Atti Modena 16/12/2004

La scuola superiore secondo la “Riforma Moratti"
Alessandra Bertotto e Angelo Zaccaria

Se dovessi sintetizzare la riforma Moratti direi che alla fine del percorso scolastico il modello di cittadino prefigurato sarebbe questo: pensa precario, pensa flessibile, ognuno stia al suo posto e tutto ciò si chiama “ libera scelta “.
La logica della separazione e della divisione, introdotta già nella scuola di base nella futura scuola superiore verrà approfondita ed aggravata.
Nella legge Moratti la scuola sec. di 1° grado “ è caratterizzata dalla diversificazione didattica e metodologica in relazione allo sviluppo della personalità dell’allievo”.
Tale diversità verrà poi concretizzata nel decreto attuativo con il Piano di studio personalizzato (in sostanza le materie facoltative opzionali) e il Portfolio delle competenze: la diversità si trasforma in disuguaglianza.
La diversificazione didattica e metodologica prelude poi la scelta precoce del percorso successivo, determinata anche dalle materie opzionali facoltative studiate in terza media su indicazione del tutor. Nella legge si dice infatti che questa scuola “aiuta ad orientarsi per la successiva scelta di istruzione e formazione”. Nella sua applicazione saranno gli “approfondimenti” scelti dalle famiglie con l’assistenza del tutor a “consentire una scelta degli indirizzi formativi del secondo ciclo (…) già per certi versi collaudata”.

Come è noto nella superiore saremo di fronte a due canali ben distinti, falsamente posti sullo stesso piano: il sistema dei licei, durata 5 anni, e il sistema dell’istruzione e della formazione professionale, durata 4 anni, (quindi fino a 18), oppure fino al conseguimento di una qualifica professionale di durata almeno triennale (quindi fino a 17 anni).
Qui sorge subito un problema: la sparizione dell’istruzione tecnica, frequentata dal 40% degli studenti italiani. Nelle ipotesi più ottimiste si dice che dei 39 indirizzi dell’istruzione tecnica, 12 diventerebbero licei economici o tecnologici, rimanendo statali, gli altri 27 diventerebbero formazione professionale regionale, come prevede l’art.117 della Costituzione.
E’ evidente la differenza di valore tra i due: uno è astratto e teorico, l’altro è rivolto all’avviamento al lavoro; uno si conclude con l’esame di stato, l’altro con una qualifica lavorativa; uno avrà una struttura omogenea di tempo spazio e luogo, l’altro potrà essere “istruzione” o “formazione”, a tempo pieno o a tempo parziale; uno sarà statale, l’altro regionale. In sostanza uno sarà di serie A, l’altro di serie B.
In entrambe le ipotesi la conseguenza sarà il generale abbassamento del livello culturale e di preparazione, prima di tutto per la drastica diminuzione del tempo scuola.
Per l’istituto professionale di stato poi, il destino è segnato: diventerà formazione professionale regionale. Gli studenti che frequentano questo tipo di scuola sono quelli che alle medie hanno avuto più difficoltà, sono quelli che appartengono a fasce sociali più svantaggiate, a volte non tanto economicamente, ma culturalmente.
Anche per questi motivi in questi ultimi dieci anni l’istituto professionale ha attuato delle modifiche sostanziali: sono diminuite le ore di lezione settimanali (si arrivava anche a 44 ore la settimana), sono diminuite le materie, si è cercato di elevare il livello culturale degli alunni attraverso la modifica dei programmi, l’introduzione del biennio comune (prima e seconda), 4 ore settimanali di approfondimento e recupero e si è cercato di concretizzare un rapporto con il mondo del lavoro attraverso 360 ore di stages in aziende pubbliche e private in quarta e in quinta.
Con il passaggio alla formazione regionale tutto quello che si è costruito viene gettato via.
