A molte persone sembra ovvio che gli insegnanti debbano
guadagnare di più quando i loro alunni vanno bene. Se un commerciante
guadagna di più quando vende di più, perché non dovrebbero
essere pagati di più gli insegnanti i cui studenti prendono voti
più alti nelle prove esterne standardizzate?
Non si tiene conto però che il merit pay
si è dimostrata una strategia inefficace per migliorare l’insegnamento
e l’apprendimento. Ecco perché:
• Mina il lavoro d’equipe. Gli insegnanti
che sono ricompensati per i migliori risultati conseguiti dai loro studenti
sono meno propensi a condividere idee ed esperienze con i propri colleghi.
• I migliori insegnanti lavorano già
moltissime ore e non ci sono prove che un aumento di stipendio li porti
a lavorare di più o in modo più brillante, o che per converso
gli insegnanti mediocri siano motivati a migliorare. Capita esattamente
il contrario e i mediocri faranno ancora peggio.
• Le prove standardizzate spesso sono “insensibili”
nei confronti dei problemi educativi, e il più delle volte misurano
le condizioni familiari più che il valore aggiunto dato dal lavoro
dell’insegnante.
• In molti Stati le prove standardizzate non
pongono sufficiente enfasi sulle competenze relative alla lingua scritta
e al pensiero critico, quindi l’introduzione del merit pay con tali
test potrebbe indurre gli insegnanti a trascurare queste importanti competenze
per la vita.
• Infine per fare fronte alle due ultime obiezioni
sopraesposte è stato detto che le scuole dovrebbero usare prove
rigorose prima e dopo i test, in settembre e in maggio, per misurare il
contributo di ciascun insegnante agli apprendimenti degli studenti. E’
una bella idea, ma gli esperti dicono che occorrono almeno tre anni di
dati per misurare l’efficacia di ciascun insegnante individualmente.
• Se si innalza la difficoltà dei test
si aumenta anche la tendenza a “tarroccare” le prove. La maggioranza
degli insegnanti sono scrupolosi ed onesti quando fanno vigilanza durante
le prove, ma un aumento della difficoltà dei test potrebbe modificare
questi comportamenti.
• Una buona percentuale di alunni sono presi
fuori dall’aula per ricevere aiuto in piccoli gruppi gestiti da
altri insegnanti. Come si può prefigurare un corretto incentivo
in base ai risulati di questi alunni?
• E come si fa con quella metà di insegnanti
che insegnano in classi o impartiscono discipline che non sono soggette
a test, come per esempio la scuola dell’infanzia, la 1^ e 2^ primaria,
l’educazione artistica, la musica, l’educazione fisica, ecc…
?
Queste considerazioni demoliscono la validità del
merit pay.
Eppure il ministro Arne Duncan ha assolutamente ragione
quando dice che lo studente deve essere al centro di qualsiasi provvedimento.
Allora come si può risolvere il problema senza creare problemi
aggiuntivi e incentivi perversi?
La soluzione è già presente nelle
nostre buone scuole.
Nella maggioranza delle migliori scuole americane
il dirigente fa, senza annunciarle, frequenti visite nelle classi e dà
dei feedback informali su ciò che gli studenti stanno imparando
e su come può essere migliorato l’insegnamento. In queste
scuole i team di insegnanti progettano collegialmente le unità
di apprendimento, fanno valutazioni comuni ogni 4 o 6 settimane, e immediatamente
dopo discutono ciò che ha o non ha funzionato e come si può
migliorare l’insegnamento, e aiutano gli studenti in difficoltà.
Facendo frequenti valutazioni per l’apprendimento
e definendo gli obiettivi di apprendimento, queste scuole fanno leva sulla
“saggezza” collettiva degli insegnanti e dei dirigenti e mantengono
costante il focus sulle questioni più importanti:” Gli studenti
stanno imparando? E se no, che cosa dobbiamo fare?
