Sabato 27 / Domenica 28 marzo 2004
Non abbiamo  tempo pieno  da perdere!
Difendere un modello di scuola e di società

2° Convegno Nazionale sulla scuola a Tempo Pieno
Bologna - Scuola elem. Fortuzzi

ATTI

A cura di
Coordinamento Nazionale in Difesa del Tempo Pieno e Prolungato
CESP-COBAS - Centro Studi per la Scuola Pubblica

INDICE

Diritto a una scuola che assomigli al mondo Bruno Tognolini
Tempo Pieno: una scuola per il futuro Sonia Bortolotti, Com. Gen.-ins. Firenze / Cesp
A proposito di quello che succede intorno alla scuola. E poi vi entra e la connota Andrea Bagni "école", Firenze
Tempo. Tempi della crescita / tempi della scuola Renata Puleo, Dirigente scolastica, Roma
Prima del Tempo pieno: La scuola integrata Cristiano Corsini, Dottorando, Roma
Tutor. Il principio gerarchico VS la scuola della collegialità. Diana Cesarin, Segretaria naz. MCE
L’aritmetica delle ore... Bruno D’Amore, Docente di didattica della Matematica, Univ. Bologna
Tempo Pieno: riproposta necessaria Andrea Canevaro, Università di Bologna
Girotondo per la scuola Sabrina Giarratana (Bologna)
Tempo Prolungato in Valle Camonica  Margherita Moles, insegnante di lettere TP
Corridori sul Filo Racconto di Mauro Bernini, genitore del TP, Bologna
Tempo pieno, addio? Franco Frabboni, preside facoltà Scienze dell’Educazione, Bologna
Ci salveremo?  Maddalena Micco, insegnante, Bologna
Filastrocca Mamma Mauria, Bologna
Tempo pieno, tempo necessario Francesco De Bartolomeis (Torino)
Meno tempo e logica dell’efficienza... Mauria Bergonzini (Bologna)
"Dadi" e "dade" a scuola Giovanni Briguglio, bidello (Bologna)
La scommessa giusta Gabriella Tull maestra di TP (ed ex allieva), TS
Io credo nel tempo pieno Paola Carolei (mamma), Bologna
Dedicato alle maestre, la parte migliore della scuola Vita Cosentino
Niente più compresenze? Daniela Turci, Bologna
Di quale scuola abbiamo bisogno, quale scuolaCristina Mecenero, maestra, mov. autoriforma
Il Tempo Pieno a Trieste Loredana, Silvia, Tonia e Alessandra, Comitato TS
Appunti sulla legittimazione sociale del tempo pieno Mauro Boarelli, genitore, Bologna
Pollicino e la Moratti Valeria De Vincenzi, mamma del Coord. Bo
La scuola delle differenze, la scuola delle diseguaglianze Romana Veronesi, ins. sc. elem. IC 7, Bo
Adozioni alternative Gianluca Gabrielli, maestro
Cosa bolle in Parlamento Titti De Simone Dep. comm. Cultura della Camera
Tempo pieno e territorio Miriam Consorti
Un "modesto" impegno  Giorgio Rinaldi
Mettiamo le radici nella scuola Lara, La Spezia
Chi spiegherà i cambiamenti ai bambini? Micol Quiros, mamma, Bologna


Diritto a una scuola che assomigli al mondo
Bruno Tognolini

Nel mondo ci sono le terre ed i cieli
Non sono divisi in scaffali
Nel mondo ci sono le fiabe e le arti
Non sono divise in reparti
Nel mondo c’è un nido, che è la tua classe
Uscendo non trovi le casse
Nel mondo ci sono maestri un po’ maghi
Ci sono, non solo se paghi
Nel mondo il sapere che vuoi si conquista
Nel supermercato si acquista
E allora rispondi con una parola
Com’è che la vuoi la tua scuola?

 

Tempo Pieno: una scuola per il futuro
Sonia Bortolotti (Comitato Genitori-insegnanti, Firenze / Cesp)

- Tempo pieno: un modello scolastico che si pone ancora oggi e soprattutto oggi - a 33 anni dalla sua istituzione - come la risposta più complessa, articolata e profonda che la scuola abbia saputo dare ai bisogni e alle esigenze che emergono dal tessuto sociale.

- Su quali basi nasce il Tempo pieno, quali sono i suoi aspetti fondanti e le caratteristiche forti che ne fanno il motore delle grandi trasformazioni della scuola elementare italiana negli anni ’70 e ‘8o ?

- Dalla fine degli anni ’80, con le prime stesure della 148, iniziano i tentativi istituzionali di abolire il Tempo pieno, in un panorama culturale e politico in cui le "grandi spinte" sono finite e l’area del centro sinistra sposa l’ottica del risparmio e della razionalizzazione insieme ai modelli culturali di matrice anglosassone.

- Il Cognitivismo , applicato oltretutto in modo superficiale e raffazzonato, dà origine ai Moduli e informa di sè tutti gli aspetti della vita e dell’istituzione scolastica.

- Le lotte dei genitori e degli insegnanti, però, salvano il Tempo pieno dall’abolizione e lo mantengono come modello scolastico in una sorta di "riserva" (art.8 L.148/90)

-Il Ministero non rinuncia affatto al progetto di abolizione del Tempo pieno, nel silenzio e spesso con l’appoggio di quella stessa area della sinistra che era stata determinante negli anni 70 per la nascita del Tempo Pieno : si cerca di abolire il modello scolastico scuola per scuola, sostituendolo con i moduli, squalificandolo agli occhi dei genitori, negando il diritto all’iscrizione.

Questo porterà nel Sud ad una drastica diminuizione del Tempo pieno ma nel Centro Nord i Comitati Genitori/Insegnanti riusciranno a difenderlo con una lunga battaglia che si protrarrà nello spazio e nel tempo.

-Nel’92 avverrà un nuovo tentativo di abolizione sul quale il Ministero si spenderà con forza : la modularizzazione del Tempo pieno, destinato a trasformarsi in un grosso modulo con gli insegnanti che ruotano fra le classi, ma anche questa volta si svilupperà su questo una grande battagli a e genitori e insegnanti riusciranno a difendere il Tempo Pieno, a bloccare e sconfiggere i tentativi di modularizzazione.

- Nel ’96 la crescita continua delle iscrizioni, vanamente contrastata dall’amministrazione raggiungerà infine, per merito delle continue iniziative di lotta che si sono susseguite anno dopo anno,una vittoria significativa. Il tetto massimo delle classi a tempo pieno viene abolito e il modello Tempo pieno ha nuovamente diritto a crescere liberamente accanto ai Moduli, ormai sempre più in crisi

- Un modello scolastico, quindi, che attraversa continui e articolati tentativi di abolizione senza scomparire, arrivando anzi ad una continua e diffusa crescita delle iscrizioni. Un modello scolastico che continua a difendere - pur tra mille problemi - la sua specificità e che cresce nell’apprezzamento e nelle richieste, nonostante l’ostilità dell’amministrazione scolastica e di molti dirigenti, nonostante che da vent’anni l’area culturale e organizzativa del Centro-sinistra ne abbia abbandonato la difesa per abbracciare il cognitivismo modulare. Non dimentichiamoci che nella stesura della Riforma dei Cicli progettata da Berlinguer il Tempo Pieno non c’è più, avversato e cancellato per l’ennesima volta.

