Anno 0, Numero 0, maggio 2008
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Sommario


La nuova didattica dell'Inquisizione

Renata Puleo

Sulla rivista "RSC - Religione Scuola Città" (n.1-2/2007), rivolta ai docenti che insegnano Religione Cattolica nella scuola pubblica, a cura della diocesi di Roma, nella Rubrica Tutta un’altra storia, leggo un articolo di Federico Corrubolo intitolato (con sottile umorismo?): Una vera tortura: parlare dell’Inquisizione durante l’ora di religione. Manuale di sopravvivenza per Insegnanti di Religione (IdR).
In apertura si lamenta come sia difficile per un IdR contrastare i luoghi comuni sulla “leggenda nera”, “i diavoli vestiti da domenicani”, il pregiudizio sulla “chiesa oscurantista”, tenendo a bada gli studenti più accalorati. La prima regola del prontuario di sopravvivenza è, secondo il redattore, capire il contesto, non accettare che si bolli come infame ciò che infastidisce, semmai studiare nei suoi aspetti storico-sociali quell’età moderna che, fino alla Rivoluzione francese, lo giustifica. Il riferimento per meglio intendere questo contesto, e le misure politico-religiose che lo caratterizzano è, ci dice ancora il redattore, l’Islam attuale, dove il diritto religioso e quello civile sono una cosa sola. Ancora, come i medici devono garantire la salute del corpo, sono le due autorità massime, l’Imperatore e il Sommo Pontefice, che avvalendosi di collaboratori esperti, lavorano a mantenere unite la prosperità dello stato, del corpo sociale, e la salvezza eterna, secondo il principio che la salute della comunità umana dipende dalla saldezza morale di ispirazione cristiana. Principio che verrà incrinato, nell’era contemporanea, dalla Rivoluzione Francese prima, dal marxismo poi. Insomma, secondo il nostro, il ruolo degli inquisitori è fondato su questa alleanza e fa di loro dei medici del sociale che, solo “in casi estremi amputano l’arto malato”. L’inquisitore è un medico curante prima che un giudice, l’interrogatorio una visita medica (con la sua necessaria anamnesi…) che si conclude con una prescrizione, spesso meno grave della amputazione. Foucault avrebbe trovato questa analogia sulla compromissione fra i poteri di disciplinare corpi e anime, come una conferma (forse un po’ esilarante nella metafora ), di molte sue tesi. La tortura, si continua nell’articolo per tranquillizzare l’IdR un po’ perplesso e a corto di argomenti, altro non era se non una rozza macchina della verità: la sospensione del corpo, i polsi legati, in fondo “durava solo mezz’ora, niente di così cruento, dunque”. L’articolo si conclude con la citazione del manuale di procedura ad uso degli inquisitori pubblicato nel 1625, le cui prescrizioni non sono dissimili dalla modalità di “un interrogatorio in una qualunque stazione dei carabinieri”, anche se – si ritiene di dover precisare - in assenza di prove “nessuno viene legato per i polsi…nemmeno per un minuto”. Dunque, dice il redattore, con buona dialettica se ne può dedurre che siamo tutti figli dell’inquisizione. Genova 2001 conferma.
Annoto, a latere:
1. Carlo Galli, nel bel libro intitolato Spazi Politici (2001), ricorda che il cardinale Bellarmino nel 1610, ragionava sulla necessità che lo “spazio dello Stato” fosse attraversato dalla podestas indirecta della chiesa, in modo da tagliare il diritto con la concezione in negativo della soggettività pubblica, sottraendolo di fatto alla amministrazione da parte del potere sovrano. Principio ispiratore anche dell’odierno papato.
2. Per non dimenticare cosa fu l’Inquisizione spagnola, si può vedere il film di Miloš Forman L’ultimo inquisitore (2006) non bellissimo, ma istruttivo rispetto all’andamento degli interrogatori. A Siviglia si predispose la più grossa caldaia di Spagna per l’esecuzione dei condannati…
Ultima notarella. La copertina della rivista rivela una comica ambivalenza (compresenza di elementi , non ambiguità, dunque…) da parte della redazione. Vi è raffigurata l’opera Il bottone, di Domenico Gnoli (1967). La finestrella all’interno ci ragguaglia sul potere del bottone che àncora al corpo la stoffa, chiude allo sguardo infilandosi nell’asola e, nell’aprirsi sulla camicetta, spesso provoca qualcosa, proprio lì dove tutto potrebbe insorgere e non restare più nascosto…Insomma, erotismo di un’immagine che condividiamo, ma un po’ incongruente fra le raffigurazioni di santi e di profeti che affollano la rivista.Che ne avrebbero pensato gli inquisitori?


