Da Tempi difficili

(Hard Times)

di Charles Dickens

 

CAPITOLO I

L’UNICA COSA NECESSARIA

“Ora quello che voglio sono Fatti. A questi ragazzi e ragazze insegnate soltanto Fatti. Solo i Fatti servono nella vita. Non piantate altro e sradicate tutto il resto. Solo con i Fatti si plasma la mente di un animale dotato di ragione; nient’altro gli tornerà mai utile. Con questo principio educo i miei figli e con questo principio educo questi ragazzi. Attenetevi ai Fatti, signore!”.
La scena si svolgeva in un’aula spoglia, anonima, monotona, lugubre; per dare enfasi a queste osservazioni l’oratore sottolineava ogni fase, tracciando con l’indice quadrato una linea sul­la manica del maestro. A dare ancora più enfasi alle parole dell’oratore c’erano il muro quadrato della sua fronte con le sopracciglia per base e, sotto, gli occhi, comodamente annidati in due oscure e ombrose caverne scavate nel muro stesso. A dare ancora più enfasi c’era la voce dell’oratore, inflessibile, secca, autoritaria. A dare ancora più enfasi c’erano i capelli dell’oratore, che crescevano ispidi a corona intorno alla testa, calva sulla sommità, simili a una foresta di pini destinati a proteggere dal vento quella lucida superficie, tutta bitorzoli, che pareva la crosta di una torta di prugne, come se nel cranio non ci fosse abbastanza spazio per contenere tutti i solidi fatti che vi erano pigiati. L’atteggiamento deciso dell’oratore, l’abito quadrato, le gambe quadrate, le spalle quadrate, perfino la cravatta, annodata per serrarlo alla gola con una stretta implacabile — anche questa un fatto — tutto serviva a dare ancora più vigore all’enfasi.

«Nella vita servono Fatti, signore, soltanto Fatti!».
L’oratore, il maestro e la terza persona adulta presente indietreggiarono un poco e, facendo girare tutto intorno lo sguardo, scrutarono i piccoli vasi disposti qua e là, in ordine, pronti a ingollare galloni e galloni di fatti, che li avrebbero colmati fino all’orlo.

CAPITOLO II

LA STRAGE DEGLI INNOCENTI

Thomas Gradgrind, signore. Un uomo concreto. Un uomo di fatti e calcoli. Un uomo che parte dal principio che due più due fa quattro e basta; un uomo che non si lascia convincere a concedere niente di più. Thomas Gradgrind, signore — decisamente Thomas — Thomas Gradgrind.

Regolo, bilancino, tavola pitagorica sempre in tasca, signore, sempre pronto a pesare e a misurare ogni particella di natura umana e a dire esattamente a quanto ammonta il tutto. Mera questione di cifre, semplice operazione aritmetica. Potreste sperare di far credere qualche sciocchezza a George Gradgrind, ad Augustus Gradgrind, a John Gradgrind, a Joseph Gradgrind (tutti personaggi ipotetici, non reali), ma non a Thomas Gradgrind, no, signore!

Era così che mentalmente il signor Gradgrind presentava se stesso alla sua cerchia privata di conoscenze e al pubblico in generale. Era così, sostituendo, è ovvio, alla parola signore le parole ragazzi e ragazze, che Thomas Gradgrind ora presentava Thomas Gradgrind ai piccoli recipienti che aveva dinanzi e che bisognava stipare di fatti.
Nel fissarli con sguardo fiammeggiante dal fondo delle caverne già descritte, sembrava una specie di cannone che, carico di fatti fino all’imboccatura, si preparasse a scagliarli d’un sol colpo al di là delle regioni dell’infanzia. Faceva anche venire in mente un apparecchio galvanico, pronto a sostituire con un cupo meccanismo le tenere fantasie giovanili che andavano spazzate via.
“Ragazza numero venti”, disse Gradgrind puntando quadratamente l’indice quadrato, “non conosco quella ragazza. Chi è?”.
“Sissy Jupe, signore”, spiegò il numero venti arrossendo, alzandosi e facendo un inchino.
“Sissy non è un nome”, osservò Gradgrind. “Non farti chiamare Sissy. Fatti chiamare Cecilia”.
“È mio padre che mi chiama Sissy, signore”, rispose la ragazzina con un tremito nella voce, facendo un altro inchino.
“Non ha alcun motivo per farlo. Diglielo che non deve. Cecilia Jupe. Vediamo: cosa fa tuo padre?”.
“Lavora con i cavalli in un circo, signore, se lo consentite”.
Gradgrind aggrottò la fronte e, con la mano, fece un gesto come per scartare quella discutibile vocazione.
“Non ne vogliamo sapere di cose del genere qui; non devi dirci queste cose. Tuo padre doma cavalli, vero?”.
“Sì, signore, se lo consentite: quando ce n’è qualcuno da domare, lo domano nell’arena del circo”.
“Non nominare l’arena del circo qui. Bene, allora devi dire che tuo padre fa il domatore di cavalli. Cura anche i cavalli ammalati, vero?”.
“Oh sì, signore”.
“Benissimo! Allora è veterinario, maniscalco e domatore di cavalli. Dammi la definizione di cavallo”.
(A quella imperiosa richiesta, Sissy Jupe si sentì terribilmente allarmata.)
“Ragazza numero venti incapace di definire il cavallo!”, sentenziò Gradgrind a edificazione generale dei piccoli recipienti.
“Ragazza numero venti non possiede fatti su uno degli animali più comuni! La definizione di cavallo di qualche ragazzo ora. La tua, Bitzer”.

