Sommario
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La nuova didattica dell'Inquisizione
Renata Puleo
Sulla
rivista "RSC - Religione Scuola Città" (n.1-2/2007),
rivolta ai docenti che insegnano Religione Cattolica nella
scuola pubblica, a cura della diocesi di Roma, nella Rubrica
Tutta un’altra storia, leggo un articolo di
Federico Corrubolo intitolato (con sottile umorismo?): Una
vera tortura: parlare dell’Inquisizione durante l’ora
di religione. Manuale di sopravvivenza per Insegnanti di Religione
(IdR).
In apertura si lamenta come sia difficile per un IdR contrastare
i luoghi comuni sulla “leggenda nera”, “i
diavoli vestiti da domenicani”, il pregiudizio sulla
“chiesa oscurantista”, tenendo a bada gli studenti
più accalorati. La prima regola del prontuario di sopravvivenza
è, secondo il redattore, capire il contesto, non accettare
che si bolli come infame ciò che infastidisce, semmai
studiare nei suoi aspetti storico-sociali quell’età
moderna che, fino alla Rivoluzione francese, lo giustifica.
Il riferimento per meglio intendere questo contesto, e le
misure politico-religiose che lo caratterizzano è,
ci dice ancora il redattore, l’Islam attuale, dove il
diritto religioso e quello civile sono una cosa sola. Ancora,
come i medici devono garantire la salute del corpo, sono le
due autorità massime, l’Imperatore e il Sommo
Pontefice, che avvalendosi di collaboratori esperti, lavorano
a mantenere unite la prosperità dello stato, del corpo
sociale, e la salvezza eterna, secondo il principio che la
salute della comunità umana dipende dalla saldezza
morale di ispirazione cristiana. Principio che verrà
incrinato, nell’era contemporanea, dalla Rivoluzione
Francese prima, dal marxismo poi. Insomma, secondo il nostro,
il ruolo degli inquisitori è fondato su questa alleanza
e fa di loro dei medici del sociale che, solo “in casi
estremi amputano l’arto malato”. L’inquisitore
è un medico curante prima che un giudice, l’interrogatorio
una visita medica (con la sua necessaria anamnesi…)
che si conclude con una prescrizione, spesso meno grave della
amputazione. Foucault avrebbe trovato questa analogia sulla
compromissione fra i poteri di disciplinare corpi e anime,
come una conferma (forse un po’ esilarante nella metafora
), di molte sue tesi. La tortura, si continua nell’articolo
per tranquillizzare l’IdR un po’ perplesso e a
corto di argomenti, altro non era se non una rozza macchina
della verità: la sospensione del corpo, i polsi legati,
in fondo “durava solo mezz’ora, niente di così
cruento, dunque”. L’articolo si conclude con la
citazione del manuale di procedura ad uso degli inquisitori
pubblicato nel 1625, le cui prescrizioni non sono dissimili
dalla modalità di “un interrogatorio in una qualunque
stazione dei carabinieri”, anche se – si ritiene
di dover precisare - in assenza di prove “nessuno viene
legato per i polsi…nemmeno per un minuto”. Dunque,
dice il redattore, con buona dialettica se ne può dedurre
che siamo tutti figli dell’inquisizione. Genova 2001
conferma.
Annoto, a latere:
1. Carlo Galli, nel bel libro intitolato Spazi Politici (2001),
ricorda che il cardinale Bellarmino nel 1610, ragionava sulla
necessità che lo “spazio dello Stato” fosse
attraversato dalla podestas indirecta della chiesa, in modo
da tagliare il diritto con la concezione in negativo della
soggettività pubblica, sottraendolo di fatto alla amministrazione
da parte del potere sovrano. Principio ispiratore anche dell’odierno
papato.
2. Per non dimenticare cosa fu l’Inquisizione spagnola,
si può vedere il film di Miloš Forman L’ultimo
inquisitore (2006) non bellissimo, ma istruttivo rispetto
all’andamento degli interrogatori. A Siviglia si predispose
la più grossa caldaia di Spagna per l’esecuzione
dei condannati…
Ultima notarella. La copertina della rivista rivela una comica
ambivalenza (compresenza di elementi , non ambiguità,
dunque…) da parte della redazione. Vi è raffigurata
l’opera Il bottone, di Domenico Gnoli (1967). La finestrella
all’interno ci ragguaglia sul potere del bottone che
àncora al corpo la stoffa, chiude allo sguardo infilandosi
nell’asola e, nell’aprirsi sulla camicetta, spesso
provoca qualcosa, proprio lì dove tutto potrebbe insorgere
e non restare più nascosto…Insomma, erotismo
di un’immagine che condividiamo, ma un po’ incongruente
fra le raffigurazioni di santi e di profeti che affollano
la rivista.Che ne avrebbero pensato gli inquisitori?
