I
SAPERI AL TEMPO DEI MERCANTI |
Corso di aggiornamento a cura del
CESP – Trieste |
Lunedì 29
novembre / Martedì 7 dicembre 2004 – Liceo Oberdan (Aut. Reg.
14997/C12 del 20/10/2004) Direttrice del corso: Daniela Antoni, Cesp di Trieste |
ATTI
Legge 53 ovvero la sparizione dell'Istruzione
tecnica e Professionale
Alessandra Bertotto
Impatto e leggerezza
Renata Puleo
La precarizzazione nella scuola
Stefano Micheletti, docente precario
Impatto e leggerezza
Renata Puleo
“ Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi del nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero di automobili arrugginite”
ITALO CALVINO, Lezioni americane (1988)
Nell’ottica della leggerezza della pensosità,
propongo una riflessione. L’ ho scritta come base di discussione per un
lavoro di “decostruzione “ dei significati del processo di riforma
in atto nella scuola elementare, lavoro che si sta svolgendo nell’istituto
che dirigo a cura di un gruppo di docenti, su mandato del Collegio Docenti.
Perché una argomentazione sulla Riforma?
Essa si rende necessaria in considerazione delle generali difficoltà
interpretative contenute nella normativa (tutto il combinato specifico: Dlvo
19 febbraio 2004; CM n 29 del 5 marzo 2004; normativa precedente non oggetto
di abrogazione; normativa precedente abrogata che permane inscritta nella storia
degli ordinamenti; sentenze e pareri.), del movimento di opposizione e/o di
critica creatosi nel Paese negli ultimi due anni di gestazione e di approvazione
della legge, della transizione verso l’applicazione/disapplicazione di
alcuni punti dovuta alla discussione al tavolo sindacale. Il tutto nella cornice
del preoccupante quadro politico del nostro paese e più in generale del
contesto europeo dove la politica liberista si affianca a espressioni destrorse,
la cui singolarità storica è il progressivo smantellamento del
concetto di pubblico.
Una precisazione sempre di cornice: in una situazione politica democratica l’espressione
del voto non manifesta una delega “secca” e senza ritorno di fiducia.
La Costituzione Italiana non prevede forme plebiscitarie di adesione alle scelte
del Parlamento, ma semmai un controllo continuo del suo operato per conto di
istituti diversi, nonché popolare (si vedano gli articoli sul diritto
di manifestazione del dissenso e sull’istituto referendario). Il Governo,
anche quando delegato dal Parlamento ad emanare decreti, mantiene un rapporto
diretto con i principi e i contenuti della delega stessa; la legittimità
dei provvedimenti decretizi è soggetta a continuo controllo e non si
muta in legittimazione di qualsiasi comportamento e atto; la Costituzione Italiana
non prevede un Sovrano e un Suddito nel senso moderno del loro significato,
ma la sovranità è di carattere diffusivo; la Legge, esercitata
in nome del popolo, trova la sua vigenza nella interpretazione e nella applicazione,
non nella esecuzione. Il carattere esecutivo se appartiene all’azione
di governo, è attenuato dal lavoro di magistratura che si articola sulla
applicabilità ai contesti delle norme stesse. Se per un funzionario dello
stato e per un cittadino non è ammissibile l’inottemperanza del
dettato legislativo, o semplicemente l’inadempienza, l’inerzia,
ad entrambi i soggetti è fatto obbligo di una valutazione attenta delle
condizioni di applicabilità della norma e quindi la valutazione responsabile
e trasparente delle caratteristiche dei contesti a cui tali norme si riferiscono.
Il concetto di deroga e di descrezionalità sono comportamenti previsti
nell’impianto democratico. Nello specifico della scuola, la legge sulla
autonomia delle Istituzioni Scolastiche, pur a tratto derivato, richiamata anche
dalla Costituzione Italiana all’art. 117, intende garantire proprio questa
lettura dei contesti, delle situazioni locali. La stessa definizione di Piano
dell’Offerta Formativa, mantenuto nella formulazione originale anche nel
combinato della Riforma, richiama la necessità di adesione al territorio,
inteso come luogo fisico e simbolico di cui leggere le caratteristiche e nel
quale contrattare i percorsi. Tale contrattazione non può sfigurare la
personalità giuridica della scuola come agenzia pubblica di educazione
e formazione, né far venire meno, o attenuare, la sua specificità
politica e professionale. La lettura del bisogno e del fabbisogno nella loro
dimensioni sincroniche e diacroniche, nel loro palesarsi e nel loro mantenersi
sotterranei, dentro la sfera personale del più generale “bisogno”
che caratterizza lo stare al Mondo e in Società, tale lettura deve essere
garantita da educatori professionisti, consapevoli del ruolo politico del proprio
lavoro. Tra l’altro, la genitorialità responsabile si manifesta
proprio nella capacità di “gettare” nel mondo i figli, nel
garantire su di loro lo sguardo esterno – ma non estraneo perchè
vincolato al bene comune rappresentato dalle nuove generazioni - uno sguardo
non inficiato dalle proiezioni inconsapevoli tipiche delle relazioni famigliari
e comunitarie. Questo sguardo è – durante l’infanzia e la
gioventù - quello della scuola. La scuola ha a cuore le biografie personali
(1) delle creature piccole e dei giovani che tiene in affido temporaneo nel
tempo e nello spazio del suo lavoro di educazione, ma non fa di esse un destino,
un percorso una volta e per sempre definito. La scuola lavora per e dentro il
mutamento. Il suo unico fine, la sua finalità cosciente, è indurre
cambiamento. In tal senso la valutazione è un percorso che non si conclude
con il fermo-immagine di una verifica o di una certificazione. Esse rappresentano
solo uno strumento per dire il punto a cui si è giunti nel concorso complesso
e sistemico di svariati fattori in gioco nella relazione educativa. La valutazione
dei comportamenti umani, come tutte le operazioni razionali complesse, può
essere affrontata solo mediante una disposizione temporale prudente, in cui
i singoli momenti valutativi del percorso aiutano la comprensione del fenomeno,
ma non la esauriscono. Il sistema dei crediti e del portfolio in cui si è
trasposto il contenuto semantico ed esperienziale del termine inglese “know
how” (2) vuole andare verso una competenza certa, una volta per tutte.
Ma basta indagare lo stesso concetto di competenza per accertare la sua natura
sistemica e relazionale (3). La spinta alla certificazione creditizia e di competenze
acquisite, può portare all’impossibilità di lavorare proprio
a quegli standard di cui tanto si parla ma che ancora nessuno – per la
scuola – ha delineato. E non a caso. Come in un circolo perverso, proprio
l’ansia di voler accertare e definire, senza tener in debito conto il
contesto in cui una prestazione si esprime, può portare al disordine
valutativo, dove ciascuno, in proprio, sulla base delle esigenze del certificatore
(non sempre disinteressate…) giudica (valutare è giudicare) e sanziona
relativamente al futuro del certificato (soggetto e pezzo di carta). Chiaramente,
come è stato detto, la deriva è la mancata pubblicità (nel
senso politico del termine “pubblico”: visibile controllabile sulla
scena pubblica) dei “titoli”, l’eliminazione della “titolarità”
legale ad emanarli, conferita da una autorità super partes,
ovvero dallo Stato. Non solo, se come ricordava Gramsci, “studiare è
anche una posizione della schiena”, il rischio è che per dirimere
le contraddizioni fra posizioni frutto di diversi interessi e la complessità
delle operazioni di valutazione e di certificazione, si adotti solo la dimensione
quantitativa e sommatoria dei saperi. Inducendo i più giovani a pensare
che tanti piccoli esami equivalgono a nessun esame serio. Intendendo con l’aggettivo
“serio” una situazione dove esaminato ed esaminatori stanno dentro
una relazione critica che costringe la parti a giocarsi veramente tutti i saperi,
dove si valuta la capacità argomentativa, quella che ci espone al misurare
le nostre enciclopedie personali. Tale capacità manifestata in situazione
può essere descritta. Ha bisogno di più modelli di descrizione,
e non può essere certificata una volta per tutte. Ogni descrizione è
una mappa, e la mappa non è il territorio. Dunque ogni prova disegna
un tratto di percorso ma non aderisce alla storia completa dell’ esperienza
e possiede solo una relativa, nel tempo e nello spazio, capacità predittiva.