Nessuna meraviglia se gli studenti di queste scuole
fanno progressi straordinari, e gli insegnanti migliorano continuamente
la loro professionalità.
Mettere in moto questo motore non è facile.
Alcuni fattori di successo sono tecnici, come i confronti costanti sui
risultati delle valutazioni interne e una continua disponibilità
di dati, ma altri hanno a che fare con il livello di reciproca fiducia
fra gli insegnanti e il dirigente e gli amministratori. E se è
importantissimo portare la discussione all’interno delle scuole
sui risultati è altrettanto importante mantenere informale il processo
di valutazione, in modo che gli insegnanti non si sentano sotto controllo
o peggio sotto accusa e si sentano a loro agio nell’ammettere quando
le cose non funzionano, e saranno più disponibili ad ascoltare
le idee e le proposte dei colleghi. Ciò che serve è un continuo
aggiustamento in itinere più che “ispezioni” finali.
Si deve allora rimanere ancorati al vecchio sistema
retributivo basato sull’anzianità di servizio e i titoli
accademici? No!
Ci sono altri modi di aggredire questo vetusto anchilosato
sistema: incrementi retributivi possono essere dati a insegnanti che fanno
da mentori ai colegjhi, a insegnanti esperti che svolgono attività
e di progettazione e organizzazione del curricolo, fanno attività
di formazione, guidano gruppi di lavoro. Oppure selezionare e pagare di
più i docenti per le scuole più difficili e ancora quelli
delle discipline dove c’è carenza di docenti.
Sperimentiamo queste idee. Ma soprattutto emuliamo
la supervisione dei buoni dirigenti e l’approccio a frequenti valutazioni
comuni delle nostre migliori scuole e lasciamo perdere l’inefficace
strategia del merit pay individuale. E’ fuorviante rispetto alle
nostra finalità di migliorare le scuole americane.
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Nelle prese di posizione di qualche collegio dei docenti a proposito
delle prove Invalsi, per la prima volta quest’anno somministrate
alla scuola secondaria superiore, si sono lette parole durissime. Più
dure – ma perché? – di quanto non sia mai successo
nella scuola di base, dove le prove nazionali in terza media sono ormai
entrate a far parte anche della valutazione conclusiva. Sembrerebbero
tutti insieme minacciati il diritto alla riservatezza, la libertà
di insegnamento, il pluralismo culturale, la complessità dell’educazione
e dell’apprendimento. Mentre le prove, derubricate a «quiz»
e «telequiz», vengono additate al pubblico ludibrio come esempi
del peggiore «nozionismo». Un eccesso di fuoco, in verità.
E soprattutto il rischio di spararsi sui piedi, visto che all’opinione
pubblica può arrivare in questo modo l’immagine non proprio
presentabile di un corpo professionale che, pur maneggiando gli strumenti
della valutazione con qualche discrezionalità di troppo (come sa
chiunque nella sua vita scolastica abbia conosciuto diversi insegnanti
di una stessa disciplina) e anche con una rimarchevole disinvoltura (sono
ancora il 20%, il doppio della media Ue, gli studenti italiani che non
arrivano a diplomi o qualifiche), proprio non sopporta che ci siano prove
elaborate e corrette da altri che non se stessi. Immagine deformata, peraltro,
perché la maggioranza degli insegnanti, pur non entusiasta della
novità, è assai più riflessiva di quanto facciano
pensare quei comunicati.
C’è dell’altro, quindi, dietro quelle inquietudini
e quel disagio. Intanto, proprio il rovescio dell’evocato «nozionismo».
Chi abbia letto le prove di italiano proposte quest’anno agli studenti
delle seconde classi, deve riconoscere che la loro difficoltà deriva
al contrario proprio dal fatto di essere mirate ad accertare non il possesso
o meno di “nozioni”
ma la capacità di uso di quello che si sa – il proprio bagaglio
culturale, la propria esperienza di lettura – nel comprendere un
testo e ragionarci sopra.