Il dito quadrato si mosse qua e là per puntarsi improvvisamente su Bitzer, forse perché costui sedeva, per caso, sulla traiettoria dello stesso raggio di sole che, filtrando attraverso una delle nude finestre della stanza dalle pareti bianchissime, illuminava Sissy. Ragazzi e ragazze erano disposti in due gruppi compatti, divisi al centro da uno stretto passaggio; Sissy, seduta all’angolo di una fila al sole, stava all’inizio del raggio di cui Bitzer, il quale si trovava all’angolo della fila sull’altro lato, qualche banco più avanti, riceveva la fine. Ma, mentre i capelli e gli occhi della ragazza erano così neri che al sole si accendevano di un colore ancora più vivo e lucente, Bitzer aveva occhi e capelli così chiari che, illuminati da quello stesso raggio, pareva­no sbiadirsi del tutto. I freddi occhi non sarebbero sembrati neppure occhi, se non fosse stato per le ciglia cortissime che, per contrasto con qualcosa che era ancor più scialbo, ne mette­vano in evidenza la forma. I capelli tagliati corti avrebbero potuto benissimo essere la semplice continuazione delle lentiggini che gli punteggiavano la fronte e il resto del volto; la pelle, esangue e diafana in modo innaturale, dava l’impressione che, se si fosse tagliato, ne sarebbe sprizzato sangue bianco.
“Bitzer”, disse Thomas Gradgrind, “dai tu la definizione di cavallo”.
“Quadrupede. Erbivoro. Quaranta denti, cioè ventiquattro molari, quattro canini e dodici incisivi. La muta avviene in primavera; nei paesi umidi cambia anche le unghie. Zoccoli duri che però richiedono la ferratura. Età riconoscibile da segni nella bocca”. Così (e molto di più) Bitzer.
“Ora, ragazza numero venti, sai che cos’è un cavallo”, disse Gradgrind.

Sissy Jupe fece un altro inchino e, se avesse potuto diventare più rossa, sarebbe arrossita ancora di più. Bitzer, dopo un rapido battito di palpebre rivolto a Thomas Gradgrind, con la luce che, posandosi sulle ciglia tremule, le faceva assomigliare alle antenne di un insetto laborioso, tornò a sedersi premendo le mani sulla fronte coperta di lentiggini.
Si fece allora avanti il terzo signore. Era un uomo abilissimo nel tagliar la testa al toro; un funzionario del governo; a suo modo (e anche a quello di molti altri) un pugile di professione, sempre in allenamento, sempre pronto ad ammannire agli altri un suo sistema; sempre a pontificare dal podio del suo piccolo incarico ufficiale, sempre pronto a combattere tutta quanta l’Inghilterra. Aveva un vero genio per venire al sodo, in qualsiasi luogo su qualsiasi argomento e, sempre usando una terminologia pugilistica, si dimostrava un osso duro. In ogni dibattito si buttava a capofitto: colpiva col destro il primo argomento che gli capitava sotto tiro, poi continuava con il sinistro, si fermava, scartava, bloccava, metteva alle corde l’avversario (combatteva sempre tutta quanta l’Inghilterra) e gli piombava addosso con tutto il suo peso. Finiva sempre per mettere fuori combattimento il buon senso e per cancellare nello sfortunato avversario la percezione del tempo. Dalle massime autorità aveva avuto l’incarico di preparare l’avvento del Millennio della burocrazia, quando sulla terra regneranno soltanto funzionari governativi.

“Molto bene”, disse questo gentiluomo con un sorriso pieno di vigore, incrociando le braccia. “Ecco un cavallo. Ora, ragazzi e ragazze, voglio chiedervi una cosa. Tappezzereste una ca­mera con figure di cavalli?”.
Dopo un attimo di silenzio, una metà dei ragazzi rispose in coro: “Sì, signore!”; al che l’altra metà, leggendo sul volto del gentiluomo che il sì non andava bene, gridò in coro: “No, si­gnore!”, come è consuetudine in simili circostanze.
“No, naturalmente no. E perché no?”.
Un attimo di silenzio. Un ragazzo grosso e tardo, che respirava con l’affanno, si arrischiò a rispondere che a lui non andava una camera tappezzata di carta perché preferiva l’intonaco.
“Devi tappezzarla”, ribattè il gentiluomo con un certo calore.
“La tappezzeria ci deve essere, ti piaccia o non ti piaccia”, confermò Thomas Gradgrind. “Non venirmi a raccontare che non la tappezzeresti. Cosa vuoi dire che non vuoi tappezzarla, ragazzo mio?”.
“Ve lo spiegherò io il perché”, disse il gentiluomo dopo un cupo silenzio. “Vi spiegherò perché non si deve tappezzare una stanza con figure di cavalli. Nella realtà, nei fatti, vi è mai ca­pitato di vedere cavalli che passeggiano su e giù per i muri di una stanza?”.
“Sì, signore”, da una metà. “No, signore”, dall’altra.
“No, naturalmente”, continuò il gentiluomo, lanciando uno sguardo indignato alla metà che aveva sbagliato. “Ebbene non dovete vedere in nessun luogo cose che non vedete di fatto; in nessun luogo dovete avere cose che non avete di fatto. Quello che si chiama Gusto è soltanto un sinonimo di Fatto”.
Thomas Gradgrind con la testa fece un segno di approvazione.

Charles Dickens - Tempi difficili