Una buona mappa consente di navigare a costa, ma non dice nulla della frastagliatura
– non a caso frattale - delle coste. Il cambiamento nelle creature viventi
è sempre epigenetico. Qualcosa scivola continuamente, una deriva dove
si conserva ciò che serve alla sopravvivenza (in termini non di adattamento
all’ambiente, ma di “accoppiamento strutturale”) e si perde
molto anche per semplice casualità. Per tanto anche la flessibiilità
va letta nel suo senso profondo, tributario della fisica in cui essa è
nata, come capacità di modificarsi senza perdere l’organizzazione
interna, senza “morire”, dimensione entropica applicabile anche
alla Intelligenza Umana, e al senso filosofico della parola Anima.
NOTE
(1) Il concetto di biografia elaborato in Italia
da Duccio Demetrio è l’opposto del fissismo di una storia personale
descritta in un portfolio di competenze acclarate. Il suo testo “Elogio
della immaturità” essendo il meno “tecnico” è
stato anche il più ignorato, non potendosi estrapolare da esso percorsi
per descrivere percorsi. Scrive: “ Chi avrà mai decretato che l’immaturità
debba precedere ogni traguardo adulto? Perché non capovolgere questo
luogo comune? Perché non pensare ad un’altra immaturità
che sappia continuare ad alimentare la nostra vita di innocenza e di speranza?”
(2) quando Francisco Varala – epistemologo e biologo- applicò il
termine all’etica lo fece utilizzando il contenuto semantico di abilità.
Un’abilità ha forte contenuto inconscio e quindi non è soggetta
a descrizione consapevole. Partendo da Dewey, ricorda: “ per mezzo delle
nostre abitudini SAPPIAMO COME COMPORTARCI …noi facciamo una infinità
di atti utili (competenti) senza pensarci…sappiamo come farli. Se questo
lavoro lo vogliamo chiamare conoscenza, in tal caso la conoscenza di e intorno
a (il Know-What), quella che implica una riflessione e un cosciente apprezzamento
restano di altro genere.” E ancora: ”La mia…è una proposta
di reincantamento della saggezza, intesa come azione non intenzionale.Questo
saper vivere è basato su una pragmatica di trasformazione la quale richiede
niente di meno che una consapevolezza momento per momento della natura virtuale
(non definita in atti specifici, ma destinata ad un perpetuo essere in potenza
di) di noi stessi. Nel suo pieno dispiegarsi essa dischiude una apertura mentale
intesa come autentico prendersi cura”.
(3) Zucchermaglio in una recente conferenza tenuta ad educatori dell’età
adulta, ricordava come il concetto di competenza nel mondo adulto e nello specifico
del mondo del lavoro, è legato al concetto di contesto. Il contesto è
l’insieme delle pratiche discorsive, del linguaggio condiviso, delle prassie,
degli atti non verbali, il tutto individuato mediante segna-contesti. Una abilità
e una competenza non sono dunque osservabili fuori da una dimensione sociale
e relazionale. Il fattore linguistico in questa prospettiva è ovviamente
preponderante.
Legge 53 ovvero
la sparizione dell’Istruzione tecnica e Professionale
Alessandra Bertotto
Nella futura scuola superiore viene approfondita e aggravata la logica della
divisione, introdotta già nella scuola di base.
Nella legge Moratti la scuola sec. di 1° grado “ è caratterizzata
dalla diversificazione didattica e metodologica in relazione allo sviluppo della
personalità dell’allievo”. E qui viene già introdotto
il concetto della disuguaglianza che verrà poi concretizzato nel decreto
attuativo con il Piano di studio personalizzato (in sostanza le materie facoltative
opzionali) e il Portfolio.
La diversificazione didattica e metodologica prelude poi la scelta precoce del
percorso successivo, determinata anche dalle materie opzionali facoltative studiate
in terza media su indicazione del tutor. Nella legge si dice infatti che questa
scuola “aiuta ad orientarsi per la successiva scelta di istruzione e formazione”.
Nella sua applicazione saranno gli “approfondimenti” scelti dalle
famiglie con l’assistenza del tutor a “consentire una scelta degli
indirizzi formativi del secondo ciclo (…) già per certi versi collaudata”.
Infatti come è noto nella superiore siamo di fronte a due canali ben
distinti, falsamente posti sullo stesso piano: il sistema dei licei, durata
5 anni, e il sistema dell’istruzione e della formazione professionale,
durata 4 anni, (quindi fino a 18), oppure fino al conseguimento di una qualifica
professionale di durata almeno triennale (quindi fino a 17 anni).
Qui sorge subito un problema: la sparizione dell’istruzione tecnica, frequentata
dal 40% degli studenti italiani. Nelle ipotesi più ottimiste si dice
che dei 39 indirizzi dell’istruzione tecnica, 12 diventerebbero licei
economici o tecnologici, rimanendo statali, gli altri 27 diventerebbero formazione
professionale regionale, come prevede l’art.117 della Costituzione.
E’ evidente la differenza di valore tra i due: uno è astratto e
teorico, l’altro è rivolto all’avviamento al lavoro; uno
si conclude con l’esame di stato, l’altro con una qualifica lavorativa;
uno avrà una struttura omogenea di tempo spazio e luogo, l’altro
potrà essere “istruzione” o “formazione”, a tempo
pieno o a tempo parziale; uno sarà statale, l’altro regionale.
In sostanza uno sarà di serie A, l’altro di serie B.
In entrambe le ipotesi la conseguenza sarà il generale abbassamento del
livello culturale e di preparazione, prima di tutto per la drastica diminuzione
del tempo scuola.
Per l’istituto professionale di stato poi, il destino è segnato:
diventerà formazione professionale regionale. Chi come me ha insegnato
all’istituto professionale per anni, sa che gli studenti che frequentano
questa scuola sono quelli che alle medie hanno avuto più difficoltà,
sono quelli che appartengono a fasce sociali più svantaggiate, a volte
non tanto economicamente, ma culturalmente. Anche per questi motivi in questi
ultimi dieci anni l’istituto professionale ha attuato delle modifiche
sostanziali: sono diminuite le ore di lezione settimanali (si arrivava anche
a 44 ore la settimana), sono diminuite le materie, si è cercato di elevare
il livello culturale degli alunni attraverso la modifica dei programmi, l’introduzione
del biennio comune (prima e seconda), 4 ore settimanali di approfondimento e
recupero e si è cercato di concretizzare un rapporto con il mondo del
lavoro attraverso 360 ore di stages in aziende pubbliche e private in quarta
e in quinta.