Le prove Invalsi possono essere fatte più o meno bene, sicuramente
non costituiscono il solo modo di valutare, in questo caso ce n’era
almeno una che avrebbe potuto essere congegnata meglio, ma il problema
è un altro. Quello che inquieta molti insegnanti è proprio
che prove di questo tipo misurano risultati più profondi e interiorizzati
di tanto imparaticcio scolastico; e mettono a nudo non pochi limiti della
nostra tradizione pedagogica.
Sta proprio qui, in effetti, la loro utilità. Perché è
da un approccio diverso da quello prevalente nella nostra scuola secondaria
superiore – non è il sapere in sé l’obiettivo,
ma la capacità di far “lavorare” quello che si sa –
che deriva la possibilità per gli insegnanti, e per la scuola come
sistema, di accertare se c’è qualcosa che non va nell’insegnamento,
nei programmi, nei metodi, nell’organizzazione dell’ambiente
di apprendimento, e
magari di migliorarlo. O dobbiamo pensare che solo nella scuola italiana
non ci sia niente di perfettibile? Ma molti insegnanti, anche tra quelli
che non hanno espresso contrarietà esplicite, hanno altri tipi
di preoccupazioni . Temono, per esempio, che da prove di
questo tipo, uguali per tutti e non finali come quelle degli esami di
maturità, vengano in piena luce differenze tra classi e sezioni
che le famiglie, gli studenti, il dirigente scolastico, l’amministrazione
potrebbero attribuire, non alle condizioni di contesto, alle caratteristiche
socio-culturali degli allievi, ai soliti danni prodotti dalla solita scuola
media-elementare-materna, alle solite famiglie che non educano, al solito
internet che fa perdere la
concentrazione e così via,ma alla maggiore o minore capacità
professionale dell’uno
o dell’altro insegnante.
E che, prima o poi, da tutto ciò si possa passare – c’è,
del resto, già scritto nero su bianco
anche in un certo numero di intese contrattuali – a una valutazione
comparativa tra gli istituti scolastici e anche a una valutazione dei
singoli insegnanti, finalizzata a diversificare una carriera finora basata
unicamente sull’anzianità . In cui sono pagati tutti allo
stesso modo, bravi e scadenti, impegnati e pigri, colti e meno colti,
con buona pace ovviamente dei più giovani che, anche se di ottime
capacità, devono comunque aspettare i previsti 35 anni di servizio
per poter arrivare al 45-50% di incremento retributivo sui livelli iniziali.
È vero, tutto ciò è all’ordine del giorno da
diverso tempo, ormai da più di una decina di anni. Ed è
spiegabilissimo che a una prospettiva di questo tipo si guardi
con grande preoccupazione in una categoria con uno statuto professionale
del tutto diverso, basato sull’assoluta identità della funzione,
anche in presenza di specificità e specialismi evidenti; e su una
sostanziale non controllabilità dei suoi risultati.
Tanto più in tempi connotati, oltre che da “tagli”
e politiche fortemente restrittive nei confronti dell’istruzione
pubblica, anche a pesanti e ricorrenti campagne di diffamazione dei suoi
insegnanti, da ripetuti tentativi di censura culturale, da un clima politico
e amministrativo mai così chiuso e conformista come oggi. Tanto
più poi, se alla valutazione delle scuole si dovesse attribuire
il compito di introdurre anche nell’istruzione pubblica una logica
di mercato.
Sono temi che scottano e che preoccupano dunque, e giustamente.
Ma proprio per questo non ha senso, ed è anzi
controproducente, negare attendibilità e utilità a prove
basate su presupposti teorici di valenza nazionale
e internazionale. È assai meglio, se non funzionano, proporne il
cambiamento. Discutendone in grande, a voce alta, nei luoghi appropriati
delle associazioni e delle
rappresentanze professionali.
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