiamo mai detto loro di preparare una
recita o un balletto durante l’intervallo. E’stata un’idea
spontanea, socializzante e realmente educativa. Gli spettacoli, che spesso comprendono
piccole coreografie, vengono seguiti e criticati dalla classe durante il pomeriggio.
Ovviamente quello che ci interessa non è il prodotto ma il processo,
e soprattutto il profondo intreccio relazionale e creativo che solo la magia
del teatro o dello spettacolo sanno creare. Crediamo che tutto questo sia molto
facilitato dalla quotidianità e dalla intensa relazione che solo il tempo
pieno può fornire ai bambini.
Silvia e Michele (Scuola el. di Limidi-MO)
Insegno nella scuola elementare a tempo pieno. Quando insegno
faccio fatica ad ascoltare, o meglio ad ascoltare i pensieri delle bambine e
dei bambini cui parlo. Mi concentro su quello che dico, su come dirlo, uso diversi
registri uno dopo l’altro per incontrare i diversi stili di apprendimento,
cerco di coinvolgere i bambini facendone degli attori della mia spiegazione,
li incalzo… Quando sono “in forma” le spiegazioni durano poco,
dai 5 ai 15 minuti, dipende dall’argomento… Quando parto da presupposti
sbagliati o sono stanco, o sono poco preparato viene fuori un pateracchio faticoso,
con cadute e trascinamenti e perdita per strada (dell’attenzione) di decine
di bambini… Così è.
Una curiosità quindi mi assale ogni volta al termine della mia spiegazione:
cosa pensano i bambini che si distraggono? Non è una curiosità
che parte solamente dal bisogno di essere “efficaci” nel suscitare
la motivazione e l’attenzione didattica; è una curiosità
gratuita, da impiccione, da esploratore… Mi immagino che i pensieri della
distrazione che conquistano i miei alunni e alunne siano mani seducenti che,
come l’angioletto e il diavoletto di Paperino, bussino alla loro mente
e porgano la mano ai loro pensieri per invitarli a fare un giro… a zonzo,
flâner… Una passeggiata succulenta che spesso non ha confronti con
quella che io vado proponendo…
Così di tanto in tanto faccio domande. Mi fingo antropologo e, con studiata
noncuranza, li interpello negli intervalli o a tavola: “a ché pensavi
quando prima ti sei distratto?” “dove era andata la mente?”
La cosa assolutamente indispensabile è sciacquarsi di dosso ogni ombra
valutativa sulla distrazione – e non è facile, per chi è
maestro/a. Infatti attorno alla quotidianità scolastica si forma involontariamente
un “contratto didattico” che riunisce le regole implicite di relazione:
tra queste campeggia la deplorazione della distrazione e da qui tutti i corollari
comportamentali di difesa (chi si distrae dissimula, nasconde, mostra imbarazzo).
Quando il soggetto che spesso recita la parte del censore chiede che la si racconti,
il primo riflesso involontario comprensibile è quello di negarla o raccontarne
solo una parte.
Eppure su cinque o sei ore di scuola (attività formalizzata) al giorno,
tipiche del tempo pieno, i pensieri di distrazione non possono che occupare
la maggioranza del tempo se vogliamo che la salute psichica delle creature si
conservi. Quella distrazione è indispensabile, quindi, e vive in sinergia
e equilibrio con l’attenzione. Gianni mi spiega timoroso che quando l’ho
chiamato a ripetere l’argomento della spiegazione stava pensando all’automobilina
che gli hanno regalato e che avrebbe montato quella sera stessa, gli chiedo
come è fatta e allora si scioglie e racconta che ha un motore e ruote
in gomma e va a pile e.. e.. e.. ecco il desiderio e il piacere che si mostra,
l’antagonista forte delle mie lezioni… Ecco che Gianni si fida e
ritiene che la seduzione di quella macchinina possa essere compresa (e magari
condivisa) dal maestro che lo ascolta…
In seguito ho cambiato metodo di rilevazione. Ho la telecamera, e con essa
posso limitare ulteriormente l’effetto emotivo che la mia presenza provoca
sulle ragazze e sui ragazzi - la presenza di chi rappresenta l’istanza
dell’attenzione. Una mattina l’ho piazzata in classe, collegata
alla televisione, i ragazzi fuori nei corridoi a fare semplici operazioni. Chi
voleva (subito, domani, quando si stancava, quando riacchiappava un pensiero
di distrazione) poteva entrare e pigiare REC, sedersi e raccontare le sue distrazioni,
le occasioni in cui partivano i pensieri e i sogni, le sue riflessioni su questi
eventi… Alcuni lo hanno fatto da soli, altri si sono fatti accompagnare
dalle amiche o dagli amici… lo abbiamo rifatto il giorno seguente perché
chi all’inizio non sapeva cosa dire, ora aveva fatto attenzione alla sua
distrazione e voleva registrare anche i suoi pensieri. Io mi riguardavo a casa
il tutto, imparando molto e molto divertendomi. Poi abbiamo guardato insieme
a scuola una parte dei pensieri, quelli che hanno avuto la “liberatoria
degli autori”.
Alla fine vengono dei dubbi, ti viene da chiederti davvero se in alcuni giorni
noi maestri non faremmo meglio a interrompere la lezione e a mettere in cattedra
i sogni e le distrazioni di chi ci sta di fronte, o forse a far finta di concentrarci
sulle lezioni al solo scopo di spiare i pensieri che scappano, i loro viaggi…
Gianluca Gabrielli, maestro cobas
Vi ringrazio per avermi partecipato l'iniziativa del Coordinamento Nazionale
in difesa del tempo pieno e prolungato.
Per impegni istituzionali non mi sarà possibile partecipare al Convegno,
ma tengo a dirVi che in qualità di Assessore alle Politiche Scolastiche
ho più volte invitato le scuole ad attivare il tempo pieno come sono
certa che esso va in direzione dell'ampliamento, delle pari opportunità
e delle esigenze delle famiglie.
Vi sarei grata se poteste inviarmi gli atti del Convegno e dichiaro la mia disponibilità
ad organizzare iniziative anche a Cosenza con il coinvolgimento nazionale.
Certa di un positivo riscontro porgo cordiali saluti.
Maria Francesca Corigliano
Vice Sindaco
Comune di Cosenza
PICCOLI RITRATTI A TUTTO TEMPO
In uno sguardo ampio e circolare abbraccio gli anni del mio lavoro a scuola
e subito si compongono immagini varie e animate che si succedono rapide. L’incessante
moto della memoria si concreta intorno a ritratti ben stagliati di bambine e
bambini.
C’era il bambino che tardava troppo a formulare una risposta; estraneo
e sfuggente, si liberava presto dal tempo puntiforme della domanda e trovava
soluzioni imprevedibili e impertinenti. Era un accanito lettore di Asterix,
così talvolta infiorettava il discorso di citazioni latine. Amava, riamato,
il nonno che lo comprendeva senza chiedergli niente.
C’era il bambino sempre assonnato, che veniva a scuola con il pigiama
sotto i vestiti e l’altro, appassionato di segni, simboli e segnali, dunque
esperto decifratore e lettore per caso. Organizzavano insieme corse di ragni
in giardino: le bestiole, chiuse in una scatolina di carta, inebetite dalla
cattura, riottose a muoversi, erano stimolate da fili d’erba e grida di
incitamento.
C’era la bambina dagli occhi solari, che inondava di sorrisi cose e persone
e trovava in tutto ragioni di espansivo entusiasmo. Coinvolse le compagne in
un balletto improvvisato per festeggiare le meravigliose produzioni del Laboratorio
di Informatica. Quello che era stato oggetto di acceso dibattito pedagogico,
se le nuove tecnologie multimediali potessero ottundere o deformare l’originaria
espressività corporea delle bambine e dei bambini, fu risolto nella danza
felice, che interpretava con smagata ironia gli ultimi successi televisivi.
Le generalizzazioni psicopedagogiche, utili per adeguare l’intervento
didattico ed educativo alle fasi evolutive, lasciano aperto e libero il fertile
campo delle relazioni, dove le irriducibili e originarie individualità
possono esprimersi nel tempo dell’ascolto, dello scambio, del dono, della
risonanza interiore. Non può essere altro che un tempo pieno, pieno perché
denso e partecipato, stratificato dagli innumerevoli tempi della crescita di
ognuno secondo ritmi diversi e assonanti. Cogliere di ognuno la specificità,
la tonalità sfumata e inconsueta, stupisce, sconvolge, emoziona, poiché
è quel tratto inafferrabile che le bambine e i bambini offrono con nuda
semplicità. E’ il loro dono, non sempre riconoscibile, a volte
dirompente e scomposto, che va raccolto con cura paziente e consapevole. Può
essere necessario il tempo dell’attesa, può accadere di disperdere
il tempo in tentativi frustrati. Ma qualcosa sta cambiando e non si riesce a
definirlo in modo esaustivo, poiché si tratta della viva e cangiante
sostanza di bambine e bambini in crescita.
Accostarsi insieme a libri e letture, in cui la parola scritta delinea tessiture
di significati, è un’esperienza che amplifica e potenzia le relazioni.
I bambini e le bambine sono spesso oppressi da conflitti senza nome, imposti
da un mondo adulto incapace di riconoscere emozioni e sentimenti, di soffermarsi
sulla domanda di senso. L’universo finzionale della narrazione inaugura
un tempo sospeso, in cui l’ascolto della voce che legge dà tempo
al lento deposito dei significati e alla loro rielaborazione personale. L’elogio
delle azioni spregevoli di G. Pontremoli (1) segnala i molteplici luoghi di
una variegata mappa di letture dove bambini e bambini possono trovare, nel tempo
della gratuità smisurata della ‘spregevole azione’ di leggere,
riferimenti per il processo della costruzione di sé.
Questi i tempi che ho cercato di offrire a bambini e bambine, non senza difficoltà,
trovando ostacolo nell’accanimento burocratico e pervasivo di riforme
che, ammesso che siano animate dalle ‘migliori’ intenzioni, naufragano
nella scarsa considerazione della complessità del tempo a scuola.
Dagli autoritratti (2)dei miei attuali alunni emerge invece una considerazione
ricca e intensamente vissuta, in cui il tempo della relazione si irradia su
quello dell’apprendimento e il tempo delle scoperte, delle invenzioni,
dell’espressività consolida il sentimento della crescita.
