Fuori di test
di Stefano Bartezzaghi

da Repubblica.it - 19 agosto 2012

Ma perché, in Italia, non si trova un modo per formulare i quiz? Domande incomprensibili, opzioni impossibili o sbagliate. Forse, perché, non tutte le capacità sono computabili.

Ha memorabilmente osservato Ennio Flaiano: «In Italia, la linea più breve fra due punti è l’arabesco ». È forse a questo tipo di autodiagnosi che occorre rivolgersi quando si prende in considerazione quell’insieme di sintomi, nel contempo comici e drammatici, che lascia dedurre un’insofferenza, un’intolleranza o forse proprio un’allergia nazionale per i test. Una volta, nessuno ci azzecca; un’altra volta, le domande sono tutte sbagliate; un’altra volta, le domande sono giuste ma le risposte sono formulate male. Nessuno dei numerosi tentativi di introduzione in Italia di test a scopo di valutazione e verifica o anche orientamento pare essere mai filato del tutto liscio, come se un arcano anatema ci impedisse di adibire i quadratini e le crocette agli scopi per i quali, almeno in apparenza, risultano utilissimi all’estero, specie quello anglosassone. Almeno in apparenza: vanno messe le mani avanti perché, a giudicare dalle annose vignette di Schulz sulle verifiche a multiple choice condotte dalla buffa Piperita Patty, anche negli efficienti Usa qualche risvolto assurdo i test sembrano averlo. Ma certo nulla di paragonabile a quanto succede da noi. Lasciamo anche da parte i quiz per la patente, sagra folkloristica su cui Francesco Merlo ha compiuto un’esauriente ricognizione etnologica. Lì si tratta di operare un minimo di selezione rapida e anche casuale su intere masse di candidati, contemperando l’operazione con quel tipo di mentalità e di linguaggio burocratici che Marcello Marchesi riassumeva nel proverbio neolatino «Est modulus in rebus». Da questo impossibile trapianto nascono i quesiti del genere che fa vibrare Merlo di gaudiosa indignazione: «La sosta è comunque vietata in corrispondenza dei distributori di carburante », dove tutto sta in quel comunque (falso, perché non è vietata comunque: quando il benzinaio è chiuso, è consentita). Tutti prendono la patente lo stesso; entro due settimane tutti cominciano a posteggiare ovunque e comunque. Non è mai stato un problema. Così come non fu un vero problema quello del 2011, quando nei test di ammissione al corso di laurea in professioni sanitarie della Sapienza comparve la domanda: «Nei pressi del noto Liceo Tacito di Roma si trova la “grattachecca di Sora Maria”, molto nota tra i giovani romani. Sapresti indicare quali sono i gusti tipici serviti? Menta, limone, amarena, cioccolato…». Il rettore – tuttora in carica – Luigi Frati disse: «È una domanda di logica». Più puntuale fu il commento di Gabriella, la figlia della Sora Maria, attuale titolare del chiosco: «È già venuto il Tg5 e il Tg2, sto a diventa’ famosa».

Fin qui, appunto, puro folklore. La faccenda diventa assai più seria quando a sorreggere il test non è solo una mentalità arcaica modernizzata di colpo e malamente, come un dialetto che abbia accolto alcuni anglismi e germanismi e venga par lato in azienda. Nei test di ingresso alle università, nei “quizzoni” delle maturità, nei test “Invalsi” per la valutazione degli istituti didattici (e in molti altri casi) agisce piuttosto un’ideologia econometrica, docimologica, computistica che compie danni non solo teorici.

Che occorra uno strumento per valutare l’efficienza dei diversi livelli dell’apparato scolastico forse non è ovviamente giusto per tutti, ma certo è molto sensato. Più dubbio è invece che a colpi di test si possano mettere in evidenza i parametri necessari a tale valutazione. Tanto più se – come accadde l’anno scorso – i test Invalsi (brutto acronimo arrangiato per: Istituto Nazionale per la VALutazione del Sistema dell’Istruzione) per la scuola media contenevano un errore nelle griglie di correzione che ha determinato caos e smarrilitàmento nel momento più delicato della carriera scolastica dei quattordicenni. Che fosse sbagliata l a griglia di correzione in un test di valutazione, fra l’altro, più che un errore tecnico pare un lapsus.