- Ci sembra dunque evidente che il Tempo Pieno come modello scolastico costituisce la risposta, la più adeguata, che la scuola sia stata in grado di dare ad esigenze forti, a bisogni che nella nostra società sono divenuti sempre più emergenti in questi 30 anni.

- Quali sono queste esigenze? Per quale intreccio di motivi si sceglie e si difende il Tempo Pieno piuttosto che altri modelli? Proviamo a vederle queste esigenze, coscienti che percezioni, realtà, potenzialità, desideri si intrecciano a fermare il filo che lega 30 anni di esperienze.

- Prima di tutto, emerge il bisogno sociale di tempo lungo, legato alla necessità assoluta di due stipendi per famiglia. Una necessità che è cresciuta esponenzialmente in questi anni, tanto per l’aumento continuo del costo della vita, quanto per il diffondersi della famiglia mononucleare.

Insieme a ciò, e di segno diverso, il tempo lungo risponde alle esigenze della donna di conquistare spazi e tempi per sé, per le sue scelte, per la sua attività e di non essere più la "casalinga" la cui unica dimensione è la famiglia e la casa.

- Ma il tempo lungo del Tempo Pieno è un tempo particolare, progettato, complessivo, intenso, è Comunità Educante.

Per questo viene scelto, mentre genitori e insegnanti accolgono con gioia la fine del dopo-scuola e in ogni modo ne ostacolano le varie "resurrezioni".

Perché??

- Proprio il fatto che il Tempo Pieno sia Comunità Educante, progetto complessivo che abbraccia ogni momento della vita scolastica, costituisce una risposta potente ai bisogni di una realtà sociale sempre più segmentata e disgustata, nella quale aumenta la richiesta dei genitori di una scuola dove il bambino viva una dimensione di comunità, ricca di relazione e progettata a sua misura in ogni suo spazio e passaggio.

- La relazione forte che caratterizza la classe a Tempo Pieno (due insegnanti su un gruppo classe) permette all’insegnante di darsi come riferimento forte e intenso, dinamico e propulsivo per costruire/ricostruire la separazione e il legame dei ruoli adulto/bambino. Ciò rappresenta una risposta mirata alla debolezza e all’incrinatura che oggi il ruolo adulto e la relazione adulto-bambino hanno sempre di più in una situazione sociale in cui i tempi di vita e di relazione sono velocificati, frammentati, svuotati.

- Anche per la relazione con i pari il Tempo Pieno costituisce una risposta precisa ad una dimensione di vita, nelle nostre città, dove i bambini vivono sempre più separati, senza il gruppo, nel quale sperimentarsi e crescere, con l’immaginario soffocato dalla televisione e dal computer. Il gioco libero a scuola, la socialità di gruppo che il Tempo Pieno offre e progetta sono spesso per i bambini l’unico spazio per vivere e confrontarsi nel gruppo che essi incontrano fino all’adolescenza. Il sentimento dell’infanzia è una costruzione storica, sempre più in sviluppo, che riconosce al bambino il diritto al tempo del gioco e dell’esperienza personale per poter vivere la propria età.

- Nell’epoca del bambino disorientato culturalmente e socialmente, cognitivamente e affettivamente, la scuola a Tempo Pieno offre una struttura organizzativa elastica, dove i tempi distesi, la contitolarità di due insegnanti e 4 ore di compresenza permettono un apprendimento di tipo manipolativo, sperimentale, euristico che in strutture orarie rigide diviene impossibile o votato a risultati minimi.

A proposito di quello che succede intorno alla scuola. E poi vi entra e la connota.
Andrea Bagni ("école", Firenze)

Forse non è male partire dalla consapevolezza che viviamo in tempi eccezionali. In una situazione d’emergenza non solo della scuola, ma di tutto il contesto che la circonda e con cui "respira" – o soffoca.

I tempi eccezionali sono quelli di una possibile tragedia (politica, culturale, scolastica) ma forse anche di una possibile svolta: altrettanto politica culturale scolastica. Anche nel senso, per esempio, che non basterà tornare nu giorno a prima del berlusconismo o della Moratti. Quel prima assomigliava già molto (troppo) al dopo. Forse lo ha, in qualche misura, prodotto. In questo senso è vero che non si può fare una riforma della scuola ogni cinque anni: voglio dire che è vero che non basterò cambiare qualcosa e aggiustare qualcos’altro del fare scuola e "fare riforma". Occorre proprio cambiare sguardo: modalità forme paradigmi con cui pensare la scuola. Con cui fare politica e fare società. Costruire rapporti.

Forse può essere utile vedere in questi tempi terribili di guerra globale, nel dominio assoluto di ciò che è legge di mercato e amministrazione paramilitare della vita collettiva, anche una occasione (l’unica realistica forse) di costruzione politica di relazioni fra diversi/e, di spazi pubblici per il confronto e il discorso comune. Nella scuola, nella società aperta, nell’Europa in costruzione (possibile luogo nuovo di diritto post-stato nazionale) un’occasione per la pace – che non può essere nell’ingiustizia e nell’esclusione garantitta dagli eserciti.

Vorrei allora partire dalla mia esperienza, dai luoghi che ho attraversato e in cui sono stato in questi ultimi tempi, che non sono solo luoghi di scuola ovviamente. La riflessione che voglio fare arriva alla scuola, ma da un orizzonte più largo. Conta per me il lavoro nella rivista école, l’incontro ormai antico con l’autoriforma gentile, ma soprattutto il movimento che nel 2001 da Genova è cresciuto in tutta Italia e rappresenta un’esperienza politica straordinaria.

Il nodo è: nella scuola e fuori che cosa vuol dire fare politica oggi, nella condizione attuale della scuola morattiana e della società berlusconiana, della sua (s)composizione e delle sue relazioni. Il nodo è anche il rapporto o non-rapporto tra sfera delle istituzioni, della rappresentanza, e sfera dei movimenti, delle esistenze politiche e delle insorgenze sociali, nella scuola e fuori.

Nell’esperienza fiorentina del movimento, ma anche a livello generale mi sembra, vive un antico conflitto, e una possibilità. Conflitto tra la modalità politica vertenziale dell’avanguardia di lotta, della sigla sindacale spesso in competizione con altre, che ha il compito di sensibilizzare gli altri "che non si sono ancora accorti"; e l’atteggiamento invece "mediatico", cauto, che si fonda sull’idea che la politica si fa dal basso ma per acquisire i consensi e poi finalmente vincere le elezioni, farsi stato e governo e, una volta giunti ai vertici, cambiare la società dall’alto.

Io penso che questi modelli in un certo senso classici della politica novecentesca non vadano più bene. E qui sta l’occasione. Non sono ripercorribili quelle strade che abbiamo conosciuto: né la strada di una sorta di autonomia del sociale, modello pedagogico dell’avanguardia di lotta che deve illuminare gli altri, smuoverli, aggregarli e poi condurli alla vittoria; né la vecchia nozione di autonomia del politico dove quello che conta è quello che avviene nella sfera del palazzo, un luogo di rappresentanza che è diventato di rappresentazione del potere, meccanismo autoreferenziale che ha perso qualunque rapporto con la dimensione esistenziale della politica.

Non sono ripercorribili queste strade e non bisogna neanche averne nostalgia. C’è bisogno di una nuova nozione e pratica di politica.