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Filosofia d'occasione
La neve cattiva
Sergio Viti
ETICA
Gli alunni in un esercizio dovevano associare varie “qualità”
a determinati sostantivi, uno dei quali era “neve”.
Un bambino aveva scritto che la neve poteva essere “cattiva”,
suscitando qualche perplessità. Gli fu chiesto dall’insegnante
il perché della scelta e la risposta fu: ” Perché
ieri ha fatto morire tre persone sotto una valanga”.
Una bambina insorse dicendo che la neve “non l’aveva
fatto mica apposta, le valanghe vengono da sole”. Un’altra
scolara affermò che cattivi possono essere solo i viventi,
le fu però obiettato che gli alberi non fanno del male
a nessuno. Alcune voci esclamarono in coro che cattivi potrebbero
essere gli animali che sbranano. Qualcuno rispose che il leone
se vede una gazzella avendo già mangiato non le fa
niente, perché gli animali uccidono solo per il bisogno
naturale di mangiare. A quel punto l’insegnante chiese
chi poteva essere “cattivo” e alcuni risposero
che erano gli umani perché loro tante volte il male
lo “fanno apposta” perché possono anche
pensare e scegliere di non farlo. Furono poi citati vari casi
di cose cattivissime o buonissime fatte dagli uomini; si manifestò
il manicheismo fra bene e male che caratterizza il mondo dell’infanzia
ma i bambini avevano anche scoperto che l’uomo può
comportarsi in un modo o in un altro a seconda di quello che
uno pensa e sente. Ci vorrà del tempo perché
capiscano che la questione è un po’ più
complessa, intanto hanno già iniziato un cammino di
conoscenza.
LINGUISTICA
In classe prima gli scolari si erano molto divertiti con la
storia dell’Acca in fuga di Rodari, rielaborata e drammatizzata
prima dall’insegnante e in seguito da loro stessi. Il
filo conduttore era quello dei guai derivanti dalla mancanza
dell’ H in “chi” e in “che”
: “maccine” che non partono, “ciavi”
che non aprono, “citarre” che non suonano, “barce”
che affondano…. Quest’anno sono state proposte
alla classe fughe dell’ H meno drammatiche: le panche
sono diventate pance, i ricchi si sono trasformati in ricci….
Sollecitati a fare delle considerazioni, i bambini hanno espresso
varie osservazioni.
Passando da macchine a “maccine” si trasforma
una parola in una “non parola” che può
essere usata solo se si scrivono storie fantastiche. Panche
e pance invece si assomigliano nella forma ma hanno significati
del tutto diversi. In questo modo gli scolari hanno scoperto
la differenza fra significante e significato e hanno proposto
tante altre coppie di parole caratterizzate da somiglianza
formale e differenza semantica. Quando l’insegnante
ha chiesto che cosa fosse secondo loro il significato di una
parola, un bambino ha risposto:” Quello che la parola
è”. A quel punto con una mossa spiazzante è
stato mostrato il “quadro della pipa” di Magritte
e una bambina di madre francese ha tradotto la frase originale
riportata nel quadro stesso: “Ceci n’est pas une
pipe”. Un grande sconcerto si è diffuso nell’aula,
in molti hanno provato a dire che cosa poteva essere quell’oggetto
invece di una pipa, finché una bambina ha esclamato
trionfante: “ Ma quella non è una pipa! E’
un quadro che RAPPRESENTA una pipa.”. A quel punto un'altra
scolara ha esclamato: “Ma allora il significato di una
parola non è una cosa, INDICA una cosa”. Il nonno
che vuole fumare la pipa non si accontenta di Magritte, ha
bisogno di una vera pipa da accendere. Grazie alla espressione
di ipotesi, al confronto delle opinioni, al concatenamento
delle varie osservazioni gli scolari hanno costruito delle
conoscenze.