Rossella parla di sé, dell’amicizia e della formazione del senso
morale: “In questi cinque anni di scuola a Tempo Pieno ho imparato tante
cose nuove, per esempio come si riceve l’amicizia da parte di tutti e
come non bisogna prendersela se non abbiamo vinto ad un gioco”
Veronica aggiunge: “...grazie al Tempo Pieno mi sono costruita amicizie,
ho avuto delle esperienze, ma soprattutto ho conosciuto altre persone altruiste
, simpatiche, con un cuore d’oro”
Eleonora è decisa: “Io la scuola a Tempo Pieno la voglio assolutamente
difendere perché ci possiamo conoscere tutti meglio, sia insegnanti che
bambini”
Andrea conclude: “Nel Tempo Pieno nessuno è escluso”
Ludovica osserva la propria crescita, i propri cambiamenti: “In questi
cinque anni di scuola a Tempo Pieno i miei gusti riguardo alle materie sono
cambiati, ma in tutto questo tempo, giorno dopo giorno, mi sono divertita molto
perché in tutte le settimane scolastiche c’era sempre qualcosa
da fare, da scoprire, da vedere.”
Beatrice coglie un cambiamento qualitativo: “...(col trascorrere degli
anni a scuola) tutto quello che scoprivo lo vedevo da un punto di vista più
elevato. Secondo me è anche un piccolo merito del Tempo Pieno, perché
ci dà più tempo per riflettere e intendere le cose meglio”
Teresa apprezza la creatività del gruppo: “Se ci penso bene, abbiamo
anche inventato canzoncine, barzellette, strani esperimenti, nuovi pianeti e
forme verbali astronomiche, ci siamo divertiti tanto e sinceramente mi dispiace
andar via”
Thomas parla di esplorazioni: “...stando più tempo a scuola, ho
scoperto tantissimi posti per nascondersi!”
Ed infine Asia: “Il Tempo Pieno mi piace molto perché c’è
più tempo per organizzare cose nuove e parlare con gli amici di argomenti
divertenti, poi si può anche escogitare qualche piano per il giorno dopo....Si
può stare un sacco di tempo in giardino a fare cose strampalate...Ed
è per questi motivi che io do un bel dieci e lode al Tempo Pieno!”
NOTE
1) G. Pontremoli, Elogio delle azioni spregevoli, L’ancora del Mediterraneo,
Napoli, 2004
2) Le citazioni sono ricavate dai testi dei miei alunni sulla loro esperienza
scolastica
Manuela Giusti
ins. di ruolo nella Scuola Primaria, III° Circolo di Sesto F.no (FI)
LA VALUTAZIONE ALL’EPOCA DELLA RIFORMA MORATTI: IL TEMPO PIENO DISTRUTTO PER “PASSAGGI INTERNI”?
Si difende davvero solo ciò che ci appartiene.
La resistenza alla riforma Moratti è nata non a caso dal Tempo pieno,modello
scolastico complesso e condiviso, la scuola della Comunità educante centrata
sul bambino, che – sia pure con difficoltà e incrinature –
ha resistito per decenni ai tagli delle risorse, alla caduta del dibattito e
delle spinte propositive, al cognitivismo modularista.
Ha potuto resistere perché insegnanti e genitori lo hanno riconosciuto
come uno “spazio proprio”, un modello di scuola in cui si riconoscevano:
per questo, due anni fa sono scesi nelle piazze per fermarne la soppressione.
E’ per lo stesso motivo che non si è sviluppato un movimento di
resistenza nella scuola superiore, in crisi da molti anni: non si difende davvero
ciò che non ci appartiene.
In questi due anni la Riforma Moratti ci ha messo di fronte ad una serie continua
di attacchi – perfettamente collegati - finalizzati a distruggere capillarmente
la struttura fondamentale della scuola che noi difendiamo – il suo significato
stesso -. Sono stati attacchi più frontali – lo spezzatino, gli
organici, il tutor – ed altri apparentemente più laterali, destinati
però a scavare cunicoli e passaggi per svuotare dal di dentro il nucleo
centrale, la ragione stessa, della nostra resistenza.
Uno di questi passaggi, di questi tentativi di sgretolamento è rappresentato
dalle questioni riguardanti la Valutazione. La scheda di valutazione demandata
alle scuole, il Portfolio, l’ Invalsi rappresentano momenti fondamentali
per l’attuazione del disegno complessivo della riforma.
Ancora più pericolosi perché sottovalutati e considerati da molti
un problema, appunto, “secondario”.
In realtà sono passaggi fondamentali per la completa distruzione della
scuola che difendiamo, un virus divoratore che – se attecchisce –
è destinato a svuotarci fra le mani le strutture stesse, il contenuto
centrale, il significato della scuola che cerchiamo di difendere.
Con Portfolio, test Invalsi, voto in condotta, non c’è più
Tempo pieno, non esiste possibilità di Comunità educante. E sappiamo
inoltre che tutti questi aspetti non dispiacciono molto ai probabili eredi della
Moratti.
Riprendiamoci fino in fondo un percorso di riflessione.
Una scuola sempre più difficile
La scuola di oggi è una scuola complessa che presenta problematiche ingenti,
difficoltà ormai strutturali ed in continua espansione.
Nelle classi troviamo bambini sempre più disorientati cognitivamente,
in difficoltà nell’ascolto, confusi nel distinguere il reale dalla
finzione, scarsamente motivati nei percorsi di approfondimento; le difficoltà
socio-affettive sono anche più alte: incerto il riconoscimento dell’ALTRO
da sé, il ruolo dell’adulto, l’interiorizzazione di regole
e confini, la scoperta di un punto di vista diverso dal proprio. Aumentano i
problemi relazionali nel gruppo, i conflitti, gli atteggiamenti di “bullismo”.
Sono classi complesse, con un numero sempre crescente di bambini stranieri (
dal 10% al 20% al 25% ed oltre per classe), con un’alta presenza di disagio
sociale, con un numero consistente di bambini disabili.
Né risorse, né analisi
A questo, non corrisponde a livello istituzionale un processo di analisi e riflessione che consenta di interrogarsi sulle cause e sulle risposte possibili, su quale scuola possa essere oggi la risposta necessaria ad una realtà sempre più complessa, difficile, articolata. Anzi, assistiamo da anni, gli ultimi in particolare, al taglio delle risorse con le quali la scuola cerca di fare fronte al proprio compito: abolizione dei laboratori con insegnante distaccato, diminuizione degli insegnanti di classe e di sostegno( e abolizione nel 97 del massimo di 20 bambini per classe in presenza di un alunno disabile!), aumento degli alunni per classe, ostacoli sempre maggiori al conferimento di supplenze, diminuizione drastica del numero dei custodi.
Sulle scuole, sugli insegnanti, è rigettato del tutto il compito di”
fare fronte” alla situazione, di inventare i modi per risolverla o, comunque,
contenerla.
Ai nuovi carichi – sempre più pesanti – non corrisponde alcun
riconoscimento, né professionale, né economico: anzi, all’interno
di un processo che si adorna di parole e concetti altisonanti senza prevedere
dialettica e confronto, gli insegnanti vengono in tendenza sempre più
esclusi dalla coscienza dei processi in corso e rischiano di divenire davvero
i “ manovali del fai da te”.
La Valutazione
I processi della valutazione evidenziano in modo eclatante le caratteristiche
e le gravi conseguenze di questo processo.
La Scheda di Valutazione.
Nel 2004, il Ministro abolisce il Documento Nazionale di Valutazione, fra lo
sgomento di dirigenti, insegnanti, genitori. E’ però ben chiaro
che la scheda di valutazione ci deve essere: anche le Indicazioni Nazionali
la prevedono accanto al Portfolio, che, anche se fosse adottato, non può
che accompagnarla; è anche chiaro che deve essere il Ministero a predisporla
a livello nazionale. Ciò nonostante il Ministero non lo fa e invita le
scuole a cavarsela da sole: potranno fotocopiare il modello vecchio, seguire
i “consigli” del Ministero o farsene una a piacimento.
E’ un passaggio estremamente grave che delegittima la funzione stessa
della scuola statale: come può la scuola dello Stato Italiano di Campi
avere un Documento di certificazione del passaggio di classe o grado diverso
da quello della scuola dello Stato italiano di Sesto Fiorentino !?! E’
– dice la circolare – compito degli insegnanti delle scuole autonome:
il Ministro confonderà la valutazione del percorso scolastico degli alunni
– autonomo compito del team – con il Documento di valutazione che
attesta in ogni scuola della Repubblica la frequenza, il passaggio di classe,
il raggiungimento degli obiettivi?!
Più probabilmente, è un passo verso il dissolvimento del concetto
stesso di scuola della Repubblica: non c’è più una Scuola
Pubblica, ma tante scuole pubbliche, ognuna per conto suo, col suo attestato
particolare, come del resto i corsi di musica, quelli di nuoto e via dicendo.
Una agenzia fra tutte le altre.
Il Portfolio
Nelle Indicazioni Nazionali compare il Portfolio delle competenze individuali,
lo strumento che dovrebbe accompagnare – o meglio, contenere - la scheda
di valutazione ed essere finalizzato alla valutazione ed all’orientamento
dell’alunno. Anche qui, il Ministero non adotta subito un modello di documento:
a questo, dovranno pensarci gli insegnanti. Le indicazioni, però, sono
molto precise: si tratta di una strumento ingente e pericoloso che cambia la
connotazione stessa del percorso educativo.
I rischi del Portfolio sono molteplici e non possono essere sottovalutati.
Curriculum e “orientamento”
Che cosa vuole essere ? Una sorta di curriculum che accompagna l’allievo
dalla scuola dell’infanzia alla fine del percorso scolastico (“la
storia dello studente dall’infanzia all’adolescenza”), certifica
i suoi passaggi e i suoi risultati (debiti….crediti…….), le
sue caratteristiche personali e familiari, i suoi interessi…..Un curriculum,
insomma, mutuato dal mondo dell’azienda ( alla fine del primo ciclo di
istruzione è previsto la realizzazione del “profilo educativo,
culturale e professionale” dello studente), probabilmente finalizzato
a sostituire in futuro il valore dei titoli di studio.
Il Portfolio vuole avere una decisiva funzione di” orientamento”
per il futuro scolastico dell’alunno: il TUTOR – che lo compila,
secondo le Indicazioni – rilegge la storia del ragazzo e lo“ orienta”
per la scelta del percorso di studi.
E’ evidente il peso e il rischio che può avere questa “connotazione”
del bambino compiuta a partire dall’infanzia , la definizione di “status”
del bambino e delle sue possibilità, collegata direttamente – come
tutti sappiamo – alla sua estrazione sociale.
Classi di livello
Il portfolio è organizzato sulla base dei percorsi personalizzati. Che
può significare? Dato che con ogni evidenza un insegnante non potrà
preparare percorsi e obiettivi differenziati per i suoi 20/ 22/ 25 alunni se
ne deduce facilmente che le classi, in questa ottica, si scinderanno in gruppi
di livello, ognuna con il suo piano “personalizzato” che verrà
poi registrato nel portfolio.