Per certi versi la destra è stata più consapevole e più rapidamente di questa trasformazione, perché la sua forza non sta solo nel possedere il monopolio degli strumenti di comunicazione di massa, ma nel fatto che la grammatica del suo messaggio assomiglia già strutturalmente alla forma destrutturata della società. Alla sua sintassi frammentata. La vita delle persone e le loro relazioni sociali sono già organizzate come in un palinsesto televisivo, e sono "solitudini globali" in competizione tra loro, tenute insieme dalla rete degli ipermercati e dell’essere telespettatori, l’unico vincolo sociale che si vorrebbe rimanesse. La forma del potere non è solo la repressione e il controllo delle insorgenze sociali, ma si esercita già nel produrre le soggettività in quella forma particolare e inerte, connotata da relazioni frantumate e frammentate. (Non a caso è abbastanza difficile definire Forza Italia un partito; sembra più una rete commerciale tipo franchising, un marchio con centri vendita dispersi sul territorio).

Secondo me, nel disastro, la strada è ricostruire le pratiche di un altro tipo di società immediatamente politica, connotata nella sua grammatica profonda da relazioni né solo private né solo istituzionali, uno spazio pubblico (quello della repubblica) interfaccia tra domus e ecclesia, luogo comune che è territorio, piazza, scuola: agorà. (Si potrebbe ripensare anche all’importanza di un altro concetto antico come quello di "stato di diritto", che garantisca degli spazi agibili per un fare società che sia immediatamente fare politica).

In questo senso anche il concetto di non violenza (di cui si è tanto discusso) e di Europa, può essere davvero prezioso, perché nel momento in cui la politica – quella degli stati e degli eserciti - produce l’incubo di una società di fondamentalismi gli uni contro gli altri armati, e di religioni le une contro le altre armate, lo spazio in cui agire diventa quello forte della sua "debolezza" di una non-potenza non-militare. Bisogna ripensare quella che una volta è stata definita possibilità di un’autoriforma della politica, l’apertura e il tessuto di uno spazio del discorso.

A proposito di quello che succede dentro la scuola e entra nelle esistenze di chi la abita.

Ma la scuola poi cosa c’entra in tutto questo?

C’è un disastro molto simile a quello che investe la società, il disastro di una scuola destrutturata e insieme tecnicizzata, progettata sul lavoro postfordista come lavoro sempre più frammentato, precario, incerto, ricco di sapere magari, ma di sapere povero e solo strumentale; una scuola come educazione alla docilità della nuova forza lavoro, all’adattamento flessibile alle esigenze sacre del mercato del lavoro. Non all’autonomia. Una scuola che si fa simile al peggio del lavoro (anche in molta riflessione della sinistra), che per essere legata alla società si frammenta, si fa somma di segmenti, di conoscenze "usa e getta", di progetti e progettini dove il genitore–cliente sceglie gli elementi e la formazione è la composizione di questi segmenti di sapere che devono essere tali da ingranarsi gli uni con gli altri, sempre più tecnicizzati e omologabili. Dunque bisogna avere sempre più prove d’ingresso, "competenze" d’uscita, certificazioni che devono già definire una sorta di sapere astratto, riconoscibile dappertutto ed equiparabile.

Insomma se le attività direttamene produttive si sono fatte sempre più flessibili segmentate precarie, allora la formazione dovrà essere simile: breve, modularizzata, componibile come una cucina ai desideri del cliente. Privatizzata nella sua "anima", anche se "pubblica" dovesse restare la ragione giuridica dell’ente gestore (e non resterà).

Nella società del rischio e dell’insicurezza, il sapere diventa "capitale conoscitivo" da acquistare individualmente e da spendere sul mercato del lavoro come opportunità di affermazione personale: patrimonio delle "risorse umane" nella competizione sociale.

Finisce che una costruzione di conoscenza che ha carattere qualitativo e relazionale dalla scuola materna fino all’università (legata a contesti significativi e a un senso condiviso) diventa un bene quantificabile, da tradurre in segmenti da certificare (perché già certificabili nella loro struttura) in un port-folio o libretto formativo che mette a valore tutta la propria vita (già quella dei bambini e delle bambine...), tradotta in crediti, ridotta ad una misura astratta e dunque economicamente riconoscibile.

Allora ecco l’autonomia scolastica (che alcuni, molto ottimisticamente, considerano luogo privilegiato di una possibile opposizione alla Moratti) ridotta ad organizzazione verticale, aziendalistica e insieme neofeudale (fondata su vincoli di fedeltà personale al "signore" dirigente), come in un fast food del sapere o catena di montaggio (e smontaggio) delle biografie professionali.

Accanto a questo, inoltre, è cresciuta qualche anno fa la proposta "speculare" di una scuola per così dire "assistenziale" (quella dei CIC) che pensava di curare il pomeriggio come una sorta di sportello d’ascolto (termine economico, come tanti altri oggi utilizzati dalla scuola: crediti, debiti da saldare, port-folio, libretto ecc.) il disagio che produce la sua dimensione buropedagogica, da megamacchina dei voti, del mattino: ancora al fondo ultracontenutistica, modello dare–avere delle conoscenze; ancora il classico versare "cultura" nelle teste ritenute vuote per poi misurare il restituito... (ma che poi, magari agli esami di stato, si accompagna quasi necessariamente all’accontentarsi dei docenti di un minimo assoluto, di una marmellata indistinta di contenuti...).

Mi sembra che alla fine gli/le insegnanti tendano ad una depressione profonda, oppure inclinino a una pedagogia "nera" di micropoteri un po’ miserabili da gestire magari agli scrutini. Ritorna anche forte la tentazione del "disciplinarismo", l’autorità di un tempo oggi perduta, da ritrovare e far derivare dal carattere alto e altamente formalizzato del sapere da trasmettere: tutto giù compiuto, solido, consacrato dalla tradizione. Insomma, ancora da fuori della scuola e da sopra di noi.

A proposito di quello che esiste nella scuola, resiste ed esce nel mondo che la circonda.

Finisce che per trovare segni di vita nella scuola (in particolare nelle superiori) bisogna forse lasciarne perdere la dimensione istituzionale (riforma, organizzazione didattica, pof) e cercare in microspazi come quelli della classe – le relazioni con ragazze/i, il lavoro concreto su certi contenuti con certe pratiche – e nei piccoli gruppi di insegnanti affini; oppure in macrospazi, ad esempio quelli del movimento per la pace: le piazze di questi anni, Genova 2001, Firenze 2002, le bandiere alle finestre, le carovane, Roma 20 marzo... La ricerca in fondo di una dimensione esistenziale della politica. Qui mi pare sia il contatto con la scuola di tutti i giorni: nella soggettività e nelle passioni, nel coinvolgimento effettivo, nell’esserci delle esperienze. Qui le due dimensioni micro e macro s’incontrano forse, nel costruire senso a partire da sé e dal luogo dove si è. E quello che accade a scuola acquista un senso politico straordinario.

È la scuola come luogo pubblico e "politica prima".

Ed è qualcosa che ha a che vedere ovviamente col sapere. Non è altra cosa, in un certo senso, dal fare scuola. Per questo bambine e bambini hanno invaso le piazze: perché costruire conoscenza è stare in un certo mondo di relazioni. Il sapere ha senso nelle trasformazioni di oggi se è aperto, non separato ancora una volta dalle pratiche e dalle forme della sua costruzione. Un incontro fra generi e generazioni diverse, attraversato dai dubbi e dai desideri di ragazze e ragazzi, in grado di aprire le discipline alle domande "dall’interno" delle discipline stesse. Indisciplinate. È un sapere anche questo pubblico: né di famiglia, né di mercato, né di stato o ministero. Un sapere critico per un luogo che è di frontiera, cioè consapevole che si costruisce fra punti di vista diversi che cercano tuttavia un mondo comune. Altrimenti si finisce per ridursi ad essere una agenzia formativa fra le tante che preparano alla competitività individuale sul mercato del lavoro. Qui invece è possibile cogliere l’occasione – nella crisi postfordista del valore di scambio del sapere – per l’affermazione del suo valore d’uso. Formare alla società esplosa delle biografie aperte, non all’occupabilità o alla gestione oculata del proprio capitale conoscitivo, da parte di una nuova forza lavoro precarizzata, ma alla navigazione autonoma nel mare aperto della postmodernità.