[ “Sulla scorta di Goethe, con il neologismo ‘filosofia
d’occasione’ non intendo minuzie o qualcosa di
non serio, ma piuttosto un filosofare che – e proprio
per ragioni filosofiche- proviene da fatti singolari empirici
e si innalza, per così dire, in decollo verticale verso
il cielo”.
Questa concezione del fare filosofia enunciata da Ghunter
Anders, da me rinvenuta in un saggio inedito per l’Italia
pubblicata da Micromega nel 2006, ha ispirato senza che la
conoscessi l’incontro fra filosofia e bambini nella
scuola elementare documentato nei volumi Le domande sono ciliege
e Per mari aperti editi dalla Manifestolibri e continua tuttora
ad essere praticata. Per esemplificare vengono qui riassunte
due scoperte effettuate in classe seconda a partire da occasioni
tipiche della quotidiana vita scolastica.]
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Fedeli alla linea
anche quando non c’è
Gabriella Tull
Primo Collegio docenti dell’anno,
grande brusio e curiosità. Oggi conosciamo il nuovo
“capo”, giovane neo-vincitrice di concorso, in
anno di prova.
Breve sguardo all’indietro: per molti anni Margherita
ha voluto che la chiamassimo Direttrice didattica anche dopo
la nascita del comprensivo; tale si sentiva, dalla parte delle
maestre, quelle del tempo pieno. Dopo è arrivata Ofelia
che alla prima occasione ci ha chiesto di rivolgerci a lei
come Preside, erede di un prestigioso tempo prolungato dalla
parte dei professori, quelli innamorati di Basaglia e di Psichiatria
democratica.
Alice è emozionata, sa da chi è stata preceduta,
sa di sé di non essere una Direttrice didattica né
una Preside, ha vinto un posto da Dirigente e ora deve provare
ad abitarlo tra obbedienza, interpretazione e scelta. Nelle
teste dei docenti la fatica di costruire un rapporto, ricollocarsi
a partire dal rimpianto o dal sollievo per chi se ne è
andato. Ma oltre alla dimensione personale del cambiamento
c’è quella collettiva: il Collegio docenti che
è l’organismo sovrano per le questioni didattico-organizzative,
ha un nuovo presidente, Alice si firma al maschile.
Da quel primo Collegio sono passati ormai molti mesi, mi sembra
interessante provare a riflettere su alcune dinamiche proprie
di questa situazione che possono essere indicatori di come
si sta a scuola in questo 2008. La prima caratteristica della
nuova Dirigente è stata sicuramente la solerzia nell’informarci
di ogni novità normativa, di ogni opportunità
di aggiornamento, di ogni iniziativa (privilegiando quelle
che nell’oggetto contenevano la parola magica “in
rete”) con puntualità e asettico volontarismo.
E’ iniziato così il confronto con il Collegio
che per ora ha avuto la saggezza di fare il minimo. Mi riferisco
in particolare alle attività inerenti la conoscenza
delle Indicazioni nazionali. Dalle discussioni è emerso
chiaramente lo scollamento tra i bisogni e gli interessi degli
insegnanti nel fare scuola e le Indicazioni che vengono vissute
come documento che non dice nulla di nuovo, che non chiama
in causa. Se in qualche gruppo la discussione è decollata
è perché si è scelto di evadere dal compito
confrontandosi sulle pratiche, su ciò che si fa.
Sono fiorite nei mesi alcune circolari firmate dal Dirigente
in cui decisioni del Collegio su materie come le programmazioni
e la valutazione venivano modificate o se ne chiedeva modifica
al singolo docente. Il Collegio in questa circostanza ha fatto
più fatica, si è arrivati allo scontro diretto,
il Dirigente ha impedito al Collegio di deliberare nuovamente
ma, viste le numerose dichiarazioni messe a verbale che segnalavano
l’illegittimità della cosa, dopo una sospensiva
e una successiva assemblea sindacale d’istituto, le
circolari sono state modificate come chiesto dal Collegio.
Ad inizio d’anno ci è stato chiesto in nome dell’efficienza
e dell’efficacia di dare disponibilità alle supplenze
nelle ore di compresenza. Anche qui assemblea sindacale per
discutere e concordare la stesura della programmazione delle
compresenze da portare in Collegio. Anche questa volta dopo
una gran fatica si riesce sostanzialmente a “tenere”,
solo alcuni colleghi decidono di destinare un’ora alle
supplenze; attualmente siamo forse il comprensivo più
frequentato dai supplenti della città.