Gli Istituti Tecnici e Professionali che passeranno all’istruzione e formazione professionale con un anno di scuola in meno avranno un taglio del 20% del tempo (che significa anche 20% in meno di posti di lavoro ). Che cosa avverrebbe poi degli organici relativi? Come si trasformeranno sotto le Regioni le Classi di concorso, le materie, gli orari di lavoro?
Per tutti comunque, anche per gli Istituti Tecnici che diventeranno licei economici e tecnologici, si prevederebbe una netta diminuzione delle ore di lezione, con un orario obbligatorio (27 ore?) e materie opzionali (5 o 6 ore?) facoltative oppure obbligatorie, non è chiaro, visto che nella Legge si parla di Piano di studio personalizzato.
Quali e quante materie scompariranno, diventeranno opzionali o perderanno ore di lezione, dal momento che ora gli studenti hanno come minimo 34/36 ore settimanali? Dal 20 al 30% di ore di lezione in meno causeranno una pari riduzione di organico.
Esisteranno ancora ore di laboratorio, fondamentali nell’insegnamento delle materie di indirizzo? A questo è legato anche il destino non solo degli insegnanti tecnico pratici, ma della maggior parte degli insegnanti delle materie di indirizzo.
Dal momento che i licei avranno un profilo prettamente teorico scomparirà la caratteristica qualificante dell’istituto tecnico, che è il tentativo di coniugare sapere teorico e applicazione di questo sapere, mettere insieme scienza e tecnologia, dando spazio allo stesso tempo a quella che per noi è la funzione fondamentale della scuola: la formazione e la crescita di cittadini consapevoli.
Persino Confindustria critica la Legge Moratti riguardo all’Istruzione tecnica:
“ Le soluzioni prevedibili per il futuro dei diversi indirizzi degli attuali istituti tecnici (venire “liceizzati” cioè privati della loro specificità professionalizzante o passare integralmente alle Regioni) non sembrano soddisfacenti. Sono evidenti in entrambe le soluzioni i rischi di depauperamento di quella che è universalmente considerata una delle “perle” della scuola italiana. “(Convegno di Fiuggi – Aprile 2003)
Questa situazione particolarmente complessa ha ritardato l’uscita dei decreti attuativi per il secondo ciclo. Ne sono usciti due ( Alternanza scuola – lavoro e Diritto – dovere all’istruzione e alla formazione ), ma non hanno ancora cominciato l’iter per l’approvazione; mentre quello sul secondo ciclo sembra sempre uscire ( voci insistenti parlano di gennaio 2005 ) e intanto hanno spostato di 6 mesi la scadenza per la definitiva approvazione dei decreti applicativi.
Tra l’altro gli Istituti Tecnici e gli Istituti Professionali sono fornitissimi di materiale didattico, spesso di avanguardia, che viene usato per la formazione degli studenti, ma anche per la organizzazione di corsi di specializzazione post diploma. Spesso nei rapporti tra singole scuole e singole aziende si verifica che le aziende utilizzino le strutture scolastiche per i propri corsi di aggiornamento.
Va comunque notata la scarsissima disponibilità delle aziende a rapportarsi con il mondo della scuola, visto come “ perdita di tempo “: il sistema delle imprese è mediamente poco propenso ad investire in ricerca, formazione e qualità.

In questo contesto è interessante analizzare cosa dice la Confindustria a proposito del polo di eccellenza:
“ Il futuro dell’istruzione tecnica professionalizzante sta nel costituire una sorta di aristocrazia della “filiera professionale” del sistema educativo italiano.
In questo senso Licei tecnologici a indirizzo fortemente professionalizzante da un lato rassicurerebbero giovani e famiglie sulla qualità del percorso formativo scelto.
Questo tipo di Istituti potrebbe essere direttamente collegato ad un’offerta formativa più ampia e modulare che preveda nella stessa sede:
? corsi brevi di formazione professionale;
? corsi di formazione professionale triennali per la qualifica;
? corsi di istruzione professionale quadriennali per il conseguimento del diploma professionale;
? corsi di formazione professionale superiore annuali o biennali.