Perché se è vero che oggi il sapere è forza produttiva, che conoscenza linguaggio comunicazione sono messe al lavoro, quella che viene tradotta in lavoro è una conoscenza operativa minima e miserabile; che non si vuole affatto sia formata nelle scuole o nelle università (almeno non in quelle che abbiamo conosciuto fino adesso) e ha orrore di una dimensione personale e critica; neppure ha bisogno di tempi e spazi distesi, lenti, specifici. Si tratta di una alfabetizzazione estesa quanto piatta, priva di profondità; flessibile e polivalente quanto incapace di scavare e approfondire, diffusa per contatto e assimilazione sociale. Comporta l’accettazione del mondo, il vivere senza passato in un presente assoluto, in chiave di adattamento e adesione all’esistente.

Alla scuola chiede davvero il capitale poco più che controllo e socializzazione. Una sorta di prima esperienza "formativa" di adattamento alla mega-macchina buropedagogica, distributrice di pagine e voti, debiti e crediti – come una fabbrica fordista del sapere di massa: luogo di moduli da assemblare, test da somministrare, certificati da certificare, rendimenti da misurare; tutto in termini rigorosamente quantitativi e prestazionali. Una via di mezzo fra fabbrica, caserma e "parco giochi" di formazione del consumatore: istruito ai libretti d’istruzione e alla ideologia della subordinazione.

Bisognerebbe lavorare nella scuola per un altro sapere – aperto, informale, pubblico, capace di critica dell’esistente; bisognoso di tempi lenti e luoghi ravvicinati relazionali... Un sapere che costituisca sovversiva eccedenza culturale. Che operi traduzioni e sia capace di selezione fra la miriade di informazioni che ormai costituiscono rumore di fondo; una formazione di base e comune, disinteressata quanto interessante quando le conoscenze che sono impiegate nelle professioni invecchiano a ritmi che la scuola non può inseguire; una conoscenza che sia sistema operativo (linux meglio di windows) su cui poter far girare i nuovi programmi, piuttosto che professionalizzazione precoce che ha senso solo come rassegnazione e futura fedeltà all’azienda, nuova unica "famiglia" possibile.

Allora la battaglia politica di questi mesi sul tempo pieno non è solo un conflitto sindacale-vertenziale, pure fondamentale.

Le iniziative sono state le più varie, dalle occupazioni di scuole ai banchi nelle piazze e nei cortili di scuola, alle invasioni di giardini e paesaggi urbani, alle "merende informative".

Sono apparse dai racconti disseminate, puntiformi e curiosamente domestiche; ispirate al portare alla luce quello che si fa fra le mura scolastiche: il dialogo, l’incontro, la costruzione di un discorso (e allora canzoni cartelloni manifesti...).

Voglio dire che non ci sono state forse grandi organizzazioni dietro e il cuore di tutto è oltre le piattaforme. Sono i soggetti stessi che abitano ordinariamente le scuole, che difendono (e producono) il loro senso e i loro territori.

È come se dalle scuole fosse venuto quasi l’esempio non solo di cos’è una scuola – dei suoi ritmi, delle sue relazioni di cura e attenzione, delle sue forme non ingegneristiche di costruzione del sapere, non puramente trasmissivo – ma un po’ l’esempio anche di un altro modo di fare politica, a partire dal fare polis. La scuola come la piazza, il "corso" del paese, la casa del popolo... Un luogo di relazioni che costruiscono una comunità (e non di sangue e suolo). Né solo merci, né solo telespettatori, né masse indistinte pronte ad essere arruolate in eserciti o aziende. Singolari esistenze politiche. Per questo capaci di resistenza.

In fondo è del tutto naturale che le scuole - soprattutto quelle di base - siano luoghi pubblici di incontri che si sottraggono alle trasmissioni dall’alto, alla frammentazione gerarchica di insegnanti e insegnamenti, crediti e port-folio. O sono altro da questo, o non sono niente di decente.

Ma non si tratta più solo di sommare le proteste e portarle a sintesi, quanto di riconoscere e partire nelle pratiche e nelle analisi da un percorso di esperienze e soggettività ricche e radicate sotto la visibilità delle manifestazioni - più forti mi sembra anche dei casini tradizionali delle leadership, di partito sindacato movimento. Qualcosa che ha a che vedere con la lunga durata dei processi, e con l’autonomia dei soggetti.

Si tratta di costruire non solo barricate ma territori. Già dotati di senso e cioè radicalmente conflittuali, di questi tempi.

In fondo è un’esperienza d’incontro generazionale, di sapere e di scuola. Elementare.

Tempo
Tempi della crescita / tempi della scuola

Renata Puleo (Dirigente scolastica, Roma)

… L’uomo sostanzialmente, propriamente, è esistenza, modi di esistere,
come propria storicità, come essere che genera
il suo tempo. 
[Martin Heidegger Essere e tempo]

…Io potevo solo immaginarmi il campo di concentramento, perché in certi limiti
lo conoscevo, mentre l’inferno no…e se dovessi immaginarlo (l’inferno)… allora
lo immaginerei come un luogo dove non ci si può annoiare mentre in campo
di concentramento…era possibile, lo era persino ad Auschwitz… "E come te lo spieghi?"
E allora dopo averci riflettuto ho detto "Con il tempo"…
[Imre Kertész, Essere senza destino]

Due citazioni in apertura, quella notissima del filosofo tedesco a fianco di quella tratta dal romanzo dello scrittore ungherese, premio Nobel 2002, per introdurre un tema difficilissimo. Mi ci avventuro perché il discorso del tempo ricorre continuamente nei dibattiti sul lavoro, sugli stili di vita, sulla scuola, senza essere mai davvero messo a tema! Tranne, come dirò, in alcune riflessioni filosofiche un po’ di nicchia, che non arrivano al grande pubblico, nel senso non solo di chi è destinatario di informazione mediatica, ma anche di chi ragiona politicamente, nello spazio pubblico.

Il tempo di Gyurka, il giovane protagonista del libro di Imre Kertész, è un tempo piatto, privo di forma, interiore e sociale, privo di apertura, di progetto e di utopia. È il tempo imploso della vita ridotta alla nudità routinaria dei bisogni primari. Una vita angustiata, nel senso etimologico. E’ il tempo ridotto a funzione elementare, in un drammatico arresto non casualmente analogo a quello toccato, nel lager, alla lingua. La lingua, quella materna degli internati, ma anche il tedesco rozzo, performativo del lager, subiscono la sorte di tornare ad una babele prelinguistica, più grido che lingua. Se non c’è lingua non c’è tempo, perché il tempo è infisso nello spazio fra l’essere in "potenza" di parlare e l’atto di parola, l’enunciazione.