Con il passaggio alla formazione regionale tutto quello che si è costruito
viene gettato via.
Gli Istituti Tecnici e Professionali che passeranno all’istruzione e formazione
professionale con un anno di scuola in meno avranno un taglio del 20% del tempo
(che significa anche 20% in meno di posti di lavoro.)
Per tutti comunque, anche per gli Istituti Tecnici che diventeranno licei economici
e tecnologici, si prevede una netta diminuzione delle ore di lezione, con un
orario obbligatorio (forse 27 ore?) e materie facoltative o opzionali (5 ore?),
visto che nella Legge si parla di Piano di studio personalizzato. Possiamo facilmente
prevedere che accadrà quanto è già avvenuto per la scuola
media.
Quali e quante materie scompariranno, diventeranno facoltative/opzionali o perderanno
ore di lezione, dal momento che ora gli studenti hanno come minimo 34/36 ore
settimanali? Dal 20 al 30% di ore di lezione in meno causeranno una pari riduzione
di organico.
Esisteranno ancora ore di laboratorio, fondamentali nell’insegnamento
delle materie di indirizzo? A questo è legato anche il destino non solo
degli insegnanti tecnico pratici, ma della maggior parte degli insegnanti delle
materie di indirizzo.
Dal momento che i licei avranno un profilo prettamente teorico scomparirà
la caratteristica qualificante dell’istituto tecnico, che è il
tentativo di coniugare sapere teorico e applicazione di questo sapere, mettere
insieme scienza e tecnologia, dando spazio allo stesso tempo a quella che per
noi è la funzione fondamentale della scuola: la formazione e la crescita
di cittadini consapevoli.
Persino Confindustria critica la Legge Moratti riguardo all’Istruzione
tecnica:
“Le soluzioni prevedibili per il futuro dei diversi indirizzi degli attuali
Istituti Tecnici (venire “liceizzati, cioè privati della loro specificità
professionalizzante o passare integralmente alle Regioni) non sembrano soddisfacenti.
Sono evidenti in entrambe le soluzioni i rischi di depauperamento di quella
che è universalmente considerata una delle “perle” della
scuola italiana.” (Convegno di Fiuggi – Aprile 2003)
Questa situazione che preoccupa particolarmente Confindustria ha ritardato l’uscita
dei decreti attuativi del secondo ciclo. Tra l’altro a volte gli istituti
tecnici, ma anche i professionali sono fornitissimi di materiale didattico,
spesso di avanguardia, che viene usato per la formazione degli studenti, ma
anche per l’organizzazione di corsi di specializzazione post-diploma.
Spesso nei rapporti tra singole scuole e singole aziende si verifica che le
aziende utilizzino le strutture scolastiche per i propri corsi di aggiornamento.
Anche questo patrimonio verrebbe disperso.
In questo contesto è interessante analizzare la proposta di Confindustria
di quello che viene chiamato il polo di eccellenza:
” Licei tecnologici a indirizzo professionalizzante (…) potrebbero
essere direttamente collegati a un’offerta formativa più ampia
e modulare che preveda nella stessa sede:
- corsi brevi di formazione professionale
- corsi di formazione professionale triennali per la qualifica
- corsi di istruzione professionale quadriennali per il conseguimento del diploma
professionale
- corsi di formazione professionale superiore annuali o biennali.
(…) La stabilizzazione all’interno della stessa sede di offerte
che vanno dai corsi brevi di formazione ai licei tecnologici potrebbe tra l’altro
assicurare agli studenti una effettiva possibilità di “passerelle”
assistita dai docenti in un ambiente formativo dove istruzione e formazione
professionale comunicano e dove è valorizzata la collaborazione con l’industria
per stages e forme di alternanza.”
Tra l’altro ci si rende conto che le “passerelle” sono pura
propaganda, teoricamente possibili, ma nella pratica irrealizzabili, salvo abbassare
il profilo culturale per permettere i passaggi.
E’ molto pericoloso, a mio avviso, che diversi istituti tecnici abbiano
discusso e cercato di praticare la proposta di Confindustria, nella ricerca
di una strada per non finire nella formazione professionale regionale.
Formazione regionale perché finanziata dalla regione, ma gestita per
il 93% da privati: aziende, sindacati, istituti religiosi.
Formazione professionale regionale che ha sicuramente il rischio di consegnare
al padronato manodopera giovane e a basso costo (poiché basso è
ritenuto il livello delle qualifiche professionali regionali) e di incrementare
il mercato della formazione, che viene data in mano ai privati mediante provvedimenti
regionali, che escludono ogni forma di controllo pubblico.
Perché tutto questo?
In questo ultimo decennio la formazione professionale si è dimezzata:
da 190.000 iscritti a meno di 100.000. Allo stesso tempo nell’anno 2002/3
il 99,3% dei ragazzi usciti dalle medie si è iscritto alle superiori.
Da qui quindi la volontà di depistare i ragazzi nella formazione professionale
privata.
Il motivo è un finanziamento del Fondo Sociale Europeo per il quinquennio
2001/2006 proprio per la formazione professionale di 50.000 miliardi di lire
a livello nazionale (2.500 per il Veneto, 3.000 per la Lombardia e così
via).
E i privati sono pronti a ricorrere ad ogni mezzo, lecito e non, per accaparrarsi
i fondi. E’ di pochi giorni fa la notizia apparsa sulla stampa di 67 corsi
inesistenti per i quali sono stati incassati contributi a fondo perduto per
un totale superiore a 3 milioni 118 mila Euro. (Gazzettino e Nuova Venezia del
17/11/04, ma anche vari TG)
Ma in realtà il rapporto tra scuola e mondo del lavoro è ancora
più complesso.
Dalla legge e ancor più dallo schema di decreto sul diritto-dovere all’istruzione
e alla formazione per 12 anni si vede chiaramente che per l’adempimento
di questo diritto-dovere c’è un terzo canale: l’apprendistato.
La legge Moratti riprende l’obbligo scolastico e formativo previsto dalla
legge 144 del 1999 (legge del centrosinistra): obbligo fino a 18 anni, che può
essere assolto in percorsi anche integrati di istruzione e formazione:
a) nel sistema dell’istruzione scolastica
b) nel sistema della formazione professionale regionale
c) nell’apprendistato.
Nel decreto, applicativo della L.53 vengono riconosciuti come espletamento del
diritto dovere di istruzione e formazione a partire dai 15 anni di età
i periodi svolti nell’apprendistato previsti dal decreto 276/03, applicativo
della Legge 30 (legge Biagi) sul mercato del lavoro.
Si prevedono:
- incentivi a favore delle imprese
- l’inquadramento dell’apprendista inferiore di “non più”
di due livelli
- gli apprendisti sono esclusi dal numero dei dipendenti. Quindi ad esempio
per un’azienda che ha un numero di dipendenti fino a 15 e per questo motivo
non deve applicare lo statuto dei lavoratori, è senza dubbio conveniente
assumere apprendisti. Tra l’altro si può essere apprendisti per
sei anni.
- l’apprendista può essere licenziato alla fine del periodo
- la formazione può essere interna o esterna all’impresa. Nella
legge del 1999 poteva essere solo esterna. Ora quindi ci sono ancor meno strumenti
di controllo.
- non viene precisata la quantità delle ore di formazione (la decisione
spetta alle Regioni). Nella legge del 1999 erano previste 240 ore di formazione
all’anno (sotto i 18 anni), quantità decisamente ridicola se si
pensa che un bambino della scuola elementare frequenta 1000 ore all’anno.