L’insieme di questa offerta formativa da realizzarsi nell’ambito delle competenze delle Regioni potrebbe favorire la percezione che il sistema di istruzione e formazione professionale è “plurale” e assicura ai giovani una varietà di offerte corrispondenti a diverse tipologie e a diverse domande.
La stabilizzazione all’interno di una stessa sede di offerte che vanno dai corsi brevi di formazione ai Licei Tecnologici potrebbe tra l’altro assicurare agli studenti una effettiva possibilità di “passerelle” assistita dai docenti in un ambiente formativo dove istruzione e formazione professionale comunicano e dove è valorizzata la collaborazione con l’industria per stages e forme di alternanza “.

In verità le “ passerelle “ sono pura propaganda, teoricamente possibili, ma nella pratica irrealizzabili salvo abbassare anche di molto il profilo per permettere i passaggi.
Rivisitiamo le molte aggregazioni ( razionalizzazioni ) avvenute nel passato tra istituti tecnici e istituti professionali, dove la qualità finisce per attestarsi sul profilo più basso, i poli di eccellenza finirebbero per creare al proprio interno tensioni non indifferenti nei collegi docenti date le diverse modalità e i diversi obiettivi didattici che i vari percorsi si propongono.
Senza contare che sul numero degli alunni spesso ci si gioca il posto di lavoro, i codici delle scuole sarebbero diversi, gli organici divisi a seconda del tipo di offerta formativa e probabilmente anche dall’orario di lavoro e dalla retribuzione ( chi è sotto la Regione e chi è sotto lo Stato ).
Il confronto tra il mondo dell’impresa e la scuola è un percorso ad ostacoli, soprattutto di fronte ad una “ invasione di campo “: i rapporti con il territorio ed il mondo produttivo, anche attraverso esperienze dirette degli allievi, devono essere inseriti in un progetto educativo deciso dal collegio docenti, anche se le proposte riferite ai tutor, sia aziendali che scolastici, tenderebbero a delegittimare il ruolo dei consigli di classe ( che sparirebbero nei futuri organi collegiali )
Discutere e cercare di praticare la proposta di Confindustria, come hanno fatto diversi istituti tecnici nella ricerca di una strada per non finire nella formazione professionale regionale può rivelarsi un boomerang.

Formazione regionale perché finanziata dalla regione, ma gestita per il 93% da privati: aziende, sindacati, istituti religiosi.
Formazione professionale regionale che ha sicuramente il rischio di consegnare al padronato manodopera giovane e a basso costo (poiché basso è ritenuto il livello delle qualifiche professionali regionali) e di incrementare il mercato della formazione, che viene data in mano ai privati mediante provvedimenti regionali, che escludono ogni forma di controllo pubblico.
Perché tutto questo?
In questo ultimo decennio la formazione professionale si è dimezzata: da 190.000 iscritti a meno di 100.000. Allo stesso tempo nell’anno 2002/3 il 99,3% dei ragazzi usciti dalle medie si è iscritto alle superiori.
Da qui quindi la volontà di depistare i ragazzi nella formazione professionale privata.
Il motivo è il finanziamento del Fondo Sociale Europeo per il quinquennio 2001/2006 proprio per la formazione professionale di 50.000 miliardi di lire a livello nazionale (2.500 per il Veneto, 3.000 per la Lombardia e così via).
E i privati sono pronti a ricorrere ad ogni mezzo, lecito e non, per accaparrarsi i fondi. E’ di pochi giorni fa la notizia apparsa sulla stampa di 67 corsi inesistenti per i quali sono stati incassati contributi a fondo perduto per un totale superiore a 3 milioni 118 mila Euro. (Gazzettino e Nuova Venezia del 17/11/04, ma anche vari TG)
Ma in realtà il rapporto tra scuola e mondo del lavoro è ancora più complesso.
L’adempimento per il diritto-dovere all’istruzione e alla formazione per 12 anni prevede un terzo canale: l’apprendistato.