Si viene quindi di creare una differenziazione dei bambini fin dall’inizio
del percorso scolastico: non “evitare che le differenze si trasformino
in disuguaglianze”, ma canalizzare precocemente su percorsi diversi (scelte
opzionali e “classi di livello”) la storia di vita di chi “può”
e di chi “non può”.
Adultismo e “ ruolo valutativo” della famiglia
Ancora, il Portfolio presuppone un bambino “ adultizzato”, un piccolo
“studente universitario” capace di valutare se stesso e di mettersi
a fronte degli insegnanti e della famiglia per “ contrattare” la
propria valutazione.
Inoltre, la famiglia diviene co/agente della valutazione del proprio figlio
e del suoi risultati scolastici, accanto a lui e agli insegnanti.
E’ probabilmente l’aspetto più grave del Portfolio, che ignora
e nega non solo la struttura psicologica dei bambini ma anche le differenze
fra le culture e i linguaggi, le complessità relazionali, il disagio
sociale………….Un aspetto che finirebbe per contrastare
pesantemente la funzione educativa della scuola, ferendo e stigmatizzando proprio
i più fragili.
Quale potrebbe essere la “ valutazione” di una famiglia straniera
giunta da poco in Italia? Dei genitori di un disabile? Delle famiglie dei bambini
che “ vanno proprio male a scuola?” Di una situazione a forte disagio
sociale? Di una famiglia che ha aspettative troppo alte? Di una che le ha molto
basse e svaluta il figlio? E quali possono essere le ricadute sui bambini??!!
Una “radiografia” tagliente ma adulterata
Inoltre, il Portfolio “ indicato” dal Ministro entra pesantemente
nella privacy delle famiglie, nell’intimità della relazione genitore/
figlio, nella storia personale, nelle scelte di vita.
Una sorta di “radiografia tagliente”, che squarcia il rapporto scuola
– famiglia senza costruire niente.
A cosa deve servire? Si pensa realmente che ciò che può essere
raccontato ( quando la relazione è reale) nel colloquio possa essere
tranquillamente scritto sul Portfolio? E in quanti casi ciò che verrà
alla fine scritto sarà la verità ?! E poi, quando emergeranno
“ radiografie” problematiche, saranno una sorpresa ?!! E come verranno
usate dalla scuola?!
E’ logico pensare che non possano avere altra conseguenza che quella di
“ stigmatizzare” ( anno dopo anno) le realtà più deboli
e difficili, dando al contrario conferme e rinforzi a chi “ ha già
di più”, è solido e senza problemi.
Così, se da una parte la risposta ai bisogni e ai problemi della scuola
di oggi, complessa e in crescente difficoltà, è data dai tagli
alle risorse, dall’altra, quella dell’impostazione pedagogico/educativa
viene ad essere una sorta di “punizione” della difficoltà,
del problema cognitivo, familiare, sociale, unita alla differenziazione programmata
dei percorsi e delle possibilità.
I TEST INVALSI
Il culmine paradossale delle tendenze ad una verifica “ asettica”
e avulsa dal contesto, insieme al completamento della riforma in un’ottica
che punta a “tagliar via con l’accetta” le differenze e le
difficoltà e a confermare i “migliori” premiandone le capacità
e mettendoli, come previsto, in concorrenza, è costituita dai test Invalsi.
Questa impresa senza precedenti nella scuola italiana ( 3,9 milioni di euro
è la spesa per il 2005/06 ! ) presenta aspetti, significati e conseguenze
di estrema gravità pesanti per la scuola che ancora molti tendono a sottovalutare.
Su quali programmi sono calibrati i test? Le Indicazioni Nazionali, a cui si
riferiscono, hanno carattere provvisorio e i programmi dell’85 e del 79
non sono stati aboliti. Quali conoscenze e competenze si vogliono dunque accertare?
In riferimento a quali curricoli?
E, in ogni caso, la libertà di insegnamento garantita dalla Costituzione
non prevede che ogni insegnante nella sua programmazione organizzi i passaggi
didattici e gli obiettivi secondo la sua metodologia e i tempi richiesti dalla
situazione della classe ?
E i bambini ? I test cancellano con un unico colpo di spugna le classi complesse
e trasversali, i tempi e i ritmi dei bambini, le diversità individuali,
i percorsi individualizzati, le situazioni di difficoltà che procedono
con lenti passaggi nel loro percorso di crescita.
C’è persino – sembra – la contraddizione interna :
la riforma Moratti in tutti i suoi passaggi attuativi ci ripete la centralità
dei percorsi personalizzati, i gruppi di livello di grado A…...B…..C…,
le Unità di apprendimento costruite scegliendo e calibrando gli obiettivi
specifici di apprendimento sulla base delle “caratteristiche” della
persona a cui sono destinati. Che fine ha fatto la “personalizzazione”?
Con quale follia si va a somministrare lo stesso test, sullo stesso segmento
del programma, nello stesso momento, a tutti i bambini di tutte le scuole d’Italia
?
I test sono del tutto decontestualizzati. Da cosa emergeranno la differenza
dei territori, le problematiche specifiche, i percorsi sperimentali ?
E i bambini stranieri, quelli con disagio sociale, i disabili ? Sono destinati
a sparire del tutto dalle tabelle, o a rimanerci come un “punto nero”,
l’handicap che, purtroppo, ci abbassa il risultato finale ?
E a cosa serviranno i test? Il Ministero – per quanto richiesto –
non ha attivato alcuna procedura di informazione sull’utilizzo degli esiti
della valutazione. Di certo sappiamo – dai documenti stessi di costituzione
dell’INVALSI - che serviranno a valutare le scuole: graduatorie? Punteggi?
In Inghilterra, dove i test sono in uso da anni, questi servono a valutare le
scuole, gli insegnanti, gli alunni…………….Inevitabilmente,
sono divenuti i test i veri “obiettivi” e gli insegnanti hanno assunto
la didattica dei test, le loro scansioni, i loro contenuti. Ogni autonomia è
scomparsa e gli alunni “ fragili” divengono un peso e un problema
per il “rendimento” della scuola.
Portfolio, Invalsi, Scheda di valutazione……capillarizzare per disgregare
la scuola dal suo interno
Probabilmente, non c’è nessuna contraddizione: anzi, le questioni
della Valutazione ( Test Invalsi , Portfolio……) sono a pieno titolo
cardini portanti del disegno complessivo della Riforma Moratti e, in qualche
modo, sono finalizzate a garantirne la capillarizzazione nel tessuto della scuola.
Cosa vuol dire? Sono strumenti che, al fine dell’attuazione del disegno
complessivo della Riforma Moratti e, di più, del graduale e completo
“cambiamento di segno” della scuola pubblica, presentano indubbi
vantaggi.
Prima di tutto, vanno incontro alla crescente frustrazione degli insegnanti
illudendoli di ridargli in mano qualche “strumento” per affrontare
le difficoltà in continua espansione.
Per esempio, la questione del voto di condotta. Non possiamo nasconderci che
in tante scuole – anche a Tempo Pieno – la possibilità del
voto in condotta ha riscosso i favori del collegio: gli insegnanti l’hanno
vista come una possibilità di dare una risposta ai crescenti problemi
di ascolto, relazione, riconoscimento dell’altro, motivazione. Una risposta
che si può tenere in mano, facile: identifica nella punizione/colpevolizzazione
l’aggancio/appello che può riequilibrare una situazione di difficoltà
che sempre di più sembra non gestibile.
Non gestibile o con grandi difficoltà, appunto, nella situazione attuale;
vediamo qui con chiarezza come quello che all’inizio poteva sembrarci
paradossale – il taglio continuo delle risorse, l’annullamento della
riflessione socio-pedagogica, l’irrigidimento delle strutture e delle
possibilità metodologiche nella scuola della difficoltà –
in realtà risponda ad una logica di “riassetto” dell’istituzione
scolastica nel segno di una ben diversa concezione sociale e pedagogica.
E’, in realtà, una concezione che viene da lontano, rivestita adesso
con più modernità dei panni dell’aziendalismo e ha dominato
nella nostra scuola fin ai grandi cambiamenti degli anni ’70.
Una concezione che nega tutto quello che è stato il patrimonio della
scuola a Tempo pieno e il motore della trasformazione della scuola tutta: la
motivazione e l’affettività come condizione dell’apprendimento,
la relazione e l’intensità del rapporto, la socialità, i
tempi ampi ed elastici, la valenza dell’ apprendimento euristico, l’individualizzazione,
la multiculturalità, la centralità dell’autostima nel percorso
del bambino………..
La scuola di tutti, infine.
In questo processo di disgregazione/ riassetto stanno a pieno titolo Invalsi
e Portfolio e solo così si spiegano le apparenti incongruenze con i dati
della realtà, le contraddizioni, la pressione enorme esercitata per fare
applicare alle scuole questi “passaggi” che nel quadro generale
della riforma sembravano secondari.
In un panorama di regolare attuazione dei test di valutazione non c’è
più alcun spazio per la sperimentazione, i percorsi ampi e diversificati,
la libertà d’insegnamento. E la metodologia fredda e tagliente,
da concorso, da “esame con punteggio” come potrà coesistere
con il clima dell’accoglienza, il rispetto dei bambini, dei loro tempi,
dei loro ritmi, con il metodo della cooperazione e il rifiuto della valutazione
selettiva e predittiva? Il grande rischio è che quella “fredda
rigidità” che oggi ci sembra assurda e distruttiva finisca per
entrare dentro di noi e pervadere la nostra scuola, il nostro modo di essere.
E i disabili, i bambini in difficoltà, i portatori di linguaggi diversi?
Nei loro confronti, il processo di azzeramento e negazione delle esigenze, delle
necessità, dei diritti, della ricchezza della loro presenza è
cominciato da molto tempo. Si parte dal ’97 ( ma anche da prima, con il
furto delle compresenze e la compressione degli organici) con l’abolizione
del numero massimo di bambini per classe in presenza di un alunno disabile,
continuando con i tagli agli insegnanti di sostegno, con l’abolizione
dei laboratori con insegnante distaccato per l’inserimento degli alunni
stranieri operata dal ministero Moratti…………… Di
pari passo procede un “rivolgimento” culturale che vuole cambiare
il segno dell’ inserimento: dal comportamentismo alle teorie organicistiche,
all’assunzione dei farmaci…………Gli insegnanti,
schiacciati dal peso di classi sempre più difficili, con risorse ogni
anno minori, non ce la fanno, da soli, a fermare la deriva culturale e ad opporsi
alle sue conseguenze: anzi, sempre più spesso, si “aggrappano”
agli appigli, alle “innovazioni” che gli vengono offerte, per cercare
di trovare nuove sponde ad una situazione sempre più ingestibile. Così
nascono centri in cui l’accoglienza dei bambini stranieri viene delegata
agli “operatori specializzati” (!!) delle cooperative, così
rinascono i fantasmi delle classi speciali, i “ laboratori /ghetto”
dove un insegnante di sostegno “tiene” tre, quattro, cinque bambini
disabili, magari e soprattutto gravi, per varie ore più volte alla settimana
o ogni giorno.