Dopo queste prove di forza i rapporti Dirigente - Collegio
sono notevolmente migliorati. Mi viene il dubbio che i nuovi
dirigenti vengano imboniti e venga molto esaltata l’attitudine
al comando come se dovessero decidere nonostante la comunità
scuola e non con essa.
Il Dirigente firma la circolare degli auguri di Natale ringraziandoci
per la collaborazione e aggiungendo “abbiamo tutti una
grande missione”. Mesi prima ci ha raccomandato a voce,
in Collegio, di non fare troppe prove di entrata ma di privilegiare
l’accoglienza. Nell’ultimo Collegio ci ha fatto
un lungo discorso sull’utilità e l’importanza
di elaborare i curricoli verticali e affrontare la “sfida
delle competenze”. Tengo a precisare che credo sia una
persona intelligente, ma in questo momento molto zelante e
pronta ad eseguire ciò che le viene ordinato o anche
solo suggerito. Il suo fare perciò riflette quello
che c’è nell’aria, ancora con poca capacità
critica (mi tengo la speranza). Abbiamo l’opportunità
di assistere ad un travaso diretto di ciò che si discute
nei corsi di formazione per dirigenti, le idee pedagogiche
sottese agli atti amministrativi. L’impressione è
quella del guazzabuglio, della marmellata con un gusto talmente
indefinito che non schifa nessuno ma che nessuno sa indovinare
cos’è. Socializzazione ma anche Invalsi, individualizzazione
ma anche personalizzazione, allarme bullismo e Dante per tutti,
scuola pubblica ma molta scuola privata, tabelline e curricolo
d’istituto. Chiacchiere che tentano di nascondere i
costanti tagli e il disinteresse effettivo per la scuola testimoniato
dalle infime risorse che le vengono destinate dai governi
di turno.
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Ma gli adulti,
dove sono finiti?
Renata Puleo
“La
Caporetto della scuola”, titolava il quotidiano La Stampa,
l’11 marzo scorso, l’articolo di commento ai voti
del primo quadrimestre negli istituti superiori italiani. Le
pagelle-choc mostravano un 73,3 % di insufficienze (almeno una)
con la conseguente messa in moto del nuovo marchingegno uscito
dal cilindro del Ministero, la frenetica e mostruosa organizzazione
dei corsi di recupero. Come al solito i commenti non vanno al
di là della individuazione delle colpe del sistema-scuola,
poco selettivo in ingresso e troppo permissivo nell’andamento
educativo e didattico. Ma il paradosso non é tanto e
solamente quello rappresentato da una istituzione, in cui -
come commentava sulle stesse pagine del quotidiano Marco Belpoliti
- agli studenti ignoranti, capaci solo di ricavare informazioni
superficiali da internet, corrispondono professori sella e staffe
degli asini volanti, quanto il fatto che all’istruzione
di massa non corrispondano forme significative di educazione
e di tirocinio verso la vita adulta. Insomma, se i professori
non sanno né motivare allo studio, né educare,
né fornire modelli da imitare, come si sbracciano a dire
i commentatori, in realtà è tutto un mondo adulto
che è andato in crisi di identità. La Caporetto
è la sconfitta dell’adultità, quella età
in cui, non solo si dovrebbe aver maturato identità personale
ed autonomia, ma aver acquisito competenze – direi soprattutto
informali - come educatori delle nuove generazioni. Qualsiasi
sia il suo ruolo e il contesto - strutture famigliari, istituzioni,
gruppi comunitari, la strada - un adulto insegna da sempre ai
più giovani qualcosa che ancora non sanno. In alcuni
casi – dipende appunto dal contesto – lo farà
in modo intenzionale, in altri semplicemente ponendosi come
un modello, i cui comportamenti, con le contraddizioni e i dolori
di qualsiasi vita, possono indirizzare le creature piccole verso
l’interpretazione emotiva e cognitiva dell’esistenza.