La legge Moratti riprende l’obbligo scolastico e formativo previsto dalla legge 144 del 1999 (legge del centrosinistra): obbligo fino a 18 anni, che può essere assolto in percorsi anche integrati di istruzione e formazione:
a) nel sistema dell’istruzione scolastica
b) nel sistema della formazione professionale regionale
c) nell’apprendistato.
Nel decreto sul diritto - dovere di istruzione e formazione, applicativo della L.53, vengono riconosciuti come espletamento di tale diritto - dovere di istruzione e formazione a partire dai 15 anni di età i periodi svolti nell’apprendistato previsti dal decreto 276/03, applicativo della Legge 30 (legge Biagi) sul mercato del lavoro.
Si prevedono:
- incentivi a favore delle imprese
- l’inquadramento dell’apprendista inferiore di “non più” di due livelli
- gli apprendisti sono esclusi dal numero dei dipendenti. Quindi per un’azienda che ha un numero di dipendenti fino a 15 (non deve applicare lo statuto dei lavoratori ), è senza dubbio conveniente assumere apprendisti. Tra l’altro si può essere apprendisti per sei anni.
- l’apprendista può essere licenziato alla fine del periodo
- la formazione può essere interna o esterna all’impresa. Nella legge del 1999 poteva essere solo esterna. Ora quindi ci sono ancor meno strumenti di controllo.
- non viene precisata la quantità delle ore di formazione (la decisione spetta alle Regioni). Nella legge del 1999 erano previste 240 ore di formazione all’anno (sotto i 18 anni), quantità decisamente ridicola se si pensa che un bambino della scuola elementare frequenta 1000 ore all’anno. Ora non ci sono neppure queste.
Il semplice fatto di lavorare come apprendista viene considerato espletamento del diritto-dovere e dà crediti spendibili nella scuola.
Si va ben aldilà della valenza formativa del lavoro.
Secondo l’Isfol nel 2002 su più di 400.000 contratti di apprendistato solo 31.000 apprendisti hanno frequentato corsi di formazione.
Proprio questo rivela l’inganno del decreto sul diritto dovere.
L’apprendistato è una non scuola. Quindi ci sarà chi andrà a scuola fino a 18 anni e oltre, ma ai ragazzi che a 15 anni scelgono il lavoro (poco qualificato, poco pagato, precario) questa legge non impone di tornare sui banchi di scuola.
Anche l’alternanza scuola-lavoro, prevista dall’art.4 della L. 53, che, si dice, è una “modalità del percorso formativo” perché gli studenti apprendano competenze spendibili nel mondo del lavoro, delude le aspettative e in realtà diventa un quarto canale.
Prevede che gli studenti possano “svolgere l’intera formazione dai 15 ai 18 anni attraverso l’alternanza di periodi di studio e di lavoro in azienda”. In pratica addestramento. Questi “periodi di tirocinio (…) non costituiscono rapporto individuale di lavoro”, quindi se non c’è rapporto di lavoro non c’è retribuzione, lavoro gratuito in sostanza. Ci sono invece incentivi per le imprese “disponibili ad accogliere studenti”.
E’ previsto un tutor in azienda e un tutor a scuola (“docente incaricato dei rapporti con le imprese”), i cui compiti sono riconosciuti come “valorizzazione della professionalità docente”, cioè pagato con il fondo di istituto.
L’alternanza scuola lavoro non riguarda solo gli studenti della formazione professionale, ma tutti gli studenti delle superiori attraverso “corsi integrati, che prevedano piani di studio progettati d’intesa tra i due sistemi”, quello dell’istruzione, i licei insomma e quello della formazione professionale.

In un suo documento la Confindustria afferma che l’alternanza non è un nuovo ordinamento scolastico; è invece una “ modalità di realizzazione dell’autonomia didattica “ e distingue tra l’alternanza lavorativa che coincide con l’apprendistato ( è una alternanza su base contrattuale, l’apprendista è un lavoratore ) e l’alternanza formativa, dove l’utente è giuridicamente uno studente…. “ l’alternanza è un metodo per realizzare il progressivo avvicinamento verso la professionalità terminale ” .