Questo lo dico anche in sintonia con un bellissimo numero della rivista Adultità, intitolato " Tempo per sé", a cui in questo intervento spesso farò riferimento, anche implicito. Duccio Demetrio nella prefazione, dopo aver avvertito il lettore che gli articoli sono tutti dominati dal concetto di alterità, afferma: "chi pensasse di imbattersi in scritture dedicate al tempo radicalmente personale – il tempo interiore – in quanto tempo per sé, resterà stupito nel notare che la relazione è la grande dominatrice del tempo…il tempo che è per sè, è con gli altri…". Dunque tempo dialogico potremmo dire? Tempo della parola, dello scambio, tempo della lingua? Altri in questo convegno parleranno della relazione e la lascerò dunque di sfondo.

Poiché non sono una filosofa, né una storica, ma qualcosa di molto più vago e sincretico, quello che dico lo dico a partire da una esperienza di lavoro e di riflessione, dal lato di un agire quotidiano. Diceva Hanna Arendt - si parva licet…- il desiderio è comprendere. In questo sta il nucleo di questa mia ricerca sul tempo. Come ho imparato dal movimento delle donne, dal pensiero della differenza, è una filosofia minore quella che voglio provare a mettere in campo con voi, o meglio, una politica prima, vale a dire che nasce da una pratica. Anche se ora io le creature piccole le vedo un po’ di sguincio, non posso smettermi di interrogare su quello che faccio e che vedo fare, soprattutto dalle maestre, dai maestri. Insomma, vorrei parlare del tempo della scuola fuori dalle ideologie semplicistiche, se mi riesce, anche se è spesso impossibile in questi tempi bui di contrapposizioni frontali, necessariamente poco argomentate.

Ragionare sul tempo umano, obbliga a vederlo come fattore determinante rispetto agli stili di lavoro e quindi di vita, dei differenti soggetti, non appiattendoli sotto l’aggettivo generico di "umani". Uomini, donne, nuclei famigliari, persone sole, e persone che vivono con più o meno felicità e sofferenza con altre/i, bambine, bambini. Ci sono somiglianze come dirò più avanti, ma ci sono differenze, di genere, di età, di culture. C’è il tempo incarnato delle donne, c’è il tempo del saggio in meditazione, c’è il tempo digitale dei cyborg, c’è il tempo messianico, il sabato dell’ebreo praticante.

Voglio partire dalle donne. Fatte salve le distinzioni anche qui fra generazioni e culture, il tempo delle donne non perde mai di vista il corpo e la relazione fisica, in presenza, con l’altra/o da sé.

Barbara Mapelli, articolando una riflessione su tempo e amore, dice che per gli uomini il momento vitale, cosciente, attivo, la terra promessa, è il lavoro. Ad esso commisurano il loro tempo di vita. Rapporti con la casa, i figli, la donna amata sono pause, pause dal lavoro. Molto spesso anelate, desiderate, ma pur sempre vacanza – uno spaziovuoto – dal lavoro. Ricordava Carla Lonzi, <<…l’immagine che l’uomo ha di sé è fuori dal rapporto, mentre la donna vive se stessa "nel" rapporto…>> . La donna conosce il bisogno che ha dell’altra/o, l’uomo vede crescere se stesso, in autonomia. Almeno così deve pensarsi. E’ ovvio che questo articola modalità diverse di vivere i tempi dell’amore e della relazione. La donna conosce l’attesa. Sa aspettare, perché il suo corpo aspetta la mestruazione ciclica; conosce la fine della gestazione e il distacco; conosce i tempi – che paiono talvolta non finire mai!- della cura prodigata all’inermia infantile.Una donna conosce la frattura provocata dall’uscita dall’età procreativa segnata nel corpo e alla quale è impossibile non pensare, come invece può accadere ad un maschio. La donna conosce il tempo di vita quotidiano come centralità delle piccole azioni indispensabili al mantenimento della vita altrui, ne conosce il sovraccarico e l’invasività. (Fuori dalla retorica dell’appello del presidente Ciampi l’8 marzo scorso, una donna della classe media che lavora in casa e fuori ha una settimana di oltre sessanta ore lavorative!).

Ma quello che vorrei mettere a fuoco è che il tempo delle donne intreccia la temporalità infantile.

Nel tempo destinato alla cura, donne e creature piccole vivono insieme le esperienze tipiche della neotenia. Diceva Arnold Gehlen che essa è la specialità umana di non essere specializzati, bensì versatili, capaci di apprendimento, aperti al nuovo. Il timing dell’allattamento, del ritmo sonno-veglia, dello svezzamento, come pratiche animali eppure sempre contrassegnate simbolicamente dal desiderio reciproco di stare in relazione, di mangiare per amore dell’altra, di dar cibo per desiderio di vedersi al centro di quella riconoscenza, nel senso più ampio del termine. L’apprendimento della Lingua Materna, anche qui questione di tempi, ritmi, scansioni, pieni, vuoti, suono e silenzio. Non mi ci soffermo, anche se è argomento a me molto caro. Ricordo solo che anche a scuola, la massiccia presenza femminile, tiene ancora intrecciati cura, tempo, lingua. Anche quando ce n’è scarsa consapevolezza.

Quando una creatura piccola gioca, tutta presa dallo spazio concluso del gioco stesso, il suo tempo non appartiene più al normale fluire della giornata. Quando osservo bambini giocare, io ricordo con precisione fisica, l’emozione particolare di questo tempo sospeso, nella mia infanzia. Dico emozione non a caso, bensì nell’accezione che alla parola da Antonio Damasio, funzione biologica volta alla conservazione della vita. La mia memoria di quegli eventi è corporea. Percezione, senza elaborazione cosciente. Una chiave di interpretazione di questo fenomeno, senza schiacciamenti sulla primordialità-primitività delle emozioni infantili, ce la può fornire il lavoro di Gustave Guillaume. Studioso raffinato, linguista e filosofo, per molto tempo sconosciuto, almeno in Italia, oggi è oggetto di studio e di approfondimento in contributi di diversa natura, non strettamente linguistica. Se ne parla sia dal lato della filosofia, sia da quello della psicoanalisi. Il discorso ruota ancora sulla connessione profonda fra lingua e tempo. L’assunto da cui partire, secondo Guillaume è che le rappresentazioni spaziali con cui "vediamo" il tempo, la durata, lo scorrimento, servendoci nel farlo di punti, di linee, di segmenti, lo rendono impensabile, cioè lontano dalla nostra intima visione. Per contro se cerchiamo di dare forma al tempo a cui pensiamo, non ci soccorrono rappresentazioni. E’ irrapresentabile. I tempi verbali che tutte le lingue utilizzano, pur in realizzazioni formali differenti, hanno un segmento per il passato, uno per il futuro e in mezzo il "taglio" del tempo presente. Ma questa rappresentazione è insufficiente perché…troppo perfetta! Essa ci presenta un tempo sempre già costruito, ma non ci mostra il tempo in atto di costruirsi nel nostro pensiero: il tempo che la mente impiega per realizzare una immagine-tempo. Freud aveva segnalato il problema contrapponendo la mancanza di temporalità lineare tipica dell’inconscio a quella spazializzata della coscienza. E riconosceva all’ordinamento temporale di essere uno dei motori della evoluzione della coscienza nell’homo sapiens. L’attuale ricerca sulle cosiddette soglie percettive conferma che è come se esistessero due sistemi per processare il tempo. Il primo è di ordine discreto, apre come delle finestre, relative alle nostre esperienze percettive. Il secondo ha il compito di integrarle in una relazione prima/dopo. Ma, aggiunge Francesco Napoletano, psichiatra e filosofo, la processazione del tempo continua a rimanere discontinua e l’orologeria neuronale è di tipo ciclico e oscillatorio. Piaget ci ha insegnato che nel passaggio fra le varie fasi di formazione del pensiero astratto, un tappa importante è proprio quella relativa alla progressiva perdita, intorno all’undicesimo anno, sia del tempo intuitivo, senza rappresentazione della durata indipendente dalla qualità degli eventi, sia di quello eccessivamente realistico, bloccato al dato percettivo e motorio. Aveva torto? No, perché l’educazione accompagna la maturazione del bambino verso un sistema simbolico operatorio, astratto, reversibile. Ma dove collocare il "resto"? Intendo ciò che rimane sfasato, la non coincidenza fra il mio essere e la rappresentazione del tempo, ma anche – come dice Giorgio Agamben- la possibilità che abbiamo di compierla e di afferrarla, questa rappresentazione.La sconnessione avvertita e poi abbandonata per il tempo di Cronos, degli orologi e dei calendari, spiega il ritmo punteggiato del tempo infantile, spesso irriducibile alle regole e alle convenzioni sociali? Forse, questa è una chiave interpretativa. Ma nello stesso tempo adottare questa lettura ci da ragione anche del tempo degli uomini e delle donne adulte, colti quando vivono nel labirinto dei flussi di coscienza, simile a quello delle creature piccole, che però non se ne preoccupano affatto. Adulti che non riescono a stare "nei" tempi, che deviano e non sanno che fare né della estrema flessibilizzazione delle loro giornata, né della estrema macchinazione. Unificati, come accade per la lingua, dall’empasse degli scarti, da ciò che non è perfettamente assimilabile, che rimane fuori dal mondo ordinato della razionalità, dalla perfetta sintonia fra significante e significato.