L’adulto, in casa o a scuola, oggi non esige più
alcun ascolto e rispetto verso il suo sapere, non motiva i più
giovani ad apprendere, sembra non sapere di essere diventato
- in quanto adulto - responsabile anche di quelle esistenze
acerbe. Questa emergenza – mi viene da dire antropologica,
visti i cambiamenti culturali da cui è implicata e che
implica - sta alla base anche dei fallimenti della scuola. Credo
che, meglio di altri, alcuni artisti abbiano colto la dimensione
epocale di questo esonero adulto. Uno di essi è Gus Van
Sant, regista statunitense del film “Paranoid Park”,
già resosi famoso per altri lavori sulla inquieta adolescenza
americana, come “Elephant”, del 2003, resoconto
straniato della strage nel college di Colombine, di cui ci ha
raccontato anche Michael Moore. La città di Portland,
Oregon, come una Vienna di Musil, assume l’entità
sfuggente di un luogo/non luogo che è contemporaneamente
il risultato di una astrazione idealizzata – lo spazio
percorso dagli skaters con le loro tavole – e uno spazio
concreto, in cui si fatica a fissare la posizione rispettiva
dei personaggi che si intersecano di continuo senza mai incontrarsi
davvero. La morte assurda di un guardiano, frutto più
di superficialità che di intenzione, diventa una fatalità
su cui incrociare uno sguardo ottuso, a-morale, perché
privo di vera comprensione. Vacuità e distrazione dei
ragazzi e dell’incauto omicida quando il poliziotto svolge
i suoi interrogatori a scuola, solitudine straziante quando
il protagonista scrive il diario dell’accaduto per liberare
il suo animo, non da una colpa, ma da un peso senza nome. L’orizzonte
esistenziale è schiacciato sulla realtà adolescenziale,
nessun adulto interviene, nessun genitore o maestro è
chiamato in campo, a parte il poliziotto che si limita al suo
dovere d’ufficio. Genitori e insegnanti abitano un mondo
altro, senza interferenze con i giovani, il loro sembiante è
sfocato, lontani, stranieri, alieni. Quello in cui si consuma
la tragedia, è un mondo ripreso dal basso, fa pensare
ai fumetti di Schulz, anche se Charlie Brown e i suoi coetanei
mostrano una tenera ingenuità, ancora lontana dal cinismo,
malgrado abbiano intuito che se la debbono cavare da soli nell’affrontare
la vita. Qui tutto è già avvenuto, il distacco
senza autonomia dall’infanzia volge ad un disperante abbandono.
La scuola è spesso lo scenario del quotidiano tran-tran
dei giovani, eppure niente lascia sospettare che al suo interno
possa accadere qualcosa di significativo per la loro crescita.
Ecco, se l’unico adulto del film “Elephant”
sulla strage di Colombine, è il padre di uno dei sopravvissuti,
già ubriaco di prima mattina, qui, a Portland, è
lo sguardo professionale e distaccato del poliziotto a segnare
la presenza dei grandi, peraltro solo in funzione di chi indaga,
sanziona, punisce. Belpoliti nel suo commento lamenta come a
scuola la materia più importante, se disciplina può
essere, è l’educazione alla cittadinanza, in quella
dimensione sicuritaria e impolitica che è diventata la
cifra di qualsiasi discorso sulla responsabilità individuale
e sociale. Tornando al film, mi è parso consolante che
sia una ragazzina a suggerire al giovane assassino la scrittura
di un diario. Sgrammaticato, incoerente, confuso, si chiederanno
i nostri professori? Non pare, scorre bene dal punto di vista
lessicale e sintattico, ma non è destinato ad essere
letto, magari corretto, comunque accolto da chi potrebbe indurre
ad una riparazione del danno, ad una elaborazione della colpa
e magari, perdonare.
Amaramente, sale spontaneo un lugubre augurio da fare ai più
giovani, ma rivolto a tutti noi: benvenuti nel deserto del reale!
(che poi è una frase presa da un altro film...).
Per approfondire:
1. L’articolo di Belpoliti è apparso su La Stampa
l’11 marzo 2008 con il titolo “Pistole ad acqua”
2. Il commento al film “Paranoid Park” di cui riporto
in corsivo alcune frasi si trova in Cineforum n.471 genn/febb
‘08
3. Il film da cui è tratta la frase finale è “Matrix”
dei fratelli Wachowski, del 1999; è anche il titolo di
una raccolta di saggi del filosofo sloveno Slavoj iek
4. Il film di M. Moore è Bowling a Colombine. Una nazione
sotto tiro, del 2002
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Sembra inverno
Gianluca Gabrielli
Emiliano guarda i campi innevati fuori dal finestrino
e esclama: “Sembra inverno!”. Ovviamente è
inverno. Una nevicata così a Trieste, la sua città,
non si vedrà mai, l’azione mitigante del mare permette
tutt’al più una spruzzata di bianco ogni tre o
quattro anni, e subito l’effetto si scioglie e svanisce.