Non più apprendistato quindi ( è un rapporto di lavoro ) ma alternanza e più avanti stages e tirocinio ( ovviamente non pagati ).
Per la Confindustria gli obiettivi formativi sono finalizzati ad aiutare il giovane ad acquisire: 1) una conoscenza del mondo del lavoro (ritmi, logiche, stili dell’impresa) 2) alcune competenze professionali di base spendibili nel mondo del lavoro e propone tre possibili moduli: iniziale ( per introdurre alla cultura di impresa ), intermedio (che si innesta lungo tutto il ciclo e va quindi sostituire una ben definita quota del programma scolastico ), finale ( si configura come una esperienza di tirocinio ).
Bisogna però stimolare le aziende con ipotesi di incentivi quindi: “ E’ opportuno reperire risorse finanziarie per la realizzazione delle attività richieste dal modello formativo proposto (realizzazione di un sistema di accompagnamento/tutoraggio efficace ed efficiente, formazione formatori, incentivazione allievi/imprese, sicurezza allievi nelle imprese, ecc...).”
Cioè “…la formazione realizzata in alternanza deve rappresentare una risposta coerente a un effettivo interesse delle imprese…”.
Le certificazioni dell’alternanza entrerebbero nel portfolio delle competenze.

E cosi anche se il decreto applicativo non è ancora stato approvato, questa parte della riforma è già in atto attraverso accordi tra il Ministero e le Regioni, che prevedono corsi di formazione sperimentali, rivolti ai ragazzi che finiscono la terza media.
Con l’approvazione della L.53 è stata abrogata la legge 9/99 sull’obbligo scolastico (innalzato provvisoriamente a 15 anni, previsto a regime fino a 16).
Grazie a questa legge, ora abrogata, un numero di studenti fra i 40 e i 50 mila erano stati recuperati alla frequenza della scuola superiore.
Con la sua abrogazione e in assenza di decreti attuativi del “diritto-dovere per almeno 12 anni”, previsti dalla Moratti, si è creato un vuoto, che ha fatto ritornare l’obbligo scolastico di 8 anni. Per riempire questo vuoto, ma anche, contemporaneamente, per spingere nel senso voluto dalla Moratti, si sono stipulati gli accordi con le Regioni, che hanno come primo risultato la distruzione di un sistema unitario nazionale: 21 Regioni, 21 sistemi formativi diversi.
Nel Protocollo d’intesa tra la Regione Friuli e il Ministero si prevede per l’anno in corso 2003/4 “un’offerta formativa sperimentale integrata di istruzione e formazione professionale”, corsi triennali per i 14enni che escono dalla terza media.
Possono iscriversi presso una scuola superiore e alla fine dei tre anni avranno la promozione alle classi successive del corso di studi, il diploma di qualifica se la scuola è un istituto professionale e crediti per l’attestato di qualifica professionale, previsto dalla legge.
Oppure possono iscriversi presso un Centro di formazione professionale e alla fine dei tre anni avranno un attestato di qualifica professionale, valido per l’iscrizione ai Centri per l’impiego e crediti per rientrare eventualmente nel sistema dell’istruzione.
Ma quante ore di lezione faranno questi ragazzi? Quali materie di studio? Con quali programmi?
Il Protocollo dice soltanto che l’Istituto scolastico e il Centro di formazione definiranno insieme il progetto didattico.
Per capirne qualcosa di più, è utile vedere cosa succede in Veneto:
nell’anno 2002/2003 la Regione Veneto ha organizzato 20 percorsi formativi sperimentali di durata triennale, con la partecipazione di 19 scuole e altrettanti centri di formazione professionale, soprattutto del settore meccanico per un totale di 423 studenti.