Solo dove il Tempo pieno è forte, ha radicamento ed un grosso percorso
di teoria e di vissuto queste pratiche vengono rigettate o contenute fortemente.
Adesso, con i test, i bambini con diverse modalità d’apprendimento
diventano, di per se stessi, l’ “handicap” nel funzionamento,
la problematica da gestire in qualche modo, da dissimulare o da nascondere.
E quale spazio lascia l’uso del portfolio alla realtà di una scuola
complessa, trasversale, articolata nelle diversità e nelle difficoltà?
La struttura stessa del Portfolio, la sua concezione, nega l’esistenza
e la legittimità del disagio socio – culturale, dei linguaggi diversi,
dei problemi psicologici, della difficoltà.
Ben difficilmente la nostra scuola, la scuola della Comunità educante,
può sopravvivere alla rigidità degli strumenti, strumenti per
altro centrali e laceranti, ad una pratica della valutazione fredda, asettica,
predittiva. Per quanto dagli anni ’90 si siano sforzati di farcelo dimenticare,
sappiamo
che la valutazione è sempre un rischio, un processo delicatissimo che
può facilmente, al di là delle intenzioni, trasformarsi in definizione
di status e bloccare in un ruolo fisso proprio quelle situazioni che avremmo
voluto spingere in avanti.
Siamo in presenza di elementi patogeni estremamente pericolosi per il futuro
della scuola a tempo pieno: più che un cancro, un virus che innesca un
processo di mutazione probabilmente irreversibile nei tempi medi. Che trasforma
i contenuti e le metologie, che cambia di segno ai rapporti con la famiglia,
divenuta cliente da soddisfare, agenzia concorrente, controparte.
Coltivare delle prospettive, pensare il tempo pieno come una scuola per il futuro,
difendere la scuola pubblica come scuola di tutti, vuol dire riappropriarsi
in tutte le sedi, scuola per scuola, del dibattito e della riflessione. Vuol
dire organizzarsi per fermare l’avanzata di Invalsi e Portfolio senza
farsi illusioni su eventuali “salvezze dall’alto”, su quello
che potrà accadere “dopo le elezioni”. Fermiamo da ora la
deriva, facendoci forti del fatto che la normativa di attuazione della legge
Moratti è restata incompleta e confusa: molti passaggi non sono stati
conclusi né hanno compiuto i passaggi necessari per divenire norma ed
abrogare la normativa precedente.
Anche la C. M. 84 / 2005 non cambia niente nel quadro normativo, non porta niente
di nuovo salvo una volontà di sopraffazione ancora più forte e
determinata.
Dovremo fare fronte, collegio per collegio, scuola per scuola, alle intimidazioni
sempre più dure e isteriche dei dirigenti, cercando di ricostruire una
rete per sostenerci a vicenda: ma ne vale la pena, per non buttare via anni
di lotte e per non trovarci ad “abitare” un guscio vuoto, mangiato
dall’interno passaggio dopo passaggio, che infine nessuno avrà
più interesse a difendere o a ricostruire.
Sonia Bortolotti - Coordinamento genitori – Insegnanti - Firenze
Il laboratorio di teatro
Un’ esperienza particolare della scuola a Tempo Pieno Torrigiani di Firenze
Scuola elementare a Tempo Pieno
“TORRIGIANI-FERRUCCI” Via della Chiesa, 81 - 50124 Firenze
La sua storia
La scuola elementare Torrigiani-Ferrucci è sempre stata una scuola a
Tempo Pieno che, fin dagli anni ’70 ha progettato e sperimentato nuove
possibilità di costruire il sapere, di mettere in gioco e far lievitare
la relazione,di aprire nuovi percorsi per i bambini in difficoltà.
Molteplici esperienze che sono cresciute nei tempi e negli spazi elastici del
Tempo Pieno per offrire risposte ricche e qualificate al mutare dei bisogni
e delle esigenze, tenendo sempre il bambino al centro.
Il Laboratorio di Teatro è una fra le più significative di queste
esperienze e cresce con la scuola, attraversando la storia di tutti questi anni.
Nasce nel ’77 come un modo diverso di fare scuola con i bambini in difficoltà.
Capimmo subito che l’esperienza del teatro acquistava un grande valore
educativo non solo come spazio per affrontare e superare il disagio e la difficoltà,
non solo come esperienza di apertura al rapporto con l’altro, ma soprattutto
come area di sperimentazione della Cultura dei Bambini.
E’ in questi anni (dal ’77 all’86) che la scuola si apre all’esterno,
per sentirsi più radicata nel territorio, sia con esperienze didattiche
di ricerca d’ambiente, sia con rappresentazioni teatrali nelle piazze,
nelle strade, nelle chiese, nei luoghi più significativi del quartiere
ed anche in luoghi particolari della Toscana.
Nell’86, grazie alla legge 270, iniziò ufficialmente la sperimentazione
con un’insegnante distaccata per questa attività.
Il Laboratorio da questo momento può coinvolgere tutte le classi nell’esperienza
teatrale, attraverso un’articolazione programmata, divenendo un nuovo
spazio di elaborazione della didattica.
Dal ’90, quando la presenza di bambini stranieri a Firenze e in
S. Frediano è ormai divenuta significativa, il Laboratorio si rinnova
e si precisa, articolandosi nel progetto “Per una scuola dell’accoglienza”,
con il quale si inserisce nel difficile percorso della scuola italiana sull’inserimento,
portando il suo contributo: non l’integrazione “povera”, quella
in cui il bambino straniero perde la sua lingua e la sua identità per
divenire il più presto simile a noi, ma “scambio fra culture”,
sottolineando il valore di ogni Cultura, la bellezza di ogni Lingua e la ricchezza
dell’incontro.
In questo periodo il Laboratorio Teatrale coinvolge anche la scuola elementare
Agnesi e diverrà così una risorsa per tutto il territorio di
S. Frediano; infatti nel ’92 il progetto si amplia attuando, per i successivi
cinque anni, la sperimentazione “Teatro come ponte fra le scuole”
con le prime classi della scuola media Machiavelli.
Viene sperimentata per la prima volta una progettualità e un “fare
scuola” insieme, senza barriere, che dà importanti risultati fra
i due ordini di scuole.
Ma negli ultimi dieci anni risparmio e “razionalizzazioni” hanno
gravemente impoverito la Scuola Pubblica: più volte il Laboratorio viene
messo in forse e riconquistato ogni volta grazie alla mobilitazione dei genitori.
Infine nel 2002 i tagli della finanziaria chiudono il Laboratorio sperimentale,
rischiando di cancellare un’esperienza preziosa proprio nel momento in
cui le problematiche sempre crescenti del territorio richiedono con urgenza
risposte adeguate e qualificate.
Ma l’esperienza del teatro non viene cancellata: come agli inizi siamo
dovuti tornare a viverla come articolazione ed espansione dell’attività
di sostegno ai bambini in difficoltà: solo poche classi oggi possono
avvalersene, con un orario ridotto.
Le prospettive future non sono certo positive: dinanzi alla scuola si apre un
panorama desolante di tagli, di stravolgimenti, di mutilazioni che rischiano
di cancellare il Laboratorio, il Tempo Pieno stesso e quanto la Scuola Pubblica
Italiana ha elaborato di più alto per rispondere ai bisogni dei bambini.
Dentro il TEATRO
Ci troviamo in teatro: dai giochi ( con la voce, con il corpo, coi suoni, con
lo spazio, con il buio,...) emergono i bisogni, i desideri, i conflitti, da
cui si snoda il percorso teatrale.
Dalla progettazione degli insegnanti nasce l’idea centrale che dovrà
prendere corpo attraverso i giochi,i testi, le esperienze dei bambini.
.......... “I DUE PICCOLI INDIANI”........
- Cosa succederebbe se ci trovassimo di notte in una foresta
da soli ?
- Quale sarebbe per me una “prova” da superare con coraggio ?
- Mi riesce camminare senza far rumore ?
Nasce subito un gioco: un bambino bendato viene guidato da un suono o da una
voce lungo un percorso che presenta alcuni ostacoli, poi, da solo, ma col sostegno
e la guida delle voci di tutti i compagni, nel momento più difficile
del percorso, deve salire su una gradinata; in cima, altri del gruppo lo accolgono
facendolo sedere, mentre uno scroscio di applausi sottolinea la riuscita del
gioco.
All’esperienza segue una fase di riflessione per verbalizzare ciò
che si è provato. C’è un’intensa partecipazione generale.
Parallelamente continua in classe l’indagine e la ricerca con un crescente
entusiasmo.
Ulteriori fasi: si ascolta musica originale dei canti indiani d’America,
si usa il tamburo, si sperimenta il ritmo e la danza.
Nasce l’idea di elaborare una storia immaginaria, ma in cui lo scenario
culturale sia quello realmente indagato con le loro ricerche e in cui fondamentale
sia l’incontro con un bambino bianco, uno di loro.
Ogni bambino è invitato a scrivere un testo, all’interno di una
situazione particolarmente coinvolgente e suggestiva (nel silenzio della classe
si ascolta un sottofondo musicale di ninna-nanne, canti di festa, tam tam lontani).
Il testo cha dà inizio all’esplorazione dell’immaginario
di ciascuno è:
Mi sveglio....... mi accorgo di essere in una terra sconosciuta... capisco
che è la terra degli Indiani.....
Dalle elaborazioni scritte, dai disegni, dalle discussioni si costruisce la
storia che cresce e si espande nel teatro e nella classe, nelle diverse discipline,
in tutta la vita scolastica del gruppo, sino a divenire infine “canovaccio
teatrale”.
.... Inizia la lunga fase di costruzione dello scenario: costruzione dei TEPEE,
pittura delle tende, costruzione del grande TOTEM, cucitura dei vestiti indiani,
mentre in contemporanea si sviluppa la ricerca dei documenti sulle raffigurazioni
e pitture indiane, costruzione di archi, lance e frecce.
Grande è il contributo, in questa fase, dei genitori, alcuni partecipando
vivamente nel lavoro coi bambini e gli insegnanti: c’è chi insegna
alcuni elementari ma preziosi modi per il tiro con l’arco, chi insegna
la costruzione delle armi e chi taglia e cuce insieme al gruppo di sartoria.
Iniziano le prove: la distribuzione delle parti, la ricerca del proprio personaggio,
le letture, l’uso della voce, le esercitazioni di memoria.
