Lettera aperta di una maestra ai pedagogisti italiani
Questa lettera nasce principalmente da un dubbio che già
da qualche anno mi perseguita e che le ultime decisioni sulla scuola hanno notevolmente
esasperato: noi operatori e teorici dell’educazione siamo veramente consapevoli
di ciò che, in assenza di qualsiasi controllo democratico, si sta facendo
e decidendo sulla scuola? del disegno di società che si va prefigurando?
e questo, ci interessa?
I grembiulini, il 5 in condotta, la bocciatura alle elementari, la riduzione
delle ore di lezione, l’aumento progressivo del numero di alunni per classe,
il depotenziamento del sostegno ai diversamente abili, la soppressione di interi
istituti scolastici, accanto alla inamovibilità dell’insegnamento
della religione cattolica ed all’introduzione del maestro unico (termine
evocativo di pensiero unico?), mi sembrano elementi più che sufficienti
a veicolare un’idea di scuola non più inclusiva ma classista, non
più educativa ma autoritaria e omologante, non comunità ma istituzione
totale volta al consenso.
Forse sarò un po’ estrema nelle mie deduzioni ma è netta
la sensazione che nella prospettiva emergente la scuola sia destinata a fornire
spessore culturale al compito finora assolto dai mass-media: spegnere ed intorbidire
ogni capacità critica, addomesticare il pensiero divergente veicolando
disvalori e falsa democrazia. Secondo voi, ad esempio, rappresenta una conquista
per le donne che una ex velina sia oggi ministro della repubblica? sono queste
le pari opportunità?
Non che mi aspetti una levata di scudi dal mondo accademico, da sempre un po’
reticente ad esplicitare il proprio pensiero al di fuori delle aule universitarie,
ma mi farebbe piacere sapere, proprio da chi quotidianamente spiega il senso
dell’educazione e le teorie dei padri della pedagogia a futuri “improbabili”
insegnanti, cosa dirà a partire da oggi ai propri allievi, forse che
farebbero meglio a frequentare un corso per conduttore televisivo o, perché
no, di esperto di marketing, visto che la scuola del futuro sarà prioritariamente
impegnata a reperire fondazioni e sponsor che ne garantiscano la sopravvivenza?
Sono realmente indignata e, forse, incapace di mantenere la giusta distanza
emozionale per una valutazione obiettiva ma ciò non mi impedisce di pensare
che, ridurre la complessità dei fenomeni educativi ad un’ottica
economicista o meramente normativa, non sia una svista ma una scelta consapevole:
l’estrema semplificazione favorisce un approccio minimalista ai problemi
e, di conseguenza, l’accettazione di soluzioni a basso grado di elaborazione.
Non dovrebbe essere necessario scomodare Lewin per avere chiara l’idea
che la scuola è parte del sistema sociale generale e, come tale, interagisce,
condiziona ed è condizionata dal tutto.
Non posso e non voglio “vivere”in una scuola caserma dove il controllo
sostituirà la relazione, la repressione il dialogo, il giudizio la valutazione
e dove dubbio, critica e memoria non avranno alcun diritto di cittadinanza.
E’ ancora possibile unire specificità e competenze educative per
dare insieme un orizzonte di senso a ciò che si va decidendo per tutti
noi e nonostante tutti noi? Mi auguro di si.
13/10/2008 Maria Rosaria Cimino
insegnante elementare