Ora non ci sono neppure queste.
Il semplice fatto di lavorare come apprendista viene considerato espletamento
del diritto-dovere e dà crediti spendibili nella scuola.
Si va ben aldilà della valenza formativa del lavoro.
Secondo l’Isfol nel 2002 su più di 400.000 contratti di apprendistato
solo 31.000 apprendisti hanno frequentato corsi di formazione.
Proprio questo rivela l’inganno del decreto sul diritto dovere.
L’apprendistato è una non scuola. Quindi come ora ci sarà
chi andrà a scuola fino a 18 anni e oltre, ma ai ragazzi che a 15 anni
scelgono il lavoro (poco qualificato, poco pagato, precario) questa legge non
impone di tornare sui banchi di scuola.
Anche l’alternanza scuola-lavoro, che, si dice, è una “modalità
del percorso formativo” perché gli studenti apprendano competenze
spendibili nel mondo del lavoro, delude le aspettative e in realtà diventa
un quarto canale.
Prevede che gli studenti possano “svolgere l’intera formazione dai
15 ai 18 anni attraverso l’alternanza di periodi di studio e di lavoro
in azienda”. In pratica addestramento. Questi “periodi di tirocinio
(…) non costituiscono rapporto individuale di lavoro”, quindi se
non c’è rapporto di lavoro non c’è retribuzione, lavoro
gratuito in sostanza. Ci sono invece contributi per le imprese “disponibili
ad accogliere studenti”.
E’ previsto un tutor in azienda e un tutor a scuola (“docente incaricato
dei rapporti con le imprese”), i cui compiti sono riconosciuti come “valorizzazione
della professionalità docente”, cioè pagato con il fondo
di istituto.
L’alternanza scuola lavoro non riguarda solo gli studenti della formazione
professionale, ma tutti gli studenti delle superiori attraverso “corsi
integrati, che prevedano piani di studio progettati d’intesa tra i due
sistemi”, quello dell’istruzione, i licei insomma e quello della
formazione professionale.
Anche se il decreto applicativo non è ancora stato approvato, questa
parte della riforma è già in atto attraverso accordi tra il Ministero
e le Regioni, che prevedono corsi di formazione sperimentali, rivolti ai ragazzi
che finiscono la terza media.
Con l’approvazione della L.53 è stata abrogata la legge 9/99 sull’obbligo
scolastico (innalzato provvisoriamente a 15 anni, previsto a regime fino a 16).
Grazie a questa legge, ora abrogata, un numero di studenti fra i 40 e i 50 mila
erano stati recuperati alla frequenza della scuola superiore.
Con la sua abrogazione e in assenza di decreti attuativi del “diritto-dovere
per almeno 12 anni”, previsti dalla Moratti, si è creato un vuoto,
che ha fatto ritornare l’obbligo scolastico di 8 anni. Per riempire questo
vuoto, ma anche, contemporaneamente, per spingere nel senso voluto dalla Moratti,
si sono stipulati gli accordi con le Regioni, che hanno come primo risultato
la distruzione di un sistema unitario nazionale: 21 Regioni, 21 sistemi formativi
diversi.
Nel Protocollo d’intesa tra la Regione Friuli e il Ministero si prevede
per l’anno in corso 2003/4 “un’offerta formativa sperimentale
integrata di istruzione e formazione professionale”, corsi triennali per
i 14enni che escono dalla terza media.
Possono iscriversi presso una scuola superiore e alla fine dei tre anni avranno
la promozione alle classi successive del corso di studi, il diploma di qualifica
se la scuola è un istituto professionale e crediti per l’attestato
di qualifica professionale, previsto dalla legge.
Oppure possono iscriversi presso un Centro di formazione professionale e alla
fine dei tre anni avranno un attestato di qualifica professionale, valido per
l’iscrizione ai Centri per l’impiego e crediti per rientrare eventualmente
nel sistema dell’istruzione.
Ma quante ore di lezione faranno questi ragazzi? Quali materie di studio? Con
quali programmi?
Il Protocollo dice soltanto che l’Istituto scolastico e il Centro di formazione
definiranno insieme il progetto didattico.
Per capirne qualcosa di più, è utile vedere cosa succede in Veneto:
nell’anno 2002/2003 la Regione Veneto ha organizzato 20 percorsi formativi
sperimentali di durata triennale, con la partecipazione di 19 scuole e altrettanti
centri di formazione professionale, soprattutto del settore meccanico per un
totale di 423 studenti.
Il monte ore del primo anno è di 1000, quindi 30 ore settimanali di cui:
16 ore a scuola, materie di studio: italiano, lingua straniera, storia, matematica,
informatica, scienze integrate (nel secondo anno diventano 14 ore, nel terzo
anno 13);
14 ore: attività di orientamento e di preformazione.
(fonte: “La scuola veneta: una realtà in movimento” –
realizzazione dell’Ufficio Scolastico Regionale per il Veneto –
aprile 2003)
(Qualcosa di simile avviene in Lombardia: gli studenti del primo anno fanno
18 ore di scuola, di cui una di religione.)
Per l’anno 2003/2004 la Regione Veneto ha previsto 66 percorsi triennali
e 112 biennali per un totale di circa 3000 allievi.
E qualche tempo fa è stato stipulato un accordo tra l’Ufficio Scolastico
Regionale e l’Unione delle Camere di Commercio del Veneto, che ha coinvolto
200 aziende, per realizzare percorsi di alternanza scuola-lavoro per 300 studenti
di 11 scuole venete. Ogni scuola, a seconda del proprio indirizzo, formerà
una partnership con un’impresa di un determinato comparto, dall’industria
ai servizi.
Ma chi garantirà che gli stages siano momenti di formazione reale e non
un modo di fornire alle imprese manodopera gratis? Chi garantirà i criteri
di qualità delle imprese (il rispetto della legge 626 sulla sicurezza
nel posto di lavoro, delle norme fiscali, delle norme sull’ambiente etc.)?
Tutti problemi non risolti.
Di fronte a tutti questi No quali sono le proposte?
L’obiettivo deve essere quello di riuscire a rilanciare un progetto di
scuola di qualità e di inclusione, in cui le condizioni socio-culturali
di partenza risultino sempre meno determinanti per il raggiungimento dei più
alti livelli di istruzione.
Quindi un reale innalzamento dell’obbligo fino a 18 anni (da assolvere
a scuola e non nella formazione) con un biennio che sia tendenzialmente unitario
fino a 16 anni. Dopo i 18 anni o comunque negli ultimi anni delle superiori
si può pensare ad un rapporto efficace con il mondo del lavoro. Efficace
perché lo studente ha acquisito una cultura di base sufficientemente
approfondita e critica e una certa conoscenza teorica delle materie professionali.
L’alternanza scuola-lavoro può avere una sua validità se
attuata sul modello di ciò che già ora avviene al quarto e quinto
anno degli istituti professionali di stato (la terza area, che prevede stages
in aziende, pubbliche o private, di 180 ore annue, terza area che ora non è
più finanziata dallo stato. Chissà perché?!).
Lo stesso vale per l’apprendistato che deve essere previsto dopo i 18
anni e non può essere sostitutivo del percorso scolastico.
29/11/04 Alessandra Bertotto
La precarizzazione
nella scuola
Stefano Micheletti, docente precario
Intervengo per dare alcuni elementi su un aspetto fondamentale dei processi
di profonda trasformazione che stanno avvenendo nel settore della scuola, dell’istruzione
e della formazione. Aspetto che si accompagna al processo di mercificazione
dei saperi: la precarizzazione nella scuola.