I bambini affrontano la timidezza, la vergogna, l’insicurezza, il protagonismo,
sperimentano il confronto con l’altro, indagano tutte le strade per armonizzarsi
insieme nel lavoro corale.
...... I bambini con grande slancio emotivo scoprono il valore dell’appartenenza
al gruppo, proprio perché hanno sperimentato che il gruppo accoglie in
sé il linguaggio del singolo e lo potenzia, accetta la presenza dell’individuo
anche nei suoi aspetti più fragili e la intensifica con l’apporto
di tutti.
Il momento finale della rappresentazione diventa il momento intenso e significativo
della condivisione e della compartecipazione culturale ed emotiva con tutta
la scuola ed il territorio circostante.
Insegnanti: Angela Batoni e Sonia Bortolotti
Firenze, 24 novembre 2005
Tempo Pieno, gruppo classe e compresenza
Bruna Sferra, maestra, Roma
Lo smantellamento del Tempo Pieno, determinato dalla Legge n.53/03, ne ha probabilmente
costituito anche la sua rivalutazione. Conquista delle lotte operaie della fine
degli anni '60, istituzionalizzato con la Legge n.820 del 1971, agli occhi dei
genitori e degli insegnanti di questo ventennio, prima che la Moratti facesse
il suo ingresso, il Tempo Pieno era ormai un modo di fare scuola acquisito,
consolidato e quasi scontato. Era considerato, probabilmente, parte dell'ossatura,
se non proprio l'ossatura stessa, della scuola elementare italiana.
Concepire la scuola elementare senza il Tempo Pieno sembrava cosa impossibile,
tanto che quando il nascente Coordinamento Nazionale in difesa del Tempo Pieno
e Prolungato, cominciò, nel 2003, la sua campagna di controinformazione,
la reazione più comune fu quella dell'incredulità. Poi, grazie
ad un lavoro costante e capillare, di tutti i coordinamenti locali e cittadini
che via via si venivano a formare, il mondo della scuola, e non solo, si è
come risvegliato da un autentico torpore, ha finalmente capito il grave attacco
che la scuola stava per subire e ha deciso di ribellarsi.
Scriveva nel 1973 Giovanni Alasia: "Il tempo pieno alle elementari è
stato già nel 1969-70 un momento di lotta che ha visto impegnati gli
operai di alcuni quartieri e i maestri più avanzati sul piano politico
e didattico. La richiesta di tempo pieno serviva a coagulare e qualificare altre
richieste che del tempo pieno erano le condizioni essenziali…..Alla Nino
Coste (scuola elementare di Torino) si giunse anche all'occupazione quando il
Provveditore , all'inizio del '70, non aveva concesso il numero di insegnanti
sufficienti perché le classi potessero funzionare con 25 alunni."
In quegli anni ero una bambina e ovviamente non ho potuto respirare quell'aria
di cambiamento e non ho potuto vivere quegli incredibili momenti di grande crescita
culturale e politica. Penso che non possano essere paragonati al fenomeno del
movimento, nato oggi, contro la Riforma Moratti. Il contesto storico-politico
è completamente diverso e le realtà sociali anche.
In ogni caso, avere la consapevolezza che, dopo 30 anni, migliaia di persone,
soprattutto genitori, sono di nuovo scese in piazza, hanno occupato scuole e
hanno comunque impegnato il proprio tempo in riunioni, assemblee e ogni altro
tipo di attività che servisse per contrastare la Riforma Moratti, fa
comunque bene al cuore!
I genitori e il personale della scuola si sono dovuti fermare a riflettere e
a valutare cosa il Tempo Pieno ha offerto, in questi trent'anni, alle bambine
e ai bambini tutti.
Il risultato che ne è scaturito dal confronto, dalla discussione e dalla
condivisione di princìpi basilari è stato sorprendente: anche
i "non addetti ai lavori" o i genitori generalmente meno sensibili
hanno compreso il valore pedagogico di un'organizzazione scolastica come quella
del Tempo Pieno.
È ormai diventato patrimonio comune considerare Il Tempo Pieno un modello
di scuola che , anche grazie ai suoi tempi distesi, rende possibile:
- una maggiore omogeneità di stimoli e strumenti culturali da fornire
agli alunni le cui condizioni socio-familiari sono invece caratterizzate da
netti dislivelli;
- una didattica che renda possibile l'insegnamento individualizzato affinché
ciascuno possa operare con ritmo personale e/o si possano affrontare particolari
problemi di recupero e di approfondimento;
- costruire significativi rapporti sociali e affettivi che costituiscono la
base di tutto l'apprendimento;
- una reale motivazione all'apprendimento che passi attraverso attività
ludiche, espressive e creative ed esperienze di tipo scientifico.
Questi quattro punti sono indissolubilmente legati l'uno all'altro, una buona
scuola non può rinunciare a nessuno di essi anche perché gli altri
diventerebbero impraticabili e sarebbero destinati al fallimento.
Come è possibile creare e stabilire significativi rapporti, privi di
autoritarismo, tra insegnante e discente o pensare di curare la socializzazione
tra coetanei se viene a mancare il rispetto della personalità e delle
diversità che caratterizzano ogni singolo alunno?
Come è possibile pretendere di rispettare i tempi d'apprendimento dei
bambini se non gli si offre la possibilità di agire le proprie esperienze
attraverso il gioco e la comunicazione, senza trascurare nessun tipo di codice
poiché sono tra loro complementari?
Come è possibile offrire a tutti gli alunni gli stessi stimoli senza
prevedere una individualizzazione della didattica mirante al raggiungimento
dello stesso sapere per mezzo di strategie e metodologie diverse?
Come è possibile pensare alla formazione dell'individuo ignorando che
il pieno sviluppo della persona si realizza, laddove sia necessario (e sappiamo
che lo è sempre di più), anche con interventi di decondizionamento
sistematici e intenzionali?
L'uomo è una struttura unitaria e dinamica e la sua integrazione sociale
si realizza attraverso l'azione combinata di tutte le componenti costituzionali
della personalità: somatiche, affettive-emozionali, intellettive.
La scuola, se vuole farsi promotrice di cultura, deve porre come prima e fondamentale
condizione di partenza l'uguaglianza delle opportunità.
In realtà questa strada era stata intrapresa…
Dopo l'istituzione del Tempo Pieno, è stata la Legge n.517 del 1977 a
dare un'ulteriore svolta al sistema scolastico. La L.517 aboliva il voto di
profitto e di condotta; introduceva le attività "integrative"
allo scopo di realizzare interventi individualizzati; aboliva le classi differenziali
e inseriva gli alunni portatori di handicap nelle classi comuni; trasferiva
la scelta degli obiettivi didattici ed educativi dagli organi politico-amministrativi
centrali a quelli di gestione democratica della scuola (Programmazione).
I Programmi del 1985 (da considerare tuttora in vigore poiché le Indicazioni
Nazionali allegate al Decreto non sono ancora legge) hanno poi dato un contributo
sostanziale per la definizione di una scelta politica in favore di una scuola
elementare organizzata in modo da poter offrire una "prestazione efficace",
fruibile da tutti gli alunni, qualunque sia il tipo e il grado della loro "diversità".
Sulla base di questi princìpi, una condizione importante per la realizzazione
del diritto allo studio, che è poi diritto all'apprendimento, è
la possibilità per gli insegnanti di organizzare il proprio lavoro grazie
all'utilizzo di ore di compresenza. Il Tempo Pieno ne prevede quattro settimanali
ma la Legge n.53/03, con il suo modello di scuola 27+3+10, ha cancellato tale
possibilità.
Disagio, svantaggio, handicap, insuccesso, dispersione. E di risposta: decondizionamento,
insegnamento individualizzato, lavoro di gruppo, attività creative ludico-espressive,
recupero, successo. Parole ormai consuete nel mondo della scuola, che comportano
una messa in atto di procedure che non possono esimersi dal lavoro svolto durante
le ore di compresenza.
Scrive Marco Rossi Doria a proposito di dispersione:…si può compiere
la scelta di partire dalle competenze esistenti, per esempio quelle incentrate
sulla manualità o sul canto o sulla danza o sullo sport o sull’uso
della telecamera per costruire e poi manipolare immagini decise attivamente
anziché subite solamente. Da queste e molte altre possibili cose si può
partire per poi arrivare alle competenze richieste per lo scrivere, leggere
e far di conto. Ma intanto si sono iniziate a costruire altre competenze, quali
quelle del corpo, della manualità, della multimedialità, che,
come è nel mondo contemporaneo, estendono la capacità di presenza
e di comunicazione dei ragazzi ben oltre il modello trasmissivo verbale tradizionale…
Credo che questo modo di intendere il fare scuola possa essere un'ottima risposta
ai problemi legati ad ogni forma di disagio e credo che nella scuola tali esperienze
vadano condivise con i propri insegnanti e compagni di classe con cui si è
stabilita una relazione affettiva. L'affettività è un elemento
fondamentale della personalità e non va mai scissa dall'area cognitiva.
Per questo va mantenuto il valore pedagogico del gruppo-classe", in quanto
la sua scomposizione, citando Massimo Bontempelli; "moltiplica i problemi
logistici di una scuola, senza altro risultato che quello di indebolire un punto
di riferimento psicologico essenziale per la socializzazione degli allievi adolescenti
e preadolescenti, quale è sempre stata la classe come comunità,
anche nel suo legame con la fisicità di un'aula".
È dentro il gruppo- classe che si sviluppa la dimensione relazionale-emotiva
ed è in essa che Gioachinpaolo Tortorici invita a porre l'attenzione
nel programmare interventi di prevenzione e contrasto verso i principali fattori
di rischio che causano i fenomeni del disagio, dell'aggressività e della
violenza. Il Tortorici riconosce che tale dimensione "permea la quotidianità
dei processi educativi e che comunque esercita una precisa influenza sugli alunni
in termini di atteggiamenti, di motivazioni, di modalità relazionali,
di immagine di sé e di percezione dell'autostima".
Bisogna fare molta attenzione, quindi, a tutti quei tentativi di smembramento,
iniziati con la legge Bassanini, la relativa autonomia organizzativa e didattica
e la didattica modulare, e terminati con la controriforma Moratti, i suoi laboratori
(LARS) e le attività opzionali. Il CNPI stesso nell'esprimere il suo
parere nei confronti della Riforma afferma: "... non si condivide il fatto
che, nelle Indicazioni Nazionali, la personalizzazione venga presentata come
una risposta data dalla scuola all'individuo. Ciò comporterebbe un insegnamento
personalizzato, con una diversificazione dei percorsi e dei risultati e la relativa
costruzione di laboratori di recupero e sviluppo, i quali farebbero pensare
ad un ritorno alle "classi differenziali".