Se il tempo infantile scorre con questa punteggiatura, attraverso questi stati alterati della coscienza, una coscienza ancora tanto provvisoria per altro, e se questa modalità di elaborare il tempo ci appartiene in una sorta di perenne immaturità adulta, non dovremmo trattare il problema del tempo come una materia fragile e sacra? Nel senso di segreta, umbratile, vulnerabile?

Vengo alla ricaduta pratica, forse utile per un ragionamento sul tempo–scuola, di queste riflessioni sul tema del tempo.

Mentre discutiamo di quanto tempo serve alle discipline, e lo facciamo ormai da anni, su quanto tempo dedicare al pranzo e al dopopranzo, sul tempo delle mamme indaffarate in quelle famose sessanta ore di lavoro…mentre tentiamo di rintuzzare i detrattori della scuola vista come istituzione totale che sottrae bambine e bambini ad un presunto tempo liberato delle famiglie che vorrebbero dedicarsi alle attività vocazionali dei figli, che aborriscono una scuola stile kibbutz, chi si chiede cosa serve ad un bambino per stare bene, a scuola, a casa? Chi si chiede come accompagnare il suo saper essere, oltre e di più, del suo saper fare?

Lascio ad altri relatori e al dibattito di occuparsi della aritmetica della Ministra Moratti. Faccio un passo indietro. Voglio parlare della defunta legge 30/2000, meglio nota come Riforma Berlinguer.

Ho riletto in questi giorni le indicazioni curricolari che accompagnavano quel testo normativo. Riordino, regolamento, atto di indirizzo: anche Berlinguer inciampò, come ricorderete, nel problema della prescrittività dei programmi scolastici, fra dovere per un ministro di emanarli all’interno di una riforma e i vincoli previsti dalla legge sull’autonomia. Il problema venne risolto in forza di una "correzione" della legge. Anche allora mi trovavo nelle file dei critici, non per vizio, ma per passione! Commentai tutto l’impianto sempre a partire da considerazioni sul tempo, sulla scomparsa del modello a tempo-pieno, sulle forzature relative alla continuità fra ordini di scuola. Oggi, mentre metto a fronte gli allegati dei consiglieri della Moratti con le indicazioni curricolari scritte dai "saggi"del centro-sinistra, non posso non notare il baratro culturale che separa le due elaborazioni. Eppure, lo ripeto, anche allora, in quel documento, colto e straordinariamente raffinato rispetto alle attuali produzioni, il tempo era maltrattato. Se ne parlava molto, ma veniva maneggiato come un concetto banale, abbandonato alle accezioni del suo uso quotidiano. Compaiono la parola tempo, e alcune sue declinazioni semantiche, in almeno tre snodi di senso. Nel primo, come fattori della organizzazione: durata della scuola, ore di insegnamento delle discipline e degli ambiti. Nel secondo, come tempo della esperienza di apprendimento, dei suoi "campi", traguardo di sviluppo, ritmi e cicli della formazione in età evolutiva e permanente ("la galera della formazione permanente" ha detto recentemente Paolo Perticari in una intervista, e non era solo una battuta!). Nel terzo, momenti "fermi" (sic) della didattica, declinati puntigliosamente in spiegazione-ascolto-riflessione-rielaborazione-discussione e "altri" (sic) di "decisa operatività". Forse in questo terzo snodo logico si poteva intuire un discorso sui tempi umani e sui tempi delle creature piccole. Ma nelle pagine e pagine di riflessioni sulla necessità di superare ciò che è obsoleto - ancora un intrigante concetto temporale! – sull’importanza di educare le nuove generazioni al tempo rapido della produzione, non ricordo una sola parola sulla temporalità dei bambini, degli adolescenti, degli adulti imprigionati nel migliore dei mondi possibile. Adulti e creature piccole catturati dalla tecnologia fattasi ambiente, contesto saturo, in cui malleabilità e conservazione, dotazioni prettamente umane, rischiano il soffocamento. Pensai, ricordo, alla scuola anarchica, eppure rigorosissima, di Don Milani, a quella della maestra del film "Del perduto amore". Scrissi allora in un articoletto, che una buona maestra non ha fretta, asseconda il tempo dell’attesa. Non è ossessionata dal risultato, ma si stupisce sempre quando raggiunge un traguardo di conoscenza, costruito insieme ai bambini.

Concludo con un breve inciso sulla età evolutiva che secondo i neuropsichiatri arriva fino a 18 anni.Oggi sappiamo che la combinazione fortunata di biologia, di cibernetica del II ordine (quella del rapporto circolare fra osservatore e osservato, per semplificare) e di sguardo ecologico sulla vita di ogni creatura, ha prodotto un pensiero complesso sull’età della crescita, sulla maturazione, sulla adultità, sulla maturità. Mi riapproprio dell’aggettivo "punteggiato" che Stephen Gould attribuì ai diversi equilibri raggiunti durante l’evoluzione di una specie. Me ne approprio in metafora, come fece Gregory Bateson quando raffrontò l’evoluzione della vita sul pianeta, della specie uomo in particolare, all’apprendimento. Durante ogni singola vita non tutto è necessario ad un buon adattamento. Un buon adattamento è spesso una iattura nella vita umana. Gli esseri umani sono capaci di quella flessibilità di cui parlava Gehlen, e di resilienza, che ho chiamato, non impropriamente, capacità di conservare. La resilienza è infatti la possibilità di continuare a consistere nella medesima forma malgrado le sollecitazioni e gli urti. Molto di ciò che facciamo, o che semplicemente ci accade nostro malgrado, è contingente ed è casuale. Non tutto serve. Forse, senza eccesso di nichilismo, nulla serve davvero a qualcosa. E dunque, ripetere, mettersi nel circolo di una esperienza interiore, meditare, non fare nulla, sognare: perdere tempo, in una sola locuzione. Se fosse questo quello che ci insegna l’età evolutiva con i suoi scarti, i suoi sbalzi, le sue fratture, le sue inimmaginabili continuità analogiche?