Filosofia d'occasione

La neve cattiva
Sergio Viti

ETICA
Gli alunni in un esercizio dovevano associare varie “qualità” a determinati sostantivi, uno dei quali era “neve”. Un bambino aveva scritto che la neve poteva essere “cattiva”, suscitando qualche perplessità. Gli fu chiesto dall’insegnante il perché della scelta e la risposta fu: ” Perché ieri ha fatto morire tre persone sotto una valanga”. Una bambina insorse dicendo che la neve “non l’aveva fatto mica apposta, le valanghe vengono da sole”. Un’altra scolara affermò che cattivi possono essere solo i viventi, le fu però obiettato che gli alberi non fanno del male a nessuno. Alcune voci esclamarono in coro che cattivi potrebbero essere gli animali che sbranano. Qualcuno rispose che il leone se vede una gazzella avendo già mangiato non le fa niente, perché gli animali uccidono solo per il bisogno naturale di mangiare. A quel punto l’insegnante chiese chi poteva essere “cattivo” e alcuni risposero che erano gli umani perché loro tante volte il male lo “fanno apposta” perché possono anche pensare e scegliere di non farlo. Furono poi citati vari casi di cose cattivissime o buonissime fatte dagli uomini; si manifestò il manicheismo fra bene e male che caratterizza il mondo dell’infanzia ma i bambini avevano anche scoperto che l’uomo può comportarsi in un modo o in un altro a seconda di quello che uno pensa e sente. Ci vorrà del tempo perché capiscano che la questione è un po’ più complessa, intanto hanno già iniziato un cammino di conoscenza.
LINGUISTICA
In classe prima gli scolari si erano molto divertiti con la storia dell’Acca in fuga di Rodari, rielaborata e drammatizzata prima dall’insegnante e in seguito da loro stessi. Il filo conduttore era quello dei guai derivanti dalla mancanza dell’ H in “chi” e in “che” : “maccine” che non partono, “ciavi” che non aprono, “citarre” che non suonano, “barce” che affondano…. Quest’anno sono state proposte alla classe fughe dell’ H meno drammatiche: le panche sono diventate pance, i ricchi si sono trasformati in ricci…. Sollecitati a fare delle considerazioni, i bambini hanno espresso varie osservazioni.
Passando da macchine a “maccine” si trasforma una parola in una “non parola” che può essere usata solo se si scrivono storie fantastiche. Panche e pance invece si assomigliano nella forma ma hanno significati del tutto diversi. In questo modo gli scolari hanno scoperto la differenza fra significante e significato e hanno proposto tante altre coppie di parole caratterizzate da somiglianza formale e differenza semantica. Quando l’insegnante ha chiesto che cosa fosse secondo loro il significato di una parola, un bambino ha risposto:” Quello che la parola è”. A quel punto con una mossa spiazzante è stato mostrato il “quadro della pipa” di Magritte e una bambina di madre francese ha tradotto la frase originale riportata nel quadro stesso: “Ceci n’est pas une pipe”. Un grande sconcerto si è diffuso nell’aula, in molti hanno provato a dire che cosa poteva essere quell’oggetto invece di una pipa, finché una bambina ha esclamato trionfante: “ Ma quella non è una pipa! E’ un quadro che RAPPRESENTA una pipa.”. A quel punto un'altra scolara ha esclamato: “Ma allora il significato di una parola non è una cosa, INDICA una cosa”. Il nonno che vuole fumare la pipa non si accontenta di Magritte, ha bisogno di una vera pipa da accendere. Grazie alla espressione di ipotesi, al confronto delle opinioni, al concatenamento delle varie osservazioni gli scolari hanno costruito delle conoscenze.