Difendiamo quindi la classe e la compresenza tra docenti.
La compresenza, oltre che favorire la gestione degli alunni in tutte quelle
attività che non sono svolte "seduti al banco", dà la
possibilità di organizzare piccoli gruppi di lavoro, di realizzare interventi
individualizzati, di porre maggiore attenzione al singolo, di gestire in ogni
caso in modo più agevole la vita della classe stessa.
Attraverso le ore di compresenza, è quindi possibile la realizzazione
dei laboratori, cioè di quei luoghi vivi dell’ordinarietà
del fare scuola, ambienti in cui si mettono alla prova ipotesi, si costruiscono
percorsi, in cui siano congruenti progetto e gestione del gruppo che apprende.
Quindi assolutamente non intesi, come vuole il Ministro Moratti, come aule speciali
in cui si esplicano progetti straordinari ed aggiuntivi e in cui i gruppi operano
per livelli di competenza.
Per un singolo insegnante, praticare alcune attività con l'intero gruppo
classe è molto complesso. Mi riferisco, per esempio, alle attività
manipolative per il controllo della motricità fine, per la coordinazione
oculo-manuale, e non meno importante, per lo sviluppo della creatività
espressiva utile alla rimozione delle difficoltà comunicative. Oppure
alla drammatizzazione, essenziale anch'essa per il superamento di tutti i problemi
legati alla comunicazione verbale; o ancora ai giochi sensoriali e alle attività
psicomotorie propedeutici all'apprendimento della lettura, della scrittura e
della matematica. Inoltre, gli alunni, divisi per gruppi, possono più
agevolmente realizzare lavori di approfondimento, di ricerca, di osservazione
e sperimentare in modo diverso la relazione con i compagni.
La moderna pedagogia suggerisce di giungere allo stesso sapere attraverso approcci
diversi, secondo le diverse capacità. Tutto ciò è realizzabile
grazie all'insegnamento individualizzato poiché può tenere conto
dei ritmi di lavoro e dei tempi di apprendimento propri di ogni alunno.
Il principio didattico della individuazione è valido per tutti gli alunni,
ma lo è, a maggior ragione, per tutti quelli svantaggiati o portatori
di handicap, che hanno difficoltà ad adattarsi al contenuto delle richieste
scolastiche. L'individuazione dell'insegnamento è quindi la regola principe
per il recupero, e secondo le idee del Bloom, il quale ha espletato serie ricerche
sull'individualizzazione dell'insegnamento, esso ha successo se tiene conto
delle reali condizioni iniziali dell'alunno e, insieme, dei caratteri e delle
esigenze dell'apprendimento successivo. L'insegnamento individualizzato presuppone
quindi un percorso differenziato, altamente stimolante, tanto più praticabile
quanto più l'alunno potrà ricevere l'attenzione del docente spesso
in un, non rinunciabile, rapporto di uno a uno. Risulta evidente di quanto si
renda necessario, in questi frangenti, la contemporaneità di più
insegnanti in una stessa classe.
Se si pensa alla scuola come luogo di educazione le ore nelle quali i docenti
si trovano in compresenza sono indispensabili.
Scrive il Piaget: "l'educazione non è soltanto una formazione, ma
una condizione formatrice necessaria allo sviluppo naturale stesso.(…)
affermare il diritto della persona umana all'educazione significa assumersi
una responsabilità molto più gravosa che non assicurare a ciascuno
l'acquisizione della lettura, della scrittura o del calcolo; significa veramente
garantire a ciascun bambino l'intero sviluppo delle sue funzioni mentali e l'acquisizione
delle conoscenze, come pure dei valori morali che corrispondono all'esercizio
di queste funzioni, fino all'adattamento della vita sociale attuale (…).
In una parola, l'evoluzione interna dell'individuo fornisce soltanto un numero
più o meno grande di abbozzi suscettibili di essere sviluppati, distrutti
o lasciati ad uno stadio incompleto. Il diritto all'educazione è dunque,
né più né meno, il diritto dell'individuo a svilupparsi
normalmente, in funzione delle possibilità di cui dispone, e l'obbligo,
per la società, di trasformare queste possibilità in realizzazioni
effettive e utili".
La “colonizzazione” degli spazi
Carla Carpigiani, Bologna
Come insegnante nel Tempo Pieno ho sempre praticato un’istintiva ricerca
di spazio in cui far vivere ai miei alunni esperienze educative …al di
là del banco.
La mia scuola è abbastanza piccola, ad un solo piano ma col giardino
e con spazi tra le classi ricavati da divisori in cui hanno preso posto l’aula
di scienze e la biblioteca.
Le aule non sono grandi e mi ricordo che in prima è stata una vera impresa
la ricerca di uno spazio, all’interno dell’aula , in cui mettere
un materasso che fornisse l’occasione ai bambini di sdraiarsi, rilassarsi
a leggere dopo aver finito i lavori scritti. Abbiamo poi utilizzato il refettorio
nelle ore in cui non era usato dalla mensa continuando a cercare e ad organizzare
negli anni successivi, spazi al di fuori dell’aula in cui i bambini potessero
esercitarsi nelle prove di teatro o nei laboratori di poesia, attività
che face-vamo a gruppi.
Tutto questo fino alla quinta quando la nostra classe ha effettuato una vera
e propria “colonizzazione”di tutta l’area scolastica; in questo
caso, come spesso succede, l’elemento di svolta è arrivato dai
bambini.
Lasciati liberi di ricercare il proprio spazio nei momenti di studio individuale,
di lavoro di gruppo e di ricerca, si sono sbizzarriti! Filippo e Caterina hanno
sperimentato il ripasso di Storia in giardino sull’albero dei rusticani
(rami bassi!); Anna si rilassava a disegnare nell’aula di scienze vicino
alla vasca delle rane e dei tritoni; i gruppi di ricerca si di-sperdevano nella
scuola non solo in biblioteca , ma lungo i corridoi in una sorta di disordine
organizzato in cui noi in-segnanti controllavamo gli alunni ma allo stesso tempo
questi ultimi sentivano la comodità e la libertà del loro spa-zio.
Tutto questo dava anche la possibilità di accorgersi, nei momenti di
“distrazione”, di novità legate all’ambiente in cui
erano: da libri mai notati durante l’orario canonico della biblioteca,
a tentativi di fuga di ranocchie e relativa constatazione di quanto fosse “molliccia”
la loro pelle. O semplicemente una percezione della scuola colta attraverso
una diversa prospettiva al di fuori di schemi precostituiti.
In un primo tempo il mio timore, come insegnante, è stato quello della
dispersione di tempo, della confusione, delle proteste di altri insegnanti “barricati”
nelle proprie aule e del fatto che si potessero rovinare oggetti o materiale
della scuola. Il disagio, in realtà, non è andato oltre qualche
pennarello dimenticato nel luogo di studio. Gli altri insegnanti, superato lo
smarrimento iniziale di vedere gruppetti di bambini sparsi per la scuola alla
ricerca di spazi comodi, forse si sono resi conto che a volte erano loro a disturbare
,con chiacchiere ad alta voce, i bambini intenti a scrivere e hanno cominciato
a rispettare e qualche volta ad interessarsi al loro lavoro.
Non c’è stato da parte dei bambini una gara all’accaparramento
degli spazi perché parte del divertimen-to era quello di cercare e sperimentare
nuovi “territori”e il rispetto degli ambienti e del materiale diventava
abbastanza naturale in quanto questa modalità di lavoro trasformava la
scuola in un luogo LORO quindi da salvaguardare. Alla fine del tempo i bambini
tornavano nell’ aula, in cui solo pochi avevano deciso di fermarsi, sereni
e col lavoro svol-to.
In primavera, durante le giornate di sole, i tavoli del refettorio hanno cominciato
a “scappare” in giardino; la fuga organizzata, con bambini e maestri
che trasportavano tavoli e sedie, ci dava l’occasione di mangiare all’aperto,
di go-derci le chiacchiere a tavola in un momento in cui la di-mensione insegnante/alunno
veniva scombinata creando maggiore complicità. Ultimo film visto, programmi
di vacanze, cose buffe accadute, gli argomenti di conversazione, lontano dalla
confusione del refettorio sono stati tanti. Era facile in quel contesto lasciarsi
andare di più, conoscersi, dare e acquisire fiducia ancora una volta
per vivere lo spa-zio della scuola non come uno spazio rigido, ma come qualcosa
che i bambini e gli insegnanti potessero sentire più personale.
Piano, piano questo “allargarsi” è diventato, per la nostra
classe, una modalità di vivere le esperienze scolastiche anche durante
le uscite didattiche. Nei musei d’arte riusciva-mo ad occupare tutte le
sale sdraiandoci comodamente di fronte al quadro che, forniti di fogli e colori,
avevamo intenzione di riprodurre.
Era come se questo bisogno di spazio personale aiutasse maggiormente a trovare
godimento e concentrazione nel lavoro. Ecco, forse è questo il fulcro
di questa esperienza: far vivere ai bambini lo spazio scolastico come un loro
spazio in cui crescendo possano espandersi, in cui possano stare comodi, in
cui possano godersi il loro lavoro.
Scuola migrante
Alidina Marchettini, da “Il paese delle donne” 16, ott. 2005
La ricerca di modi più efficaci di comunicazione intergenerazionale,
il desiderio di sperimentare, la sfida del mondo globalizzato possono spingere
alcune donne insegnanti a mettere radici in una periferia tra Firenze e Prato
per fare scuola ad alunni ed alunne migranti. L’istituto comprensivo di
S.Donnino raccoglie più di mille studenti, dalla scuola dell’infanzia,
alla scuola elementare e media. Ma è in quest’ultima che gli stranieri
sfiorano il 50%, di cui l’87% cinesi. Nel corso degli anni sono state
studiate e sperimentate varie modalità di formazione delle classi, dovendo
far fronte ai tagli del governo, alla riduzione di docenti di alfabetizzazione,
all’attacco al tempo pieno dell’attuale ministro Moratti. Il Comune
di Campi sostiene la spesa per il mediatore culturale, che è soprattutto
presente ai colloqui con i genitori e prepara la traduzione delle circolari
per le comunicazioni scuola-famiglia.
La prima media è la classe problematica perché la maggioranza
di preadolescenti o arriva direttamente dalla Cina o ha fatto al massimo un
anno di scuola in Italia. Per questo da tre anni abbiamo deciso una sperimentazione
hard e i risultati ci soddisfano. Le prime A,C,D riuniscono italiani (70%) e
cinesi che hanno frequentato almeno due anni di scuola elementare, albanesi,
romeni, peruviani, filippini.