Quando parlo di precarizzazione non mi riferisco solo alla precarizzazione dei
rapporti di lavoro del personale docente e non docente.
Mi riferisco alla scuola come – consentitemi il termine fordista –
fabbrica della forza lavoro.
Il mercato del lavoro, il sistema della produzione, si sono profondamente modificati
e, oggi, tutta la filiera dell’istruzione e della formazione (dalla scuola
dell’infanzia all’Università e oltre, dentro una dinamica
di formazione continua e ricorrente) deve produrre una forza/lavoro, una mente
d’opera, adeguata a questi mutamenti. Se il mercato del lavoro richiede
una forza/lavoro polivalente, flessibile, intermittente e precaria, la scuola
deve produrre forza/lavoro flessibile e precaria.
Per precarizzazione nella scuola dunque, intendo non solo la quota di lavoratori
– docenti e ATA – con contratti a tempo determinato che aumenta
sempre più, a scapito della quota dei lavoratori a tempo indeterminato;
oppure che anche a quest’ultimi sono richieste sempre più prestazioni
flessibili e precarie (soprannumerarietà, trasferimento d’ufficio,
passaggio ad altri insegnamenti, possibile licenziamento dopo due anni di messa
in mobilità, ecc.), ma che gli studenti devono andare a scuola di precarizzazione
e precarietà.
Il termine precarizzazione nella scuola va dunque oltre, pur comprendendolo, il fenomeno del precariato scolastico, di cui traccio una sintetica descrizione quantitativa e tipologica.
I contratti a tempo determinato, stipulati dai dirigenti scolastici nell'a.
s. 2003 – 2004, sono stati ben 210.175, di cui 73.211 relativi al personale
non docente.
Nell'anno scolastico in corso si presume che i contratti ammontino ad una simile
cifra, visto che le immissioni in ruolo sono state solo 12.000 circa, a fronte
di un numero superiore di pensionamenti, e a fronte di un aumento d’iscrizioni,
dovuto fondamentalmente all’accesso all’istruzione dei figli degli
immigrati.
Nel comparto scuola quindi oltre un quinto del personale è precario:
una cifra abnorme, non riscontrabile in altri settori.
Le tipologie di contratti a tempo determinato nella scuola sono diverse e ad ogni tipologia corrispondono trattamenti economici, diritti normativi e sindacali differenti.
Supplenti brevi
Sono reclutati mediante le Graduatorie d’Istituto. Ogni aspirante supplente
può richiedere di essere inserito in graduatoria in 30 istituzioni scolastiche
o in 10 circoli didattici. Stipulano un contratto a tempo determinato con il
Dirigente Scolastico per sostituire personale assente (per oltre 15 gg. nelle
medie di primo e secondo grado, per oltre 5 gg. nella scuola dell’infanzia
e primaria).
Sono pagati utilizzando il budget d’istituto, lo stipendio è quello
del Contratto Nazionale, a livello 0 di progressione di carriera.
Possono godere di un mese di malattia, con stipendio dimezzato e nei limiti
della durata del contratto. I giorni di ferie maturati e non goduti vengono
retribuiti, come pure la quota di TFR. Possono godere dell’indennità
di disoccupazione INPS (requisiti ordinari o ridotti). I supplenti brevi non
votano e non possono essere votati alle elezioni RSU.
Sui supplenti brevi dovrebbe cadere la scure dell’emendamento alla Finanziaria,
in preparazione in questi giorni per trovare i fondi per la riduzione berlusconiana
delle tasse: si toglie ai più poveri per dare ai ricchi insomma. Si parla
di ridurre drasticamente il fondo per le supplenze brevi, costringendo i docenti
di ruolo allo straordinario, oppure di spalmare gli alunni nelle altre classi
in caso di assenza del titolare, o a rinunciare alle compresenze per fare supplenze
tappabuchi: tutte cose comunque non dovute che noi abbiamo sempre detto ai colleghi
di non fare.
Supplenti fino al termine delle attività didattiche
Sono reclutati mediante le Graduatorie Permanenti Provinciali; oppure, per coprire
posti per classi di concorso di graduatorie permanenti provinciali esaurite,
o per posti che si rendessero disponibili dopo il 31 dicembre di ogni anno,
mediante le Graduatorie d’Istituto.
Nelle Graduatorie Permanenti Provinciali, nell'a. s. 2003 – 04, erano
iscritte 476.534 unità. Stipulano un contratto a tempo determinato con
il Dirigente Scolastico fino al termine delle attività didattiche (30
giugno), per coprire posti cosiddetti d’organico di fatto.
Sono pagati dal Ministero del Tesoro, come i dipendenti a tempo indeterminato,
lo stipendio è quello del Contratto Nazionale, a livello 0 di progressione
di carriera.
Possono godere di un mese di malattia, con stipendio intero; il secondo e terzo
mese di malattia lo stipendio viene dimezzato mentre i mesi successivi, fino
alla durata del contratto, non sono retribuiti. I giorni di ferie maturati e
non goduti vengono retribuiti, come pure la quota di TFR. Possono godere dell’indennità
di disoccupazione INPS (requisiti ordinari o ridotti). Inutile ricordare che
questa tipologia di supplente non ha stipendio nei mesi estivi. I supplenti
fino al termine dell’attività didattica votano alle elezioni RSU,
ma non possono essere eletti.
Supplenti annuali
Sono reclutati mediante le Graduatorie Permanenti Provinciali; oppure, per coprire
posti per classi di concorso di graduatorie permanenti provinciali esaurite,
mediante le Graduatorie d’Istituto.
Stipulano un contratto a tempo determinato con il Dirigente Scolastico fino
alla fine dell’anno scolastico (31 agosto), per coprire posti cosiddetti
d’organico di diritto.
L’organico di fatto è determinato a settembre, mentre l’organico
di diritto è determinato il marzo precedente, dopo le previsioni effettuate
in base alle pre-iscrizioni. In realtà in questi anni l’organico
di diritto è stato via, via ridotto, proprio perché si tratta
dell’organico stabile, in base al quale sono effettuati i trasferimenti,
le immissioni in ruolo e si pagano gli eventuali supplenti fino al 31 agosto.
Insomma l’organico di fatto è quello vero, l’organico necessario
al funzionamento della scuola, mentre l’organico di diritto è quello
falso, determinato sotto-stimato ad arte, per approfittare della precarietà.
Sono pagati dal Ministero del Tesoro, come i dipendenti a tempo indeterminato,
lo stipendio è quello del Contratto Nazionale, a livello 0 di progressione
di carriera.
Possono godere di un mese di malattia, con stipendio intero; il secondo e terzo
mese di malattia lo stipendio viene dimezzato mentre i mesi successivi, fino
alla durata del contratto, non sono retribuiti. Questa tipologia di supplente
percepisce lo stipendio nei mesi estivi. Poi, in attesa di eventuale altro contratto,
possono godere dell’indennità di disoccupazione INPS (requisiti
ordinari o ridotti), come pure della quota di TFR. Tutte indennità limitate
e riscosse mesi dopo la scadenza del contratto (licenziamento se ci è
consentito il termine, visto che i precari non compaiono nelle statistiche dei
licenziati, mentre invece quando un precario stipula un contratto a termine
risulta tra i nuovi assunti).