[ “Sulla scorta di Goethe, con il neologismo ‘filosofia d’occasione’ non intendo minuzie o qualcosa di non serio, ma piuttosto un filosofare che – e proprio per ragioni filosofiche- proviene da fatti singolari empirici e si innalza, per così dire, in decollo verticale verso il cielo”.
Questa concezione del fare filosofia enunciata da Ghunter Anders, da me rinvenuta in un saggio inedito per l’Italia pubblicata da Micromega nel 2006, ha ispirato senza che la conoscessi l’incontro fra filosofia e bambini nella scuola elementare documentato nei volumi Le domande sono ciliege e Per mari aperti editi dalla Manifestolibri e continua tuttora ad essere praticata. Per esemplificare vengono qui riassunte due scoperte effettuate in classe seconda a partire da occasioni tipiche della quotidiana vita scolastica.]


Fedeli alla linea
anche quando non c’è
Gabriella Tull

Primo Collegio docenti dell’anno, grande brusio e curiosità. Oggi conosciamo il nuovo “capo”, giovane neo-vincitrice di concorso, in anno di prova.
Breve sguardo all’indietro: per molti anni Margherita ha voluto che la chiamassimo Direttrice didattica anche dopo la nascita del comprensivo; tale si sentiva, dalla parte delle maestre, quelle del tempo pieno. Dopo è arrivata Ofelia che alla prima occasione ci ha chiesto di rivolgerci a lei come Preside, erede di un prestigioso tempo prolungato dalla parte dei professori, quelli innamorati di Basaglia e di Psichiatria democratica.
Alice è emozionata, sa da chi è stata preceduta, sa di sé di non essere una Direttrice didattica né una Preside, ha vinto un posto da Dirigente e ora deve provare ad abitarlo tra obbedienza, interpretazione e scelta. Nelle teste dei docenti la fatica di costruire un rapporto, ricollocarsi a partire dal rimpianto o dal sollievo per chi se ne è andato. Ma oltre alla dimensione personale del cambiamento c’è quella collettiva: il Collegio docenti che è l’organismo sovrano per le questioni didattico-organizzative, ha un nuovo presidente, Alice si firma al maschile.
Da quel primo Collegio sono passati ormai molti mesi, mi sembra interessante provare a riflettere su alcune dinamiche proprie di questa situazione che possono essere indicatori di come si sta a scuola in questo 2008. La prima caratteristica della nuova Dirigente è stata sicuramente la solerzia nell’informarci di ogni novità normativa, di ogni opportunità di aggiornamento, di ogni iniziativa (privilegiando quelle che nell’oggetto contenevano la parola magica “in rete”) con puntualità e asettico volontarismo. E’ iniziato così il confronto con il Collegio che per ora ha avuto la saggezza di fare il minimo. Mi riferisco in particolare alle attività inerenti la conoscenza delle Indicazioni nazionali. Dalle discussioni è emerso chiaramente lo scollamento tra i bisogni e gli interessi degli insegnanti nel fare scuola e le Indicazioni che vengono vissute come documento che non dice nulla di nuovo, che non chiama in causa. Se in qualche gruppo la discussione è decollata è perché si è scelto di evadere dal compito confrontandosi sulle pratiche, su ciò che si fa.
Sono fiorite nei mesi alcune circolari firmate dal Dirigente in cui decisioni del Collegio su materie come le programmazioni e la valutazione venivano modificate o se ne chiedeva modifica al singolo docente. Il Collegio in questa circostanza ha fatto più fatica, si è arrivati allo scontro diretto, il Dirigente ha impedito al Collegio di deliberare nuovamente ma, viste le numerose dichiarazioni messe a verbale che segnalavano l’illegittimità della cosa, dopo una sospensiva e una successiva assemblea sindacale d’istituto, le circolari sono state modificate come chiesto dal Collegio.
Ad inizio d’anno ci è stato chiesto in nome dell’efficienza e dell’efficacia di dare disponibilità alle supplenze nelle ore di compresenza. Anche qui assemblea sindacale per discutere e concordare la stesura della programmazione delle compresenze da portare in Collegio. Anche questa volta dopo una gran fatica si riesce sostanzialmente a “tenere”, solo alcuni colleghi decidono di destinare un’ora alle supplenze; attualmente siamo forse il comprensivo più frequentato dai supplenti della città.
Dopo queste prove di forza i rapporti Dirigente - Collegio sono notevolmente migliorati. Mi viene il dubbio che i nuovi dirigenti vengano imboniti e venga molto esaltata l’attitudine al comando come se dovessero decidere nonostante la comunità scuola e non con essa.
Il Dirigente firma la circolare degli auguri di Natale ringraziandoci per la collaborazione e aggiungendo “abbiamo tutti una grande missione”. Mesi prima ci ha raccomandato a voce, in Collegio, di non fare troppe prove di entrata ma di privilegiare l’accoglienza. Nell’ultimo Collegio ci ha fatto un lungo discorso sull’utilità e l’importanza di elaborare i curricoli verticali e affrontare la “sfida delle competenze”. Tengo a precisare che credo sia una persona intelligente, ma in questo momento molto zelante e pronta ad eseguire ciò che le viene ordinato o anche solo suggerito. Il suo fare perciò riflette quello che c’è nell’aria, ancora con poca capacità critica (mi tengo la speranza). Abbiamo l’opportunità di assistere ad un travaso diretto di ciò che si discute nei corsi di formazione per dirigenti, le idee pedagogiche sottese agli atti amministrativi. L’impressione è quella del guazzabuglio, della marmellata con un gusto talmente indefinito che non schifa nessuno ma che nessuno sa indovinare cos’è. Socializzazione ma anche Invalsi, individualizzazione ma anche personalizzazione, allarme bullismo e Dante per tutti, scuola pubblica ma molta scuola privata, tabelline e curricolo d’istituto. Chiacchiere che tentano di nascondere i costanti tagli e il disinteresse effettivo per la scuola testimoniato dalle infime risorse che le vengono destinate dai governi di turno.