Il monte ore del primo anno è di 1000, quindi 30 ore settimanali di cui:
16 ore a scuola, materie di studio: italiano, lingua straniera, storia, matematica, informatica, scienze integrate (nel secondo anno diventano 14 ore, nel terzo anno 13);
14 ore: attività di orientamento e di preformazione.
(fonte: “La scuola veneta: una realtà in movimento” – realizzazione dell’Ufficio Scolastico Regionale per il Veneto – aprile 2003)
(Qualcosa di simile avviene in Lombardia: gli studenti del primo anno fanno 18 ore di scuola, di cui una di religione.)
Per l’anno 2003/2004 la Regione Veneto ha previsto 66 percorsi triennali e 112 biennali per un totale di circa 3000 allievi.
E qualche tempo fa è stato stipulato un accordo tra l’Ufficio Scolastico Regionale e l’Unione delle Camere di Commercio del Veneto, che ha coinvolto 200 aziende, per realizzare percorsi di alternanza scuola-lavoro per 300 studenti di 11 scuole venete. Ogni scuola, a seconda del proprio indirizzo, formerà una partnership con un’impresa di un determinato comparto, dall’industria ai servizi.
Ma chi garantirà che gli stages siano momenti di formazione reale e non un modo di fornire alle imprese manodopera gratis? Chi garantirà i criteri di qualità delle imprese (il rispetto della legge 626 sulla sicurezza nel posto di lavoro, delle norme fiscali, delle norme sull’ambiente etc.)? Tutti problemi non risolti.

In chiusura alcune domande:
- Resistere alla “ Moratti “ vuol dire conservare l’esistente?
- Le figure professionali tradizionali che escono dalla scuola attuale come il perito, il geometra etc hanno ancora un senso?
- A fronte di un alto tasso di selezione e di abbandoni cosa possiamo fare? Le istituzioni rispondono con i percorsi integrati ( la “ sinistra “ li chiama riduzione del danno) e la riforma risponde con il portfolio delle competenze e con l’apprendistato ( e così selezione ed abbandoni spariranno d’incanto )
- Il portfolio delle competenze abolirà il valore legale del titolo di studio? Finirà per sostituirlo?
- Vi è un generale impoverimento del ceto medio; con la riforma come indirizzerà le sue scelte: liceo più Università oppure formazione professionale ( più semplice, spendibile subito sul mercato del lavoro e con eventuali passerelle )?
e alcune proposte:
- Selezione ed abbandoni si verificano durante il periodo più critico della vita degli studenti: l’adolescenza; sono cioè un fatto ordinario e quindi vanno affrontati all’interno della programmazione e non come intervento straordinario: meno alunni per classe, più compresenze, percorsi individualizzati, didattica dei tempi lunghi e distesi.
- Al modello addestrativo previsto dalla “ riforma “ contrapponiamo un modello con al centro lo studente e la sua formazione complessiva e dove la collegialità delle decisioni e le forme di partecipazione dal basso siano il nostro punto di riferimento.
L’obiettivo è rilanciare un progetto di scuola di qualità e di inclusione, in cui le condizioni socio-culturali di partenza risultino sempre meno determinanti per raggiungere più alti livelli di istruzione.
Quindi un reale innalzamento dell’obbligo fino a 18 anni ( da assolvere a scuola e non nella formazione professionale regionale ) con un biennio che sia tendenzialmente unitario fino a 16 anni. L’alternanza scuola-lavoro può avere una sua validità se attuata sul modello di ciò che già ora avviene al quarto e quinto anno degli istituti professionali di stato (la terza area, che prevede stages in aziende, pubbliche o private, di 180 ore annue, terza area che ora non è più finanziata dallo stato. Chissà perché?!).
Anche l’apprendistato deve essere previsto dopo i 18 anni e non può essere sostitutivo del percorso scolastico.
Dopo i 18 anni o comunque negli ultimi anni delle superiori si può pensare ad un rapporto efficace con il mondo del lavoro. Efficace proprio perché lo studente ha acquisito una cultura di base sufficientemente approfondita e critica e una certa conoscenza teorica delle materie professionali.