Chi valuta l’efficienza dei test di valutazione? «La fantasia per la quale i test sono in grado di misurare l’intelligenza non è proprio del tutto inconsistente: misurano con precisione l’intelligenza di chi li ha preparati». Chi ha fatto un commento simile non era animato solo da spirito paradossale, postmodernista e decostruttivo. Quantificare una valutazione significa sforzarsi di conferire il massimo dell’oggettività a una materia che è impregnata di soggettività. Nell’Italia di Flaiano è come chiedere a qualcuno di dimostrare che la linea più corta che unisce due punti è il ghirigoro per via geometrica, mediante equazioni, tabelle e diagrammi su assi cartesiani.

Il governo tecnico sembra condividere questa ideologia: quello che è, è computabile; ciò che non si computa, non è. Può valere per lo zero e per il cento, per il tutto e per il niente. Ma in fatto di scuole, conoscenze, efficienza, preparazione, lo zero e il cento non danno alcun problema. Sembra invece proprio il caso di affermare, e con una certa nettezza, che fra lo zero della laurea albanese di un certo consigliere regionale lombardo, che ora assicurano dedito all’agricoltura, e il cento del curriculum che brilla di luce propria di pochi adepti di corsi esclusivissimi (ma ricordiamoci sempre, – sempre! – che Lapo Elkann ha studiato alla European Business School di Londra e ha lavorato o almeno operato nello staff di Henry Kissinger: anche la presunta eccellenza è vulnerabile), esiste non solo una semplice via di mezzo . Quello che passa di lì è decisamente fuori di test. È il mainstream democratico, l’alto alfabetismo di massa, la civiltà occidentale che vorrebbe scongiurare il ritorno a feudalesimo e pastorizia: la preparazione di medici, ingegneri, storici dell’arte, geologi, biologi, professori di filosofia, persino giornalisti e, quando càpita, economisti, capaci e colti. Siamo proprio sicuri che a colpi di test si possa stabilire la qualità di una scuola? Una scuola vive sul contatto umano, su quello che solo una sessuofobia stupida e incolta, travestita da malintesa correctness, non sa chiamare eros, poi reso funzionale a una trasmissione del sapere che non è possibile anestetizzare, sterilizzare dai suoi connotati viventi, occasionali, linguistici, semiotici, psicologici.

Tradurre questo in parametri numerici e ossessivamente dediti all’oggettività implica lapsus. La soggettività del compilatore del test riapparirà – priva di segni di riconoscimento e scambiabile (dai non vedenti volontari) per oggettività – reificata nell’errore, nell’incidente della grattachecca (vero sintomo di una mentalità piccolissima, degna al più dell’ambulatorio del praticone), nello sproposito del più recente test per l’abilitazione all’insegnamento di filosofia, psicologia e scienze dell’educazione nelle scuole superiori. Questo ultimo era in parte significativa basato su domande di insultante frivolezza, come: «Non è un’opera di Comenio: A) De magistro B) Didactica magna C) Orbissensualiumpictus D) Janualinguarumrese rata ». Tutto ciò in una prova che serviva per abilitare all’insegnamento persone che magari insegnano già, come precari, da anni. Non ci si pensa mai, oltretutto: dover passare un esame, magari severo ma scriteriato, per essere abilitati a fare quello che si fa già da anni, impeccabilmente e sottopagati, è di per sé un abominio logico. Certo, molto di più illogico del gusto sbagliato di una grattachecca.

Dall’università agli Invalsi fino alla maturità agisce un’ideologia econometrica. Valutare l’efficienza forse non è sempre giusto per tutti, ma è molto sensato. Magari con altre formule. Il punto è capire cosa possa stabilire davvero la qualità di un candidato. Quantificare certe cose significa pensare di dare oggettività a una materia impregnata di soggettività.