Ma gli adulti
, dove sono finiti?
Renata Puleo

“La Caporetto della scuola”, titolava il quotidiano La Stampa, l’11 marzo scorso, l’articolo di commento ai voti del primo quadrimestre negli istituti superiori italiani. Le pagelle-choc mostravano un 73,3 % di insufficienze (almeno una) con la conseguente messa in moto del nuovo marchingegno uscito dal cilindro del Ministero, la frenetica e mostruosa organizzazione dei corsi di recupero. Come al solito i commenti non vanno al di là della individuazione delle colpe del sistema-scuola, poco selettivo in ingresso e troppo permissivo nell’andamento educativo e didattico. Ma il paradosso non é tanto e solamente quello rappresentato da una istituzione, in cui - come commentava sulle stesse pagine del quotidiano Marco Belpoliti - agli studenti ignoranti, capaci solo di ricavare informazioni superficiali da internet, corrispondono professori sella e staffe degli asini volanti, quanto il fatto che all’istruzione di massa non corrispondano forme significative di educazione e di tirocinio verso la vita adulta. Insomma, se i professori non sanno né motivare allo studio, né educare, né fornire modelli da imitare, come si sbracciano a dire i commentatori, in realtà è tutto un mondo adulto che è andato in crisi di identità. La Caporetto è la sconfitta dell’adultità, quella età in cui, non solo si dovrebbe aver maturato identità personale ed autonomia, ma aver acquisito competenze – direi soprattutto informali - come educatori delle nuove generazioni. Qualsiasi sia il suo ruolo e il contesto - strutture famigliari, istituzioni, gruppi comunitari, la strada - un adulto insegna da sempre ai più giovani qualcosa che ancora non sanno. In alcuni casi – dipende appunto dal contesto – lo farà in modo intenzionale, in altri semplicemente ponendosi come un modello, i cui comportamenti, con le contraddizioni e i dolori di qualsiasi vita, possono indirizzare le creature piccole verso l’interpretazione emotiva e cognitiva dell’esistenza. L’adulto, in casa o a scuola, oggi non esige più alcun ascolto e rispetto verso il suo sapere, non motiva i più giovani ad apprendere, sembra non sapere di essere diventato - in quanto adulto - responsabile anche di quelle esistenze acerbe. Questa emergenza – mi viene da dire antropologica, visti i cambiamenti culturali da cui è implicata e che implica - sta alla base anche dei fallimenti della scuola. Credo che, meglio di altri, alcuni artisti abbiano colto la dimensione epocale di questo esonero adulto. Uno di essi è Gus Van Sant, regista statunitense del film “Paranoid Park”, già resosi famoso per altri lavori sulla inquieta adolescenza americana, come “Elephant”, del 2003, resoconto straniato della strage nel college di Colombine, di cui ci ha raccontato anche Michael Moore. La città di Portland, Oregon, come una Vienna di Musil, assume l’entità sfuggente di un luogo/non luogo che è contemporaneamente il risultato di una astrazione idealizzata – lo spazio percorso dagli skaters con le loro tavole – e uno spazio concreto, in cui si fatica a fissare la posizione rispettiva dei personaggi che si intersecano di continuo senza mai incontrarsi davvero. La morte assurda di un guardiano, frutto più di superficialità che di intenzione, diventa una fatalità su cui incrociare uno sguardo ottuso, a-morale, perché privo di vera comprensione. Vacuità e distrazione dei ragazzi e dell’incauto omicida quando il poliziotto svolge i suoi interrogatori a scuola, solitudine straziante quando il protagonista scrive il diario dell’accaduto per liberare il suo animo, non da una colpa, ma da un peso senza nome. L’orizzonte esistenziale è schiacciato sulla realtà adolescenziale, nessun adulto interviene, nessun genitore o maestro è chiamato in campo, a parte il poliziotto che si limita al suo dovere d’ufficio. Genitori e insegnanti abitano un mondo altro, senza interferenze con i giovani, il loro sembiante è sfocato, lontani, stranieri, alieni. Quello in cui si consuma la tragedia, è un mondo ripreso dal basso, fa pensare ai fumetti di Schulz, anche se Charlie Brown e i suoi coetanei mostrano una tenera ingenuità, ancora lontana dal cinismo, malgrado abbiano intuito che se la debbono cavare da soli nell’affrontare la vita. Qui tutto è già avvenuto, il distacco senza autonomia dall’infanzia volge ad un disperante abbandono. La scuola è spesso lo scenario del quotidiano tran-tran dei giovani, eppure niente lascia sospettare che al suo interno possa accadere qualcosa di significativo per la loro crescita. Ecco, se l’unico adulto del film “Elephant” sulla strage di Colombine, è il padre di uno dei sopravvissuti, già ubriaco di prima mattina, qui, a Portland, è lo sguardo professionale e distaccato del poliziotto a segnare la presenza dei grandi, peraltro solo in funzione di chi indaga, sanziona, punisce. Belpoliti nel suo commento lamenta come a scuola la materia più importante, se disciplina può essere, è l’educazione alla cittadinanza, in quella dimensione sicuritaria e impolitica che è diventata la cifra di qualsiasi discorso sulla responsabilità individuale e sociale. Tornando al film, mi è parso consolante che sia una ragazzina a suggerire al giovane assassino la scrittura di un diario. Sgrammaticato, incoerente, confuso, si chiederanno i nostri professori? Non pare, scorre bene dal punto di vista lessicale e sintattico, ma non è destinato ad essere letto, magari corretto, comunque accolto da chi potrebbe indurre ad una riparazione del danno, ad una elaborazione della colpa e magari, perdonare.
Amaramente, sale spontaneo un lugubre augurio da fare ai più giovani, ma rivolto a tutti noi: benvenuti nel deserto del reale! (che poi è una frase presa da un altro film...).