I supplenti annuali godono di diritto elettorale attivo e passivo alle elezioni
RSU.
Sui supplenti annuali sarebbe dovuta cadere la scure dell’emendamento
alla Finanziaria per trovare i soldi per la riduzione delle tasse, attraverso
la ventilata proposta di ridurre gli organici (di diritto appunto) del 2% in
due anni, ma la Moratti si è lamentata e si è deciso di ridurre
il budget per le supplenze brevi (da 856 milioni di € annui a 766 per l’anno
2005 e 565 milioni per il 2006).
Se si fosse deciso di effettuare la riduzione del 2%, una quota corrispondente
di supplenti annuali sarebbe retrocessa a supplente fino al termine dell’attività
didattica.
Supplenti fino a nomina dell’avente diritto
A queste tre tipologie precarie bisogna aggiungere la figura del supplente fino
a nomina dell’avente diritto. In pratica quando le graduatorie d’istituto
o permanenti provinciali non sono ancora pubblicate dopo un aggiornamento, si
usano quelle vecchie per nominare dei supplenti provvisori, in attesa di nominare
quelli definitivi all’uscita delle graduatorie definitive. Da questo dipende
il “balletto” d’insegnanti, che anche quest’anno ad
esempio dovrebbe concludersi a gennaio.
Queste tipologie di supplenti sono comunque reclutate mediante graduatorie
pubbliche, risultando in qualche modo tutelati: ad esempio per quanto riguarda
la maternità i diritti sono gli stessi del personale a tempo indeterminato.
Le Graduatorie Permanenti Provinciali, divise in tre fasce, sono composte di
insegnanti abilitati per aver superato un concorso ordinario, riservato o essersi
specializzati alle SSIS. Le G.P. sono utilizzate anche per le eventuali immissioni
in ruolo sul 50% dei posti disponibili. L’altro 50% è per le Graduatorie
di merito dei concorsi ordinari. Gli insegnanti abilitati con il concorso ordinario
possono inserirsi anche nelle G. P., in terza fascia.
Le graduatorie d’istituto sono divise in tre fasce anch’esse: la
prima è composta dagli inclusi nelle G.P. – che possono scegliere
un max di 30 scuole o 10 circoli didattici -; la seconda da insegnanti abilitati,
ma non inclusi nelle G.P. e la terza da insegnanti non abilitati, in possesso
solo del titolo di studio richiesto per quell’insegnamento.
I prestatori d’opera
Oltre a queste quattro tipologie di precari, ce n’è un’altra,
non ancora tanto in auge, rappresentata dai prestatori d’opera, pagati
ad ore e con la ritenuta d’acconto del 20%, senza contributi previdenziali,
ferie, malattia, maternità od altri diritti, nemmeno il punteggio per
la supplenza. Niente paura! La Riforma Moratti prevede la generalizzazione di
questi contratti, magari per le materie cosiddette opzionali e facoltative già
previste nel Decreto legislativo per il primo ciclo d’istruzione.
Attualmente è il Dirigente Scolastico che assume direttamente, al di
là di qualsiasi graduatoria, con contratto di prestazione d’opera.
Succede ad esempio per l’area di approfondimento degli Istituti Professionali
o per i corsi post - diploma. Capita anche che, per questi insegnamenti, il
D.S. stipuli delle convenzioni con agenzie private di formazione, che poi assumono
a prestazione d’opera i docenti.
Gli incaricati annuali per l’insegnamento della Religione Cattolica
E’ una tipologia di precario sui generis. L’insegnante di religione
è reclutato direttamente dalla Curia per una materia facoltativa di cui
non esiste organico di diritto o di fatto: anche se in una classe ci sono solo
tre studenti che fanno Religione non vengono certo accorpati ad altra classe
per risparmiare sugli incaricati annuali.
L’incaricato annuale è licenziato il 31 agosto e riassunto il giorno
dopo d’ogni anno. Dopo il quarto anno di incarico gode degli stessi diritti
del docente a tempo indeterminato, per quanto riguarda diritti e progressione
di carriera, attraverso gli scatti d’anzianità.
Una recente legge, la cui prima stesura risale a Berlinguer, avvia le procedure
per l’immissione in ruolo di 15.000 insegnanti di religione dopo un corso
e un concorso riservato inerente alla normativa e alle metodologie didattiche.
Si tratterà quindi degli unici docenti illicenziabili – con o senza
sovrannumero – da parte dello Stato. Nel caso la Curia dovesse togliere
a qualcuno il nulla osta (era l’unica possibilità di perdere il
lavoro da parte di questi docenti, ed avveniva per divorzio o altri comportamenti
giudicati immorali dalla Chiesa) lo Stato manterrà in servizio questi
docenti, spostandoli in altri insegnamenti, se possiedono i titoli, o negli
uffici amministrativi.
In pratica si apre un nuovo canale di reclutamento riservato alla Chiesa. Sarà
facile, nei prossimi anni, vedere docenti di Religione farsi togliere il nulla
osta dalla Curia per passare ad insegnare filosofia o Lettere o quant’altro:
assisteremo ad un vero e proprio fenomeno di clericalizzazione della scuola.
Mediamente un docente precario costa all’Amministrazione oltre 7.000 €
in meno l’anno rispetto ad un docente a tempo indeterminato. Tra mesi
estivi non pagati, il ritardo nel conferimento delle supplenze, dovuto ai ritardi
nella pubblicazione delle graduatorie od altro, e soprattutto l’inesistente
progressione di carriera (scatti d’anzianità), anche dopo dieci
o quindici anni di servizio, il risparmio per l’Amministrazione è
notevole, mentre per il lavoratore si tratta di una forma intollerabile di sfruttamento.
Sostanzialmente per svolgere lo stesso identico lavoro ci sono trattamenti economici
e normativi assolutamente diversi.
Il fenomeno del precariato nella scuola è sempre esistito. Per tutti
i docenti gli anni di precariato hanno rappresentato una sorta di tirocinio
prima della stabilizzazione, attraverso poi il concorso ordinario, riservato
o a qualche “sanatoria”.
Oggi però il fenomeno è completamento diverso, sia in termini
quantitativi (oltre un quinto del personale del comparto) che qualitativi, in
termini di diritti negati.
Da un’indagine del MIUR sugli iscritti nelle G.P., risalente al 2001,
oltre la metà degli aspiranti ha un'età compresa tra i 35 ed i
44 anni, mentre coloro che superano i 44 anni sono ben il 23,51%.
Si può tranquillamente parlare di supplente a vita, o meglio di precarizzazione
della vita intesa come precarizzazione anche esistenziale.
I ritardi nei pagamenti degli stipendi, ad ogni nuovo contratto stipulato, dovuti
al fatto che per registrare nel sistema informativo i nuovi contratti ci vogliono
mesi, sono nella norma. Pertanto i primi stipendi, comprensivi degli emolumenti
delle eventuali ferie maturate e non godute, vengono percepiti a fine novembre,
oppure a dicembre assieme con la tredicesima.
Pensate cosa significhi questo, ad esempio, per i supplenti pagati fino al 30
giugno: rimanere circa sei mesi senza beccare un quattrino. Si tratta di un
senso di precarietà di vita, imposto volutamente per fiaccare, anche
dal punto di vista psicologico, le resistenze alla precarietà. Credo
si tratti di una vera e propria mutazione culturale e antropologica che ci viene
imposta.