La prima B è composta solo di cinesi, alcuni, quelli che fanno passi
da gigante, passano in seconda o in terza nelle tre classi miste, compatibilmente
con il numero complessivo. I momenti comuni su cui puntiamo per favorire la
reciproca conoscenza e la convivenza sono: i laboratori , l’intervallo,
la mensa e il gioco. Abbiamo privilegiato la finalità di mettere tutte
e tutti in grado di usare la lingua italiana, per comunicare ed esprimersi anche
in questa lingua, conoscendo il nostro patrimonio culturale e le nostre modalità
di convivenza democratica. L’integrazione è un processo lungo,
perché nell’Italia dei campanili sappiamo bene come l’uso
di un dialetto, quando addirittura il tifo per una squadra non scatenino scontri
inaspettati, ma l’esperienza di adulti italiani che si specializzano nell’insegnare
a bambini e a giovani a esercitare la piena cittadinanza nel Paese in cui vivono,
colpisce positivamente. Studenti e genitori infatti non si sentono discriminati,
anzi, invitano connazionali ad iscriversi a S.Donnino. La scuola pubblica italiana
si fa carico dei nuovi arrivati e i genitori cinesi scelgono nomi italiani per
le figlie e i figli che qui nascono. Per quelli di noi che scelgono questa classe,
l’impegno è di mettere in gioco tecniche e conoscenze, tutti gli
strumenti accumulati negli anni di insegnamento, sviluppando l’empatia
che unisce al di là delle parole.
Sono ragazzini e ragazzine che si trovano a vivere i ritmi, le abitudini della
scuola italiana, alcuni non conoscono neppure il cinese scritto, conoscono l’insegnante
di ogni materia e cercano di mettersi in relazione con ognuna/o, la lingua è
il tramite, i compagni e le compagne che parlano italiano fanno da interprete,
quelle e quelli che in Cina hanno frequentato più anni scolastici aiutano,
il dizionario è al centro, il vocabolo italiano passa di bocca in bocca,
si cerca l’equivalente cinese, si affrontano concetti ardui poco per volta,
quello che unisce è la certezza trasmessa dal docente: la fatica è
tanta, ma riusciremo nell’impresa. Importante è creare l’atmosfera
della comprensione: silenzio, concentrazione, ognuna/o sul proprio lavoro, ma
anche serenità di fronte agli errori, scherzo e riso, alternare momenti
di sforzo con altri più tranquilli, far capire che la lingua s’impara
facendo tante attività. L’aritmetica è la materia preferita
dai più, sono abituati in Cina a fare i calcoli a mente e vengono considerati
intelligenti i più veloci. La geometria invece piace meno e in genere
incontrano difficoltà. Un anno alcuni alunni non volevano fare musica,
sembrava loro inutile e ottenni un atteggiamento diverso, più collaborativo
perché ne discutemmo e mi lanciai in una perorazione rispolverando i
ricordi di liceo e facendo vedere gli stretti legami tra matematica e musica.
La storia è difficile per italiani e stranieri, anche loro accettano
di più la geografia, ma l’entusiasmo di chi insegna è una
molla potente e la relazione docente-discente traina nello studio. Poi si appassionano
e quelle e quelli che hanno ricordi più vividi della scuola cinese scoprono
analogie, collegano e mi danno informazioni su cosa imparavano là. Per
esempio ho scoperto che ci sono fumetti cinesi ambientati nella seconda guerra
mondiale ed Yin Yin, esperto in aerei, mi ha fatto notare che gli aerei sulla
copertina della vecchia enciclopedia Conoscere (non si butta via nulla nelle
nostre scuole!) sono giapponesi, particolare a cui in tanti anni non avevo fatto
caso. Lo scambio culturale passa da mille rivoli e i più impensati, il
confronto, l’arricchimento reciproco riguarda ogni argomento. Nell’aula
fa bella mostra di sé una carta geografica del mondo, chiesta e avuta
in dono da un alunno al ritorno dalla Cina, è in cinese, la Cina campeggia
al centro, accanto la vecchia carta con l’Europa e la piccola Italia al
centro, sono il segno visibile che ognuno di noi si mette al centro, importante
è sapere che è una scelta affettiva, personale, parziale.
Il gruppo,Tempo Pieno: problematiche
e ricchezze in un percorso con tutte le risorse necessarie
Sonia Bortolotti
Classi complesse, trasversali, luogo di linguaggi diversi e problematiche
sempre più articolate e difficili: la realtà in cui ogni giorno
di più ci troviamo a vivere nella nostre scuole. Ma quando le risorse,
i numeri, le condizioni sono quelle giuste, le diversità, i percorsi
difficili possono divenire non peso, ma ricchezza.
Mi piace sottolineare questa esperienza vissuta nel 2000/01( e proseguita poi,
con risultati importanti, fino in Quinta) dove ho sperimentato direttamente
come sia possibile che le difficoltà si trasformino in ricchezza collettiva
ed impulso grande di crescita quando le condizioni – e cioè il
modello scolastico, il basso rapporto insegnanti – alunni, il sostegno
necessario ( con la presenza dell’educatore ), l’esistenza del Laboratorio
con insegnante distaccato …… -
sono positive, quelle necessarie alla scuola di oggi.
Classe: Seconda elementare
Numero alunni: 15 alla fine dell’anno scolastico
Alunni stranieri: 7; dei bambini italiani, uno è un disabile gravissimo
Tempo pieno – due insegnanti di classe, un insegnante di sostegno per
22 ore, una educatrice per 16 ore settimanali
Nella scuola esiste ( soppresso nel 2003) un laboratorio teatrale con insegnante
distaccato.
La Seconda B è una classe piccola ma molto complessa: sette alunni sono
stranieri, provenienti tutti da realtà estremamente diverse. Due bambine
sono italofone, ma nate da genitori stranieri (una famiglia del Ghana, l’altra
polacca di lingua tedesca) . Si tratta di due bambine disorientate culturalmente,
povere di identità, con una lingua madre” (l’italiano) debole
e superficiale: una di loro soffre di una grave dislessia. C’è
poi un bambino brasiliano, giunto in Italia all’età di sei anni,
che ha acquisito con padronanza l’italiano parallelamente all’uso
costante e approfondito della lingua madre. Ad ottobre giunge una bambina messicana,
ben alfabetizzata in spagnolo con un ambito familiare colto e stimolante. In
novembre si inserisce una bambina tibetana, che porta nella classe una lingua
totalmente diversa ed un altro alfabeto, che usa con padronanza: è una
bambina con fortissima identità culturale, che poterà grossi stimoli
al gruppo favorendo l’interscambio delle culture.
M.,invece, è una bambina albanese che da due anni alterna periodi di
vita in Italia e in Albania a causa delle difficoltà nel trovare una
casa. Non usufruisce di significativi stimoli culturali; ha acquisito un italiano
ancora poco sicuro in prima ed ha imparato a leggere e scrivere in italiano.
Nel corso dell’autunno tornerà in Albania frequenterà la
scuola albanese, per rientrare poi nella classe, molto più sicura, nel
mese di maggio. Alla fine di aprile viene inserito nella classe un bambino cubano
con serie problematiche sociali e cognitive (negli anni seguenti, verrà
diagnosticata una grave dislessia). L’apprendimento dell’italiano,
comunque, sarà rapidissimo.
Degli alunni italiani uno, E., presenta problemi molto gravi: è un bambino
con sindrome di Down, abbandonato dai genitori naturali alla nascita e successivamente
adottato: ha sviluppato come conseguenza dell’abbandono in ospedale problematiche
psicologiche decisamente rilevanti che lo portano a chiudersi alla comunicazione
con l’altro e all’interazione con l’ambiente. Manifesta grosse
crisi emotive in relazione a paure profonde e ed insuccessi anche minimi, a
situazioni di cambiamento, alla difficoltà di “ mettersi in contatto”
per manipolare con l’atteggiamento persone e ambiente. Presenta forti
stereotipie, atteggiamenti sia autolesionisti che provocatori e aggressivi nei
confronti degli altri.
Il gruppo dei bambini è un gruppo solido affettivamente, accogliente,
capace di accettazione ed elasticità.
In classe prima il lavoro principale è stato proprio quello di formare
il gruppo, di favorire lo sviluppo della vicinanza fra i bambini, dei legami
comuni. Era un gruppo particolare di bambini, piccolo, fatto di grandi diversità,
di accoglienza, di calore affettivo. Il gruppo si è strutturato, organizzandosi
lentamente intorno ad E., il bambino disabile. Ha saputo assorbire le esplosioni
di E semza ferirsi. E’ stato un lavoro intenso, ma i bambini sono andati
al di là delle nostre aspettative, al di là di noi e dei nostri
stimoli. E è diventato uno di loro, diverso, ma ognuno era diverso, con
delle sue cose particolare, ricchezze, anche, da dare. Più piccolo, da
proteggere. Un amico. Si è creato un grosso legame che li ha aiutati
tutti a crescere, a maturare, a divenire gruppo. Anche, un gruppo capace di
assorbire i cambiamenti di insegnante, le partenze e gli arrivi continui dei
bambini ( caratteristica del territorio del Centro Storico) senza “ scoppiare”.
Nonostante le crisi – a volte molto forti .- di E. e – molto spesso
– le sue urla – abbiamo puntato sulla sua presenza in classe, con
gli altri, programmando il più possibile i momenti solo suoi ( nella
stanza “ calda” del sostegno ) e riducendoli gradualmente. Abbiamo
imparato a dividere con lui ogni tipo di momento scolastico . anche quelli di
maggiore attenzione – e ad accettare che da noi il silenzio non fosse
mai tale. E’ stato un bel lavoro: in classe, impegnate in attività
spesso parallele ma diverse, noi adulti siamo stati quasi sempre in due. I bambini
hanno imparato ad accettare E., a sostenerlo, anche quando picchiava e sputava.
Un compagno con il suo modo di essere, con cui arrabbiarsi e poi fare la pace.
Un gruppo che è cresciuto davvero oltre i “ passaggi programmati,
e ci ha insegnato molto. Quando gli adulti sono disponibili, pronti ad apprendere
e a mettersi in gioco, i bambini vanno al di là, nella relazione, nel
contatto, nell’accettazione. I bambini non hanno pregiudizi: quando li
hanno, li prendono da noi.
A livello di impostazione didattica ho puntato, sin dalla prima su tre aspetti
forti sui quali è stato costruito un percorso per me molto sperimentale.