Per approfondire:
1. L’articolo di Belpoliti è apparso su La Stampa l’11 marzo 2008 con il titolo “Pistole ad acqua”
2. Il commento al film “Paranoid Park” di cui riporto in corsivo alcune frasi si trova in Cineforum n.471 genn/febb ‘08
3. Il film da cui è tratta la frase finale è “Matrix” dei fratelli Wachowski, del 1999; è anche il titolo di una raccolta di saggi del filosofo sloveno Slavoj Žižek
4. Il film di M. Moore è Bowling a Colombine. Una nazione sotto tiro, del 2002


Sembra inverno

Gianluca Gabrielli

Emiliano guarda i campi innevati fuori dal finestrino e esclama: “Sembra inverno!”. Ovviamente è inverno. Una nevicata così a Trieste, la sua città, non si vedrà mai, l’azione mitigante del mare permette tutt’al più una spruzzata di bianco ogni tre o quattro anni, e subito l’effetto si scioglie e svanisce. Qui invece - sulle montagne slovene - sta nevicando davvero, la neve si deposita, si accumula sugli alberi e sulle strade, il paesaggio è ormai solo bianco e grigio. Emiliano è impressionato dallo spettacolo e, pur attraverso la distanza opposta dai vetri dell’automobile, fa esperienza di questa situazione per lui inedita, in attesa di tuffarsi in quel mare di bianco.
Sembra inverno. Sono anni che a scuola tento di “insegnare le stagioni” e che mi scontro con questi ostacoli insormontabili. La scelta della didattica ufficiale, quella dei libri di testo, è fondata sugli stereotipi. L’inverno è un disegno con gli alberi innevati, la primavera ha i fiori, l’estate i frutti, d’autunno cadono le foglie. Una modellizzazione spinta che ha il vantaggio di fornire un punto d'appoggio da cui partire, ti permette di “tenere dentro tutti”, anche i bambini che arrivano scuola con poche esperienze e minori stimoli degli altri. Ma da lì si può solo partire; quelle immagini lì, la neve, i fiori, nel migliore dei casi creano un insieme di riferimenti immaginari, scolastici, il mondo parallelo del libro di lettura, qualcosa di simile ma meno affascinante del paesaggio di Biancaneve o di Shrek. Da lì, dal paesaggio innevato, si può uscire in due direzioni: da una parte aggiungi le date, le fai imparare, aggiungi all'immagine una serie di informazioni di cui decreti l'univocità. Se parti in quella direzione sei fregato, dopo poco ti trovi a preparare verifiche e ti arrabbi non solo se non si ricordano le date, ma anche se non riconoscono l'inverno dalla neve o l'estate dai frutti... Hai ricostruito il paesaggio di Biancaneve preciso e immodificabile, l'illusione che abbia qualcosa a che fare con la realtà rimane nella tua testa di insegnante, nella pratica può caricarsi di dati quantitativi da ricavare nelle verifiche a scelta multipla che già ti viene da appuntarti, i bambini diventano abili ad intuire cosa vuoi da loro dribblando quello che potrebbero imparare e conoscere.
L'altra strada è un vero caos, come un vero caos è la realtà: si fa beffe dei modelli. Così parti anche tu dal paesaggio con la neve ma scopri che la fatica più grande è proprio fargli dire che la neve non la vedono, che quell'immagine non è il loro inverno e che il loro inverno è pieno di immagini e di esperienze apparentemente irriducibili, un caos appunto. Poi però piano piano, ascoltandoli e facendoli parlare, trattenendoti dal correggerli, viene fuori che l’inverno è una costruzione sociale, che è il periodo degli intervalli in classe, del freddo, ma che Nife in Nigeria non aveva freddo, l’inverno freddo sta qui...
