Anche quest’anno ci risiamo con le prove Invalsi. Come negli ultimi anni il Cesp ci tiene prima di tutto a ribadire che non c’è assolutamente obbligatorietà nel disputare le prove e che per aderirvi le scuole devono passare per il confronto e per la decisione del collegio docenti, organo deputato alle decisioni sulla didattica. Sono affermazioni banali, ma solo apparentemente, perché l’aura bipartisan che negli ultimi anni ha accompagnato questi tentativi di valutare e poi mettere in concorrenza docenti, studenti e scuole ha finito per lasciare da soli coloro che sindacalmente sostengono le ragioni dell’opposizione. Anche quest’anno infatti l’unico volantino che fornisce sostegno sindacale per opporsi allo zelo misuratore dei dirigenti è quello cobas, che puntualmente ricorda come le prove non siano per ora obbligatorie e si inseriscano in un progetto di trasformazione della scuola pubblica ben articolato nella proposta di legge Aprea.
Ovviamente come Cesp siamo comunque orgogliosi di fare anche
da soli questa battaglia che comunque negli anni passati ci ha permesso di ribadire,
anche in sede di ricorsi, la correttezza del nostro punto di vista sulla non
obbligatorietà. Ma forse è il caso di aggiungere qualche nota
che ci permetta di vedere a che punto sono i nostri ‘devoti della misurazione’
e cosa nascondono nelle apparentemente ingenue prove a crocette che vorrebbero
farci somministrare alle bambine e ai bambini di seconda e quinta elementare.
Il documento utile per capirlo è Un sistema di misurazione degli
apprendimenti per la valutazione delle scuole: finalità e aspetti metodologici
prodotto per conto dell’Invalsi da Checchi, Ichino e Vittadini lo scorso
4 dicembre. Utile perché questi esperti remunerati dall’Invalsi
prospettano in una ventina di pagine la configurazione “a regime”
della ‘scuola pubblica misurata’.
“A regime, le prove dovranno essere somministrate all’intera popolazione scolastica delle classi di riferimento”; verrà costituito un “ranking provinciale, regionale e nazionale rispetto a tutte le scuole o alle scuole dello stesso tipo, costruito sulla base della media o della mediana dei risultati dei rispettivi studenti”. I risultati alle prove verranno correlati sulla base della “predisposizione di un’Anagrafe Scolastica Nazionale che segua nel tempo tutti gli studenti consentendo di abbinare la loro performance alle caratteristiche delle scuole frequentate e degli insegnanti incontrati, nonché a dati di fonte amministrativa sulle caratteristiche demografiche ed economiche delle loro famiglie”. Ciò permetterà di “disegnare un sistema di incentivazione che premi i singoli operatori della scuola in funzione del conseguimento di obiettivi relativi agli studenti con i quali essi siano entrati direttamente in contatto” e parallelamente di agire su “a) Reclutamento e rimozione dei presidi sulla base della performance ottenuta. b) Reclutamento e rimozione degli insegnanti” fino in casi estremi “all’accorpamento o alla chiusura della scuola”.
Più chiaro di così… Il progetto bipartisan di una scuola pubblica (?) emanata direttamente dalle pagine di “1984” in cui la retribuzione docente dipenderà dalla misurazione del “valore aggiunto” dello studente calcolato dalla correlazione di dati raccolti nelle prove a crocette con quelli raccolti “attraverso l’Agenzia delle Entrate […] e le Anagrafe comunali”.
Il problema è che le note inquietanti non si riducono
a questa immagine del futuro della ‘scuola del grande fratello’,
c’è dell’altro ed è legato alla approssimazione che
emerge da ogni aspetto di questi inquietanti progetti didattico-amministrativi.
Prendiamo ancora il documento dei tre “saggi”; a pagina 11 leggiamo:
“Infine i risultati delle prove standardizzate dovranno essere confrontati
con la performance degli studenti così come tradizionalmente misurata
dai voti assegnati dagli insegnanti nel corso dell’anno e negli esami
di fine d’anno. […] Ciò allo scopo di effettuare una valutazione
basata su più dimensioni che consenta di non perdere alcuni aspetti fondamentali
della nostra ‘cultura’ scolastica non rilevabili attraverso l’esclusiva
somministrazione di prove standardizzate, quali ad esempio la verifica della
capacità di esposizione orale o di composizione di un testo, la capacità
di esposizione critica e sistematica del proprio pensiero, la capacità
di cogliere ed esprimere i nessi fra più discipline, la capacità
di ‘produrre’ opere complesse (una riproduzione di una opera d’arte,
un tema, un progetto).”
Traducendo, significa che tutte queste abilità o competenze elencate,
che a noi insegnanti paiono i veri obiettivi fondamentali del lavoro quotidiano
effettuato con gli studenti, sono per l’Invalsi dei dati a perdere, tranquillamente
esclusi dalle crocette standardizzate per ammissione degli stessi ‘saggi’.
E come li recuperano questi dati fondamentali? Con i voti! ‘Bella pensata!’
verrebbe da dire, ‘davvero geniale!’. Miracoli della misurologia.
Andiamo infine ad analizzare gli esiti di una pratica Invalsi già conclusa per “misurare” anche noi a quali risultati ci conduce questa vertigine statistica. Prendiamo la prova nazionale standardizzata all’interno dell’esame di Stato alla fine del primo ciclo. Introdotta obbligatoriamente lo scorso anno scolastico, essa ha dato esiti assolutamente fallimentari ed inattendibili per pubblica ammissione degli stessi ‘saggi’ a pag.7, tanto che i risultati, evidentemente inutilizzabili a livello statistico, sono scomparsi da ogni pubblica discussione. Già questo basterebbe a convincere un’amministrazione seria a non perseverare su una strada di approssimazione e di evidente superficialità nell’affrontare una tematica così complessa come l’apprendimento. Sarebbe proprio il caso di dire: “Valutatore, valuta te stesso!”. E invece no; in perfetta continuità – più volte rivendicata da più parti, sia nel centrodestra che nel centrosinistra – si riparte quest’anno, spendendo per l’ennesima nuova avventura 5,6 milioni di euro!
Anni fa eravamo soli a sostenere l’assurdità di queste “somministrazioni”, oggi purtroppo crescono le prove della nostra ragione, ma l’aria non sembra cambiata. Certo, da soli potremo far poco: fare controinformazione, dire cose che tutti tacciono, ricordare ai docenti e ai cittadini che la qualità della scuola non si misura con le crocette. La speranza è che, con l’andare del tempo, crescano i soggetti che sappiano aprire gli occhi nella giusta direzione. Ma non è facile: un esempio di macroscopico abbaglio è, ad esempio, in un volume di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo – La deriva - che ha avuto centinaia di migliaia di lettori e nel quale un nostro documento contro i test viene messo alla gogna come difensore di privilegi e di una scuola di scarsa qualità. Chissà se col tempo questi rinomati fustigatori del malcostume nazionale troveranno il tempo e l’onestà intellettuale per correggere l’errore e andare a cercare nella giusta direzione gli scialacquatori di soldi pubblici e gli incompetenti di turno?
Gianluca Gabrielli (Cesp-Cobas)