Qui invece - sulle montagne slovene - sta nevicando davvero,
la neve si deposita, si accumula sugli alberi e sulle strade,
il paesaggio è ormai solo bianco e grigio. Emiliano è
impressionato dallo spettacolo e, pur attraverso la distanza
opposta dai vetri dell’automobile, fa esperienza di questa
situazione per lui inedita, in attesa di tuffarsi in quel mare
di bianco.
Sembra inverno. Sono anni che a scuola tento di “insegnare
le stagioni” e che mi scontro con questi ostacoli insormontabili.
La scelta della didattica ufficiale, quella dei libri di testo,
è fondata sugli stereotipi. L’inverno è
un disegno con gli alberi innevati, la primavera ha i fiori,
l’estate i frutti, d’autunno cadono le foglie. Una
modellizzazione spinta che ha il vantaggio di fornire un punto
d'appoggio da cui partire, ti permette di “tenere dentro
tutti”, anche i bambini che arrivano scuola con poche
esperienze e minori stimoli degli altri. Ma da lì si
può solo partire; quelle immagini lì, la neve,
i fiori, nel migliore dei casi creano un insieme di riferimenti
immaginari, scolastici, il mondo parallelo del libro di lettura,
qualcosa di simile ma meno affascinante del paesaggio di Biancaneve
o di Shrek. Da lì, dal paesaggio innevato, si può
uscire in due direzioni: da una parte aggiungi le date, le fai
imparare, aggiungi all'immagine una serie di informazioni di
cui decreti l'univocità. Se parti in quella direzione
sei fregato, dopo poco ti trovi a preparare verifiche e ti arrabbi
non solo se non si ricordano le date, ma anche se non riconoscono
l'inverno dalla neve o l'estate dai frutti... Hai ricostruito
il paesaggio di Biancaneve preciso e immodificabile, l'illusione
che abbia qualcosa a che fare con la realtà rimane nella
tua testa di insegnante, nella pratica può caricarsi
di dati quantitativi da ricavare nelle verifiche a scelta multipla
che già ti viene da appuntarti, i bambini diventano abili
ad intuire cosa vuoi da loro dribblando quello che potrebbero
imparare e conoscere.
L'altra strada è un vero caos, come un vero caos è
la realtà: si fa beffe dei modelli. Così parti
anche tu dal paesaggio con la neve ma scopri che la fatica più
grande è proprio fargli dire che la neve non la vedono,
che quell'immagine non è il loro inverno e che il loro
inverno è pieno di immagini e di esperienze apparentemente
irriducibili, un caos appunto. Poi però piano piano,
ascoltandoli e facendoli parlare, trattenendoti dal correggerli,
viene fuori che l’inverno è una costruzione sociale,
che è il periodo degli intervalli in classe, del freddo,
ma che Nife in Nigeria non aveva freddo, l’inverno freddo
sta qui...
Poi magari, alla fine, l'alberello con la neve finisci per tenerlo,
addirittura lo usi, lo appendi, anche se un poco ti fai beffe
di lui. Il suo destino è tornare ad essere un modello,
uno stupido stereotipo che possiamo usare per tenere insieme
cose ben più complesse, l’icona dei pensieri e
delle pratiche di realtà che abbiamo fatto in un percorso
che tu, da scuola, hai provato a tenere insieme.
Nessuna didattica salva dal confronto con la realtà,
che prima o poi svela l’essenza delle esemplificazioni
scolastiche: modelli un po’ ridicoli che si nasconde in
qualche luogo e in qualche tempo, attendono di essere riconosciuti
come la copia fedele di quell’illustrazione ricopiata
dalla lavagna o analizzata sul libro di testo. Per limitare
il ridicolo di questo riconoscimento possiamo solo fare in modo
che accada più volte possibile, dentro e fuori da qualsiasi
curricolo, in barba ad ogni “verticalizzazione”.
Gli inverni della nostra vita ritornano pieni di stereotipi
e di differenze ogni anno, e ogni anno ci tocca riconoscerli,
in una long life learning che non si interrompe nemmeno con
la fine della nostra carriera scolastica.
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