Muovendomi sempre unitamente con i colleghi di classe, che, però, sono
cambiati ogni anno. Presenza preziosa e indispensabile è stata l’educatrice
del Comune che è rimasta con noi per 5 anni. Il primo aspetto è
stato quello della maggiore semplificazione possibile del linguaggio orale,
ridotto alla comunicazione forte ed in alcuni casi sostituito da altri linguaggi
( sforzandosi di non dimenticarselo mai e di costruirci sopra una didattica
“ modificata”); il secondo, quello della massima individualizzazione
possibile, per costruire intrecci di percorsi diversi e paralleli ( stimolante
e faticosissimo,e oltretutto era importante non introdurre altre figura adulte
nella classe, soprattutto se con presenze “ a spezzone”).Il terzo,
è stato l’aspetto della valorizzazione data a tutte le diversità,
presentate e vissute come ricchezze da scoprire e dividere: i modi di essere,
i linguaggi, le culture, le esperienze di vita.
Sinteticamente, l’avevo in parte schematizzato così:
INTERCULTURA--trasformazione/adeguamento dei percorsi nelle diverse aree
ITALIANO
- confronto sulle lingue e scoperta di altri linguaggi
- percorsi individualizzati/ diversificati
GEOGRAFIA
- immaginiamo il mondo
- confronto sulle diversita’ culturali
- io, oggi, nella scuola, nel quartiere
STORIA
- oggi – ieri - la scuola nei tempo, nei paesi da cui veniamo e qui a
Firenze
MUSICA
- movimento creativo sulla musica – canti e danze delle diverse culture
Per quanto riguarda le attività centrate sulla lingua, siamo arrivati in un percorso lento e capillare a produrre il lavoro “ le nostre lingue”: tabelle con parole e frasi nelle” lingue della classe”, un cartellone con i diversi alfabeti ( tre, arricchito gli anni seguenti con l’arrivo di un bambino cinese e di un bambino indiano), conte, filastrocche, canti dei vari paesi.
Contemporaneamente, procedeva il percorso individualizzato, fatto utilizzando le compresenze, piccoli momenti di “ autogestione e tutoraggio all’interno della classe” e il mio’orario aggiuntivo per l’insegnamento della lingua italiana, non avendo voluto mandare i bambini al “ centro alfabetizzazione” del Comune di Firenze. Così, anche l’attività di stretta alfabetizzazione si è potuta svolgere in stretto collegamento al percorso di classe.
Nel corso dell’autunno è iniziata l’attività con
il laboratorio teatrale ( quattro / sei ore settimanali) che ci ha garantito
attività preziose ed altre ore di compresenza in cui elaborare il contatto
con i bambini, anche e soprattutto con E ( qualche volta, in teatro, potevamo
essere in tre ).
Il progetto è partito dal gioco e dalla scoperta reciproca per muoversi
sulla valorizzazione delle esperienze di vita, dei diversi linguaggi, dei patrimoni
culturali. Obiettivo non secondario, è chiaro, era favorire lo sviluppo
delle capacità espressive e relazionali del gruppo, con particolare riguardo
all’inserimento del bambino con gravi difficoltà, E.
Il lavoro, portato avanti in strettissimo collegamento alle attività
in classe è durato da ottobre a marzo e, ripreso poi alla fine dell’anno
all’arrivo dei due ultimi bambini, è stato il coronamento del percorso
di Seconda.
Lo spettacolo “ Girotondo Musicale”, comprendeva danze su musiche
di diverse culture, movimento creativo, i “ massaggino” con la musica,
canti dei diversi paesi, filastrocche e conte in tante lingue – anche,
è chiaro, l’italiano!–
Momenti individuali, a due, collettivi – anche il piccolo E – con
l’educatrice, sempre in scena con gli altri – letture delle storia
inventate dai bambini in un lungo percorso su un canto tibetano…
Finiva con il dono del pane, con i bambini che tagliavano il pane ( sul tavolo,
il grande pane tibetano tagliato dalla bambina in costume tradizionale) e lo
portavano lentamente, in dono, a tutti gli spettatori, per tornare poi insieme,
a sedere, a dividerselo e mangiare fra loro.
Riflessioni sparse sulla ricreazione
Carla Carpigiani e Gianluca Gabrielli
La ricreazione è un tempo scolastico lungo e importante. Di fronte alle trasformazioni della vita nelle città, nelle quali gli spazi autonomi di gioco per i bambini sono sempre più rari, le ricreazioni del Tempo Pieno assumono un ruolo “strategico”; questi tempi surrogano tale bisogno sociale di libera crescita e offrono l’occasione ai bambini di sperimentare il gioco con una parziale autonomia dagli adulti.
Nella nostra esperienza insieme come insegnanti (9 anni) abbiamo cercato di “gestire” questo tempo sia all’interno che all’esterno, offrendo stimoli, ma nello stesso tempo lasciando liberi i bambini di organizzarsi e provare le esperienze seguendo le proprie passioni. La regola base (spesso camuffata tra altre legate a lanci e calci) era che nessuno può essere escluso dai giochi.
Negli spazi interni non è facile! Spesso la carenza di spazi verdi spinge gli insegnanti a ridurre i tempi della ricreazione o a organizzarla in modo “ordinato” attraverso l’attività seduta per evitare caos crescente che si autoalimenta stressando tutti. Qui i giochi di società la fanno da padrone, quelli basati sulla logica (tris, dama…) quelli di logica e fortuna (carte, gioco dell’oca…) quelli di prontezza… quelli di mobilità seduta o sdraiata (disegni, filastrocche con battiti di mani… ). Ci sono stati gruppi di bambini appassionati di briscola, di travestimenti per giochi di ruolo, ma anche quelli che preferivano disegnare o costruire giocattoli inventati con materiale di recupero (mitiche sono state le Yogurtmon, carte ricavate dai barattolini di yogurt che facevano concorrenza a quelle dei pokemon).
La costituzione dello spazio (spesso la classe piena di banchi o un corridoio) rende faticose e difficoltose altre soluzioni… Oppure bisogna inventarsele: accatastando i banchi si ottengono spazi utilizzabili anche per giochi con componente corporea notevole come Twister (ce l’ha portato Arianna) o si possono approntare angoli morbidi mobili con materassino di gomma piuma (che hanno riscosso grande successo in prima e seconda classe, con accesso regolato e giochi di animali e famiglia ecc.) Anche sotto i banchi c’è una dimensione dello spazio che noi insegnanti fatichiamo a cogliere ma che i bambini ricreano continuamente: spontanee famiglie allargate con gattini e cagnolini…
Quando si ha a disposizione un giardino l’organizzazione della ricreazione
esterna diventa uno scherzo. Il ruolo degli insegnanti diviene allora in gran
parte quello di regolare conflitti tra gruppi e singoli e le esclusioni e, ogni
tanto, di rilanciare idee per variare le attività. Qui ha sempre prevalso
la dimensione da cortile in cui una volta anche noi ci trovavamo a giocare.
L’elemento che ci ha sempre affascinato è che ci sono giochi che
non vengono mai proposti dall’insegnante ma che si presentavano ciclo
dopo ciclo con le stesse modalità: dalla seconda in poi iniziano le case
con le foglie: sono quadrati e rettangoli delimitati con le foglie secchie e
gli aghi di pino spazzati con ramoscelli-scopa; appartamenti di varie metrature
in cui i bambini e le bambine si divertono a inventare situazioni e giochi.
C’è anche la versione più “mercantile” con i
negozi in cui le foglie diventano denaro e ogni tanto si verificano “furti”.
Dal momento che vige la regola aurea che non si possono strappare le foglie
dagli alberi, il momento di massima ricchezza è in autunno.
Anche i sassi e il fango vanno forte. Ci sono i sassi che scrivono in rosso
sul muretto, quelli che si frantumano facilmente, quelli durissimi che servono
come attrezzi per schiacciare, e infine c’è il mitico, fiabesco
fango, utile tra l’altro per “pranzetti” a base di succulente
polpettine.
Un evergreen intramontabile è anche il gioco dell’elastico, soprattutto
tra le bambine, e qui l’elastico da classica mutanda (il più economico
e quello che si presta meglio per stare alle caviglie saltellanti dei bimbi)
si spreca.
Nei giochi di squadra e sportivi il nostro ruolo è stato quello di dare
idee, utilizzando anche le ore di educazione motoria e di educazione all’immagine,
e di regolare i conflitti fra gruppi e fra singoli. Proprio perché la
dimensione è quella del “cortile” era importante controllare
che alcune dinamiche non venissero esasperate soprattutto nei confronti dei
bambini più deboli. A volte l’intervento è avvenuto in modo
indiretto, creando e sostenendo nell’attività didattica gruppi
inediti che, una volta sdoganati, potranno essere ripresi spontaneamente dai
bambini nelle ricreazioni. Altre volte ci siamo trovati a imporre proibizioni
dove il gioco si faceva escludente e dove i partecipanti si irrigidivano…
In generale vigeva la regola che tutti/e possono partecipare ai giochi e non
esistono numeri fissi di partecipanti (idea sostenuta anche in palestra, arrivando
a forzare le regole dei giochi fino a snaturarle facendo giocare tutti insieme:
dai 4 cantoni ai 20 cantoni).
Giocattoli da casa: nelle nostre esperienze concedere di portarli rimane poco stimolante per cui – rischiando di apparire rigidi - quasi sempre è stato negato il permesso. In cambio ci siamo sempre impegnati a mettere a disposizione i materiali necessari per costruire giochi a scuola. Ogni tanto abbiamo tolto l’interdizione per brevi periodi sperimentali: una gita, le ultime due settimane dell’anno, una situazione di conflitti molto forte che non si riusciva a sbloccare); Questi momenti hanno gratificato molto i bambini perché è un modo anche per portare a scuola parte della loro identità extrascolastica… Nel tempo è così nato un confine-giochi: la zona dell’atrio fino ai cappotti (con Gessica che ci racconta di aver tenuto nel cappotto il suo Tamagoki per un breve periodo nutrendolo durante le uscite in bagno nelle lezioni di geometria).
Quando nascono tensioni e sofferenze durante le ricreazioni, a volte queste tensioni sfuggono agli insegnanti e i bambini non cercano ascolto in essi… Allora l’ascolto dei genitori diviene fondamentale. Nella nostra esperienza l’azione dei genitori è di due tipi. Dove si è sviluppata fiducia nei nostri confronti ci è stato riferito il tutto e si è tentato di intervenire indirettamente e mandare segnali di disponibilità ai bambini; qui di solito la situazione riesce ad essere riacciuffata e migliora. Dove i genitori hanno ritenuto che la nostra sordità alla situazione fosse consapevole hanno deciso di porre pubblicamente la rivendicazione nei confronti degli insegnanti (spesso condivisa con i bambini) e in questi casi è risultato molto più difficile e meno proficuo intervenire sul problema.
Un’ultima riflessione sul rapporto tra compressione e rilassamento. Ci
sembra importante prevedere sempre tempi di decompressione al termine delle
ricreazioni. Infatti spesso i giochi per i bambini sono emotivamente più
coinvolgenti delle lezioni… c’è bisogno di un intervallo
tra gioco e attività didattica!