Poi magari, alla fine, l'alberello con la neve finisci per tenerlo, addirittura lo usi, lo appendi, anche se un poco ti fai beffe di lui. Il suo destino è tornare ad essere un modello, uno stupido stereotipo che possiamo usare per tenere insieme cose ben più complesse, l’icona dei pensieri e delle pratiche di realtà che abbiamo fatto in un percorso che tu, da scuola, hai provato a tenere insieme.
Nessuna didattica salva dal confronto con la realtà, che prima o poi svela l’essenza delle esemplificazioni scolastiche: modelli un po’ ridicoli che si nasconde in qualche luogo e in qualche tempo, attendono di essere riconosciuti come la copia fedele di quell’illustrazione ricopiata dalla lavagna o analizzata sul libro di testo. Per limitare il ridicolo di questo riconoscimento possiamo solo fare in modo che accada più volte possibile, dentro e fuori da qualsiasi curricolo, in barba ad ogni “verticalizzazione”.
Gli inverni della nostra vita ritornano pieni di stereotipi e di differenze ogni anno, e ogni anno ci tocca riconoscerli, in una long life learning che non si interrompe nemmeno con la fine della nostra carriera scolastica.


Ai lettori

Un esperimento

Questo foglio è una prova, un esperimento. Nasce dall’idea, condivisa da un piccolo gruppo, che una quantità non indifferente di buoni pensieri di scuola e sulla scuola rimangano silenziosi, soprattutto in questo momento storico. Per questo il piccolo gruppo ha deciso di costruire uno spazio virtuale in cui far uscire questi pensieri. Pensieri che nascono dalla vita a scuola: appunti quindi, più che saggi. E pensieri che portino con sé, non importa se esplicito o sottotraccia, un nucleo politico chiaro, consapevole.
Non sappiamo se questo foglio uscirà di nuovo, con che scadenza, se crescerà con il contributo di amiche e amici che decideranno di “prendere appunti” e metterli in comune, se vivrà nello spazio virtuale dei siti o se qualche copia verrà stampata e portata in sala insegnanti oppure appesa nella bacheca genitori. Non è indispensabile, è una possibilità. Noi stesse/i non sappiamo bene.
Le riviste storicamente nascono per affermare un’idea forte sostenuta da un gruppo coeso. Questa nasce (può nascere) per non disperdere idee, per darci la possibilità di fissare e limare pensieri che attraversano l’esperienza della scuola che costituisce una porzione importante della nostra vita e della vita pubblica del nostro tempo.
Qualche idea forte nel gruppo che parte c’è: ci sentiamo tra gli eredi di quel movimento che ha combattuto la riforma Moratti senza provare alcuna indulgenza per le precedenti e successive false alternative della scuola liberista del Centro-sinistra. Siamo difensori della scuola pubblica e laica, dell’egualitarismo, lottiamo giorno per giorno per costruire insieme agli allievi e alle allieve un sapere critico e la capacità di leggere e di comprendere in autonomia il mondo che ci circonda. Non è poco… e, soprattutto di questi tempi, è forse più che sufficiente a definire un campo non troppo ampio (purtroppo) di amiche, amici e vicini.
E’ a queste amiche e a questi vicini che quindi proponiamo di condividere e arricchire il percorso. Di aprire i loro taccuini scolastici e di estrapolare quelle riflessioni che pensano utili ad avviare uno scambio.