Mi rendo conto di aver lanciato a spaglio molte idee, appena abbozzate. Ma l’ho detto, parto da me, dal mio bisogno di capire. Di capire perché ho sorriso soddisfatta quando un insegnante inglese mi ha detto, vedendo dei bambini in cerchio che discutevano su un piccolo tappo in galleggiamento: noi non avremmo mai tempo di fare questo, abbiamo gli obiettivi settimanali da rispettare! Oggi, forse ho poco di cui compiacermi. A meno che anche gli insegnanti non ribadiscano, come ho letto in uno slogan dei medici in lotta: "Siamo maestre, siamo maestri, non ragionieri!".

BIBLIOGRAFIA MINIMA
Giorgio AGAMBEN Il tempo che resta Bollati Boringhieri, Torino 2000
Gregory BATESON Mente e natura Adelphi, Milano, 1984
Felice CIMATTI La scimmia che si parla Bollati Boringhieri, Torino, 2000
Antonio DAMASIO Emozioni e coscienza Adelphi, Milano 2000
Duccio DEMETRIO Elogio della immaturità Cortina, Milano 1998
Francesco NAPOLITANO Lo specchio delle parole Bollati Boringhieri, Torino 2002
Paolo VIRNO Il ricordo del presente Bollati Boringhieri, Torino, 1999
ADULTITA’ n 18 ottobre 2003 Tempo per sé, Guerrini Associati, Milano

Prima del Tempo pieno: La scuola integrata
Cristiano Corsini (Dottorando, Roma)

Gli anni ’60 hanno un’importanza fondamentale nella storia del Tempo pieno. E’ in quel decennio infatti che si definisce il modello educativo della Scuola Integrata, definita così da Giacomo Cives, uno dei suoi più grandi sostenitori: Scuola completa di tutti i servizi sociali e specialistici, promotrice di esperienze di vita comunitaria e educatrice in un arco di tempo e per una serie di attività che non siano soltanto quelle 4-5 ore del mattino e del memorizzare le nozioni prefabbricate delle lezioni stereotipate e convenzionali dei libri di testo. Una scuola dei tempi distesi, garanti della scansione armonica di una pluralità di momenti educativi.

L’integrazione era chiamata a rendere effettivo il passaggio da una concezione liberale (liberista) a una democratica del rapporto tra scuola e istituzioni: dall’obbligo scolastico al diritto allo studio, al decondizionamento e alla partecipazione. Con ciò, gli anni ’60 sono gli anni della saldatura tra istanze educative e istanze sociali, culturali e politiche: la stessa saldatura che avrebbe permesso la concreta affermazione del modello di scuola a Tempo pieno.

1) LE ESIGENZE SOCIALI (anni’50-’60)

a) Estensione Quantitativa

Le trasformazioni del tessuto sociale e urbano dal secondo dopoguerra determinano lo spalancarsi di un "vuoto educativo" nella giornata degli alunni. Emergono così sia la richiesta di una estensione quantitativa dell’offerta scolastica pubblica che le polemiche nei confronti della debolezza dell’impegno statale in campo assistenziale, subordinato rispetto alle iniziative locali e private.

Una prima, velleitaria risposta statale era il doposcuola–parcheggio. Ma il pomeriggio trascorso a scuola aveva un’impronta caritativa e custodialistica, non educativa.

2) LE ESIGENZE EDUCATIVE (1960-1967)

a) Estensione Qualitativa

Si comincia a proporre il recupero educativo del tempo pomeridiano, con l’inserimento di attività partecipative e comunitarie. Un esempio: la scuola integrata di Milano.

b) Trasformazione Complessiva della scuola, saldatura tra esigenze sociali ed educative.

Al fine di scongiurare una scuola dualistica (attività "serie" al mattino vs attività creative il pomeriggio), si propone di armonizzare la giornata educativa con una scansione equilibrata di una pluralità di momenti educativi. Le istanze di creatività, vita comunitaria, autoapprendimento, travolgono così anche la scuola del mattino, fin lì unidimensionale perché intellettualistica e individualistica.

Le integrazioni proposte dal nuovo modello di scuola non erano solo educative (mattino-pomeriggio, "compito"-gioco ecc…) o interne alla scuola (integrazione non gerarchica tra gli educatori), ma anche culturali e politiche: integrazione tra scuola e ambiente (scuola come centro di produzione culturale dislocato nella comunità e strumento di decondizionamento), tra comunità e scuola (gestione democratica dell’istituto aperta all’esterno).

 

Tutor. Il principio gerarchico VS la scuola della collegialità.
Diana Cesarin (Segretaria naz. MCE)

dalla audizione dell’MCE alla commissione cultura del Senato

"[...] Sulla funzione docente

Il decreto prevede la possibilità per le istituzioni scolastiche di stipulare contratti di prestazione d’opera con esterni per garantire le attività educative e didattiche. Contemporaneamente le Indicazioni Nazionali prevedono la cancellazione dell’organico funzionale di circolo. Già è in atto una diminuzione dei tempi di contemporaneità e delle risorse professionali per specifici progetti. L’impressione è che l’organico di istituto non potrà che garantire, di fatto, solo una copertura d’orario attraverso un insegnamento di tipo frontale.

Si delinea una nuova figura di insegnante, con specifica formazione, con funzioni di orientamento, tutorato, coordinamento, cura delle relazioni con le famiglie e della documentazione del percorso formativo.

Dalla pratica di lavoro cooperativo che caratterizza la nostra associazione ci viene la consapevolezza che le diverse esperienze, competenze e perfino le propensioni individuali degli insegnanti possono alimentare un percorso comune funzionale alla messa a punto ed alla gestione, come regia educativa, di un progetto condiviso. Esse non devono fungere da base per processi di deresponsabilizzazione, di delega, di gerarchizzazione.

E’ auspicabile piuttosto che siano valorizzate sia in termini funzionali che economici all’interno di un quadro che salvaguarda le condizioni perché il team docente possa operare in una dimensione di ricerca-azione fondata sull’attenzione ai soggetti e ai loro bisogni formativi, sulla organizzazione di contesti di apprendimento, sulla riflessione sull’esperienza che permette la valutazione e la ri-progettazione dei percorsi. Vi sono situazioni in cui si stanno positivamente sperimentando forme di co-didattica e percorsi di co-progettazione

La messa a fuoco di funzioni di coordinamento, così come una precisa assunzione di responsabilità in riferimento a progetti specifici, già peraltro diffusamente attuate, sono senz’altro opportune per la piena realizzazione dell’autonomia scolastica, e necessitano della destinazione di precise quote di orario di servizio e di forme di riconoscimento economico.

Ci pare invece necessario ribadire che il tutorato e la presa in carico di ciascun alunno e dei gruppi classe sono elementi fondanti la professionalità di tutti i docenti.

Per quanto riguarda la figura degli esperti prestatori d’opera, qualora essa risultasse approvata, noi chiediamo che, nel tentativo di arginare una possibile, negativa, tendenza alla frammentarietà degli interventi, sia prevista la partecipazione di queste figure all’elaborazione del piano dell’offerta formativa e a tutte le attività di programmazione e valutazione che impegnano il corpo docente. Attività che, a nostro avviso, vanno garantite, riconosciute e implementate.