Nulla è più garantito:
- lo stipendio dopo un mese di lavoro;
- il riposo per qualche settimana d’estate, nella maggioranza dei casi
senza stipendio, perché devi collegarti ad Internet ogni giorno per verificare
la pubblicazione delle graduatorie, con la paranoia che il sistema informatico
abbia sbagliato il tuo punteggio e dover presentare quindi ricorso (quest’ultima
volta hanno sbagliato il punteggio a tutti, costringendo tutti – a ferragosto
– allo stress della graduatoria sbagliata);
- la tua posizione in graduatoria perché ogni tanto cambiano criteri
e tabelle di valutazione dei titoli. In estate non puoi mica staccare la spina:
già sei senza stipendio, ma non puoi pensare ad altro; devi stare all’erta,
è in estate che escono i provvedimenti a sorpresa e se non sei informato
e non presenti il modello nuovo - “allegato 4bis” - sei fottuto,
vieni escluso o fai salti indietro in graduatoria come i gamberi.
Non sono uno specialista delle nuove patologie da lavoro, ma credo si tratti di una vera e propria forma di mobbing generalizzata, dove chi ti fa mobbing non è il tuo dirigente, il tuo capoufficio, i tuoi colleghi, ma il sistema della precarietà, il meccanismo burocratico/amministrativo delle norme, dei punteggi, del sistema informatico, del cervellone del Miur o del Ministero del Tesoro che non registra i tuoi dati e non ti paga lo stipendio per mesi.
Senza parlare dell’estrema flessibilità imposta: un anno ti può
capitare di insegnare una materia in un ordine di scuola, l’anno dopo
un’altra disciplina in un altro ordine, o magari ti può capitare
uno spezzone orario di una materia ed un altro spezzone di un’altra, in
due scuole poste ai capi estremi della provincia. O l’umiliazione di aspettare
ad inizio d’anno scolastico la telefonata che ti offre la supplenza: il
“docente squillo”, altro che l’operaio squillo dello Job on
call della Legge 30.
E tutto questo magari con vent’anni di servizio (da precario) e cinque
abilitazioni all’insegnamento.
Senza parlare che spesso sei costretto, per sopravvivere, a trovarti un'altra
occupazione, altrettanto precaria e sottopagata, come lavoratore autonomo eterodiretto
magari, e il più possibile “al nero”, visto che non ti puoi
incasinare ancora di più la vita con differenti regimi assistenziali
e previdenziali.
La Riforma Moratti e la precarizzazione
La Riforma Moratti è sinonimo di precarizzazione e di precarietà.
Con l’attuazione della Legge delega 53/2003 e dei suoi decreti d’attuazione,
tra la riduzione del monte ore, l’abolizione del Tempo Pieno e Prolungato
e dell’organizzazione modulare con l’introduzione del tutor, l’abolizione
di alcune discipline (Educazione Tecnica nella scuola media: 17.000 docenti),
il passaggio dell’Istruzione Tecnica e Professionale alle Regioni, con
l’esternalizzazione del lavoro degli ATA attraverso l’appalto alle
cooperative, si produrrà un taglio di 200.000 posti di lavoro di docenti
ed ATA e la conseguente espulsione definitiva di una quota consistente di precari,
il cui numero coincide proprio con il numero dei tagli previsti.
I duecentomila precari, assieme con i pensionamenti, permetteranno di smaltire
l’esubero senza licenziamenti diretti, probabilmente.
ALMENO PER IL MOMENTO - NON SARA’ LICENZIATO NESSUNO del personale a tempo
indeterminato, pur diventato sovrannumerario, SEMPLICEMENTE, SE NON BLOCCHEREMO/CANCELLEREMO
LA “RIFORMA” MORATTI, NON ASSUMERANNO PIU’ I PRECARI ALL’INIZIO
DELL’ANNO SCOLASTICO SEGUENTE, I PRECARI NON ESISTONO, SONO INVISIBILI,
E PER I PRECARI NON C’E’ ALCUN AMMORTIZZATORE SOCIALE, O MOBILITA’
DI SORTA.
Ma evidentemente aumenterà la precarizzazione complessiva del personale
a tempo indeterminato, la mobilità da una sede ad un’altra, la
flessibilità tra l’insegnamento di una disciplina ad un’altra.
Intere discipline spariranno: che fine faranno ad esempio gli insegnamenti tecnico/pratici?
Trasmigreranno al canale regionale dell’istruzione e formazione professionale?
Art. 5 della Legge 53/2003 e proposta di Legge sullo Statuto dei diritti degli insegnanti
E se sarà necessario altro personale docente per la scuola dell’era
morattiana? Niente paura l’art. 5 della legge delega, quello che riguarda
la formazione degli insegnanti, delinea i tratti del nuovo sistema di reclutamento.
Dovrà essere emanato un decreto legislativo su quest’argomento.
L’estate scorsa è stato presentato dal Governo uno schema di tale
decreto che però deve ancora iniziare il suo iter per diventare norma.
Quanto anticipato rivoluziona totalmente il sistema di reclutamento. Lo schema
di decreto sull’art. 5 si accompagna con la Proposta di Legge n. 4091
sullo Statuto dei diritti degli insegnanti; tale proposta di legge, a cura di
alcuni deputati del centro destra, è attualmente ferma nelle commissioni
parlamentari. Se dovesse passare, della scuola pubblica, laica, pluralista (comunque
con tutti i gravi difetti e limiti che conosciamo) non resterà più
neppure l’ombra.
Quando con la legge 15 marzo 1997, n. 59, in particolare l’articolo 21,
fu concessa all’allora governo di centrosinistra ampia delega per attuare
l’autonomia finanziaria, organizzativa e didattica delle singole istituzioni
scolastiche e quando fu emanato, con il Decreto del Presidente della Repubblica
8 marzo 1999, n. 275, il Regolamento dell’Autonomia, i Cobas denunciarono
l’avvio di un processo di aziendalizzazione della scuola. Processo che
avrebbe portato nel mercato il comparto dell’istruzione e della formazione.
Si cominciò a denunciare la scuola – azienda con tutte le novità,
anche dal punto di vista linguistico, che vennero introdotte in quegli anni:
il preside manager, il budget d’istituto, i crediti e debiti, la programmazione
didattica che diventa contratto formativo, gli studenti e le loro famiglie che
bisogna cominciare a trattare come clienti, la concorrenza tra istituti per
rubarsi le iscrizioni ... ecc.. Tutto questo anche se, ancora adesso che il
processo deve concludersi, la scuola – azienda sembra un po’ la
parodia di un’azienda vera e propria.
Con l’art. 5 della legge 53/03 e con la proposta di nuovo stato giuridico,
si ha l’impressione di passare direttamente dalla scuola - azienda alla
scuola - caserma.
I futuri insegnanti della scuola – caserma avranno la laurea specialistica,
conseguita nell'università del 3 + 2. Anche le S.S.I.S quindi saranno
superate, come pure i concorsi ordinari.
Dopo due anni – a numero chiuso e programmato – di corso di studi
riguardante la pedagogia e le metodologie didattiche, gli aspiranti docenti
usciranno già abilitati all’insegnamento e potranno essere assunti
direttamente dal Dirigente Scolastico, con contratto annuale di formazione –
lavoro (con stipendio inferiore a tutti gli altri dunque). Gli aspiranti docenti,
assunti direttamente dal preside, avranno comunque responsabilità di
insegnamento diretta in classe (al posto dei supplenti annuali e fino al termine
delle attività didattiche si presume) e saranno inquadrati – secondo
il nuovo stato giuridico – come docenti tirocinanti al 6° livello
(noi tutti docenti di ruolo o meno siamo al 7° livello).