Invito alla lettura

Riflettere sulla valutazione insegnando letteratura
G. G.

L’ultimo decennio per la scuola italiana è stato l’epoca della velleità e mania valutativa. Una serie continua di decisioni istituzionali si è riversata in più ondate sulla scuola reale affaticandone tutti i soggetti. Ogni tipologia di misurazione ha trovato il suo spazio: si è partiti dal tentativo berlingueriano di valutare e remunerare in base alla presunta qualità gli insegnanti (1999-2000, il “concorsaccio caduto dopo una manifestazione nazionale), ha continuato il governo Berlusconi realizzando per due anni test nazionali a crocette per tutti i bambini di seconda, quarta elementare e seconda media in ben tre materie (i test Invalsi); oggi siamo alla vigilia dell’ultima pensata del centrosinistra: due prove nazionali obbligatorie aggiunte all’esame di terza media.
Questa ossessione valutativa dell’istituzione pur nell’eterogeneità delle forme mantiene un comune denominatore: perde il contatto con la comprensione e l’apprendimento dei ragazzi e delle ragazze in classe. Le grandi ingegnerie istituzionali cioè si fermano là dove il problema della valutazione si apre per l’insegnante, cioè dove si riconosce un errore (che va capito, non contato) o una resistenza (da trasformare, aggirare, usare a fini diversi).
Oggi un’occasione per riflettere in termini radicalmente diversi su valutazione e lavoro in classe viene dalla raccolta di Guido Armellini La letteratura in classe (Unicopli 2008) che raccoglie interventi sparsi (molti rintracciabili anche sul web) prodotti proprio in quest’ultimo decennio. Non fatevi ingannare dal titolo: Armellini parte dalla letteratura ma arriva sempre ai ragazzi e alle ragazze, e riesce sempre a tornare a sé, all’insegnante che sta loro di fronte, con i suoi limiti e con la sua capacità di discuterli e di farne materia di crescita dialogica. La costante partecipazione dell’insegnante alle iniziative del movimento dell’Autoriforma gentile ha fatto da catalizzatore a molti di questi interventi che nascono sempre come confronto di esperienze concrete, reali fatte in classe, nella costante ricerca da parte dell’insegnante di attivare quella potente musa dell’apprendimento che è la motivazione e l’interesse della ragazza, del ragazzo, del gruppo. Una rassegna di successi e di insuccessi quotidiani sempre imprevedibili, poiché il percorso dell’apprendimento è ben lontano dall’unilateralità e dall’oggettività che sognano i teorici delle batterie di test. “La rinuncia alla presunzione di controllare ogni aspetto della relazione didattica può essere vissuta come una ferita al narcisismo dei pedagogisti e degli insegnanti, ma può essere vissuta anche come una preziosa risorsa”.

 

Appunti di scuola è una prova di rivista.
A questo numero hanno collaborato: Gianluca Gabrielli, Renata Puleo, Gabriella Tull, Sergio Viti.
Altri ci hanno dato consigli, suggerimenti, promesso interventi per i prossimi (?) numeri.
Lo spazio mediatico in cui compare e prende vita è quello del Cesp—Centro Studi per la Scuola Pubblica di Bologna (www.cespbo.it).
Attendiamo interventi per i prossimi numeri (massimo 6100 battute spazi compresi) alla casella mail appuntidiscuola@fastwebnet.it