Dopo l’anno di praticantato, se superato positivamente e il giudizio è
a cura del Comitato di Valutazione d’istituto, presieduto dal dirigente
scolastico e costituito dal suo entourage, il docente tirocinante, diventa docente
a tutti gli effetti e potrà iscriversi all’Albo regionale dei docenti
della propria disciplina.
La stipula di un contratto a tempo indeterminato avverrà dopo il superamento
di un concorso per soli titoli, bandito dalle singole istituzioni scolastiche
in base ad un numero programmato di assunzioni stabilito a livello nazionale
e regionale. Potranno partecipare i docenti iscritti all’Albo e la commissione
giudicatrice sarà sempre presieduta dal Dirigente scolastico.
Il docente vincitore di concorso potrà intraprendere la carriera stabilita
nel nuovo stato giuridico degli insegnanti: docente iniziale (7° livello),
docente ordinario (8° livello), docente esperto (9° livello). Dopo cinque
anni da docente iniziale si potrà, sostenendo un altro concorso per soli
titoli di fronte al Dirigente Scolastico, passare a docente ordinario e al relativo
inquadramento stipendiale. Da docente ordinario a docente esperto (9° livello)
si passerà, sempre dopo cinque anni di permanenza al 8° livello,
mediante concorso per titoli ed esami sostenuto invece a livello territoriale
di fronte ad una commissione nominata dalla Direzione Scolastica Regionale.
Come si può vedere è la fine della libertà d’insegnamento:
sia l’accesso all’insegnamento, sia la progressione di carriera,
sono stabilite direttamente dal preside manager. Del resto in un’azienda
è il manager ad assumere e a promuovere chi gli pare: e tutto questo
era già insito nella filosofia e nella logica dell’autonomia scolastica
di Berlinguer.
Il dirigente scolastico potrà assumere chi gli pare e potrà promuovere
chi gli aggrada. E non si tratta solo di bieco clientelismo che si svilupperà
in questo modo.
E’ la fine della scuola pluralista, momento d’incontro delle differenze
e delle diversità. Nasceranno non solo le scuole di serie A e di serie
B, ma le scuole di un certo orientamento di politica didattica e culturale,
etnico o religioso, le scuole gialle, verdi o rosse, secondo l’orientamento
del Dirigente scolastico e del suo staff.
Secondo lo schema di decreto sull’art. 5 poi, come norme transitorie e
finali, viene stabilito che, fino all’esaurimento delle graduatorie di
merito dei concorsi ordinari e delle graduatorie permanenti provinciali (mezzo
milione di persone? Di più di sicuro, forse un numero pari al numero
dei docenti di ruolo attualmente in servizio. Ci vorranno trent’anni per
esaurirle), le assunzioni a tempo indeterminato avverranno per il 25% mediante
i criteri dell’art. 5 (assunzione diretta), per il 25 % mediante il canale
delle graduatorie del concorso ordinario e per il 50% attraverso le graduatorie
permanenti.
Da tutto questo emerge come per il personale docente si prospetti un futuro
di una precarietà ancora maggiore.
Del resto la logica del tutor o maestro prevalente, nella scuola primaria, allude
non solo ad una gerarchizzazione del lavoro docente, ma al fatto che solo il
tutor (e l’insegnante di Religione ovviamente), avrà un contratto
a tempo indeterminato; tutti gli altri saranno opzionali e facoltativi e quindi
precari, a prestazione d’opera, a progetto, a chiamata, invisibili ed
eterei.
A scuola di precarizzazione
Anche gli studenti, fin da piccoli, tra un’opzione e l’altra, un
credito e un debito, uno stage in azienda, un test a quiz e una laurea breve
a punti, impareranno a fare i flessibili e precari.
Tanto più se potranno assolvere il cosiddetto obbligo formativo ai 18
anni, che il Governo spaccia per aumento del diritto/dovere all’istruzione
(secondo lo schema del decreto attuativo sul diritto -dovere all’istruzione,
ex art. 2 Legge 53/04) nell'apprendistato, o in alternanza scuola lavoro (art.
4 Legge 53/04).
Del resto la pratica degli stage in azienda o negli enti pubblici, nella scuola
secondaria e all’università, sono ormai una pratica diffusa, introdotta
ancora ai tempi di Berlinguer e del pacchetto Treu. Si tratta di un terreno
sul quale sarebbe necessario iniziare un lavoro d’inchiesta: lo stage
estivo o nel corso dell’anno scolastico, spesso nasconde una realtà
di vero e proprio sfruttamento del lavoro gratuito.
Precari – precarizzazione e conflitto
Nonostante il numero abnorme di precari della scuola, il loro trattamento economico,
spesso sotto la soglia della povertà, per non parlare del trattamento
indegno sul tutto il resto, sono anni che non si esprime un vero movimento contro
il precariato nella scuola.
La bella pensata di Berlinguer, con la legge 124, di dividere in fasce –
gli uni contro gli altri – le graduatorie permanenti, il maxi punteggio
agli specializzati SSIS, il più recente doppio punteggio per il servizio
nelle scuole di montagna ed altro, hanno scomposto, diviso, frastagliato il
fronte dei precari della scuola.
Ormai siamo alla guerra tra poveri: ogni gruppo d’interesse si organizza
contro altri gruppi d’interesse, a colpi di ricorsi e controricorsi al
Tar. I precari abilitati con i concorsi ordinari si organizzano per i fatti
loro, quelli delle SSIS pure: ognuno auspica provvedimenti che sanciscano, in
termini di punteggio, che la propria abilitazione è più “buona”
di quella degli altri. I precari “storici”, dopo decenni di precariato,
sono ormai da gerontocomio, dal punto di vista delle possibili lotte da fare;
molti delle SSIS ritengono di essere più “belli e preparati”,
visto che hanno fatto due anni post-lauream; quelli che hanno superato l’ordinario
si ritengono i migliori, e secondo loro gli specializzati SSIS, avendo pagato
fior di quattrini, si sarebbero pagati il titolo. Chissà come dovranno
essere i futuri specializzati del 3 + 2, per essere assunti direttamente dal
preside manager? Plasmati a dovere fin dall’università, preparati
per la didattica morattiana somministrata in pillole di conoscenza, con i test
stile quiz televisivo … ma soprattutto schiavi.
E un vero ciclo di lotte contro la precarietà nella scuola che rivendichi
reddito, diritti e dignità, affiancandosi al movimento di genitori, cittadini
e insegnanti contro la Riforma Moratti non parte.
Alla grande manifestazione dello sciopero del 15 novembre i precari non c’erano.
E neppure a quella di Cgil – Cisl - Uil. Essendo il 20% della categoria,
magari individualmente c’erano, ma non erano visibili come soggetto sociale,
sindacale, collettivo.
C’erano i precari dell’Università, che sono molto meno di
noi, ma i precari della scuola erano invisibili, anche nella lotta.
Eppure il precariato sociale, dalla May day in poi, sta trovando una sua identità,
una vera massificazione, un’articolazione di forme di lotta diverse, trovando
pure i propri simboli aggregativi: quella straordinaria invenzione “artistica
e artigianale” rappresentata da San Precario.
Forse è proprio San Precario che bisogna invocare, affinché intervenga
per far nascere nuove lotte condotte dai precari della scuola.