In un mondo che si caratterizza per l’incertezza, per la frammentarietà delle esperienze, per l’acuirsi delle differenze è importante che la scuola mantenga e coltivi una dimensione ermeneutica, una capacità di costituire una struttura che connette e che permette l’elaborazione del senso. Una condizione perché ciò sia possibile risiede nella partecipazione dei diversi operatori della scuola ad un progetto condiviso che sappia interpretare in modo alto e qualificato l’autonomia scolastica. [...]"

L’aritmetica delle ore...
Bruno D’Amore (Docente di didattica della Matematica, Univ. Bologna)

Il tempo pieno è una conquista importante, civile, sociale e didattica, conquistata a seguito di profonde analisi e ricerche critiche, un fiore all’occhiello per un Paese che, pur facendo ora parte dei "grandi della Terra", esce però da situazioni catastrofiche solo da mezzo secolo.

Il tempo pieno può essere distrutto da subdole leggi che pur ne affermano la permanenza in vita; basta saper eseguire somme e confronti tra cifre, per verificare che potrebbe essere ucciso dall’aritmetiche delle ore.

Eliminare questa conquista sociale e didattica sarebbe un vero e proprio crimine contro la scuola, contro l’intelligenza, contro la sensibilità.

Tempo Pieno: riproposta necessaria
Andrea Canevaro, Università di Bologna

Quando iniziò il tempo pieno come proposta per una scuola che si rinnovava il ragionamento era anche legato alle difficoltà che le famiglie ridotte a pochi membri potevano avere di offrire a chi cresceva una molteplicità di occasioni utili, indispensabili proprio per la crescita. Per questo si pensava: il tempo pieno deve coprire esigenze ampie e poter rispondere non solo a quelle dell’apprendimento formale ma anche alla possibilità di creare competenze sociali: comportamenti di cooperazione, capacità di organizzare spazi, tempi, di mangiare insieme, ad esempio, di giocare, naturalmente, ma anche di studiare, organizzandosi, in tempi in cui lo studio non dovrebbe essere diretto ma organizzato.

Questa ipotesi portò ad esperienze molto qualificate, importanti, e si cambiava la scuola insieme alla società, cercando di dare con l’impegno scolastico una risposta a problemi che si aprivano nell’organizzazione della società: dall’organizzazione del lavoro a quella dei trasporti, a quella abitativa. Si delineava una società molto spezzettata e il timore era quello che lo spezzettamento, la frantumazione provocasse maggiori sofferenze e difficoltà per la crescita. Di qui la necessità di dare alla scuola compiti importanti, più ampi e degni della sua tradizione.

Cosa è successo in questi anni? Da quando si parlò del tempo pieno – e siamo all’inizio del decennio 1980, la fine del decennio del 1970 – la situazione dell’organizzazione sociale ha avuto ulteriori accelerazioni e quelli che potevano essere dei segnali di una trasformazione modesta sono diventati gli antesignani di una trasformazione ampia, profonda, in cui la frantumazione è diventata regola e la difficoltà ad avere un impegno di quantità ha cercato di compensarsi con un impegno educativo familiare di qualità. Le famiglie hanno delle fisionomie molto diverse ed è difficile rintracciare nel termine ‘famiglia’ una sola modalità organizzativa ma questa è attraversata dall’elemento tempo ridotto da dedicare a chi cresce.

Ma nella stessa dinamica storica che ha portato a questa riduzione del tempo delle famiglie vi è stata anche una paradossale richiesta di fare rientrare il protagonismo familiare e di ridurre il protagonismo scolastico. Il tempo pieno ha avuto degli accusatori e vi sono state voci che hanno cominciato ad indicare in questa scuola invadente quasi un nemico delle famiglie. Ma le famiglie erano in grado di riprendere quel ruolo importante anche quantitativamente che veniva così riindicato? Non era affatto possibile. E così ci siamo trovati in una situazione di grande difficoltà per chi cresce, che viene più trattato come un palinsesto televisivo. Bisogna organizzare gli orari e permettere agli adulti di avere una qualche tranquillità sapendo che dalla tal ora alla tal altra vi è una copertura orario da parte della scuola, poi vi è una certa altra attività extrascolastica di istruzione, ginnastica, di lingua, di sport, di oratorio, se è possibile. E questo fino a quando non vi è un possibile rientro di tutta la famiglia a casa, diversamente c’è anche una precoce utilizzazione del tempo solitario trascorso davanti alla televisione.

L’operazione è accompagnata da quella dotazione di optional che permettano un certo controllo della situazione o un pronto soccorso rapito. L’optional più ovvio è il telefono cellulare, per cui abbiamo bambini, bambine, dotati di telefono cellulare che entrano in contatto o sono ricercati col cellulare da coloro che ne hanno le responsabilità familiari, per sapere dove sono, cosa fanno, oppure per dir loro "adesso fai" senza altra possibilità, però, di intervento sul loro tempo. Questa situazione è – come si può ben immaginare – più possibile per chi può avere risorse economiche, molto meno possibile, molto più ansiogena per chi non ha risorse economiche, deve basarsi su delle formule di ripiego.

Dobbiamo però anche considerare che vi è una forte spinta imitativa verso modelli che siano alti, e vi è una forte spinta imitativa a produrre delle azioni che investano nel figlio o nella figlia che cresce perché diventi un personaggio precocemente adulto, noto in qualche modo o che faccia delle prodezze, che si esibisca in qualche modo, e quindi restituisca l’investimento che si è fatto.

Il tempo pieno è stato sabotato in questa maniera, ed è un elemento che ci fa riflettere e che ci farebbe dire come mai in questo momento avremmo bisogno di un serio impegno per il tempo pieno, mai come in questo momento avremmo bisogno di rivivere quel modo così importante, interessante, di qualche decennio fa che appassionò educatori, educatrici, nel capire l’importanza di un’assunzione di responsabilità che si chiamava e può chiamarsi ancora tempo pieno.

Girotondo per la scuola
Sabrina Giarratana (Bologna)

Girotondo per la scuola
la mia scuola non è sola
un Gigante l’ha occupata
per salvarla da una Fata.

Brutta Fata assai bugiarda
non ti crede chi ti guarda
quando parli, parli a caso
di Pinocchio hai preso il naso.

Sei una Fata con l’agenda
sei cresciuta in un’azienda
che programmi fai per me?
che assomigli un poco a te?

Io non voglio assomigliarti
e nemmeno frequentarti:
scappa Fata, fuggi Strega
il tuo naso non mi frega.

C’è un Gigante bello e buono
ch’è potente come un tuono:
ha occupato la mia scuola
oggi è il nostro Caposcuola.

E’ un Gigante Genitore
falegname e muratore
è un Gigante Piccolino
con il cuore di un bambino.

E’ un Gigante Gran Maestro
di passione e grande estro
è un Gigante Gran Bidello
affettuoso e un po’ monello.

Mio Gigante della Scuola
usa i chiodi e la cazzuola:
il futuro costruisci,
la mia scuola custodisci.

Scuola pubblica e di tutti
belli dentro e fuori brutti
scuola amica a tempo pieno
non ne posso fare a meno.

Girotondo per la scuola,
il Gigante adesso vola:
ogni scuola va a occupare,
il mio mondo a liberare.

 

Tempo Prolungato in Valle Camonica (Brescia)
Margherita Moles, insegnante di lettere TP

Artogne- Pian Camuno: due Comuni della Bassa Valle Camonica, un Istituto Comprensivo, una scuola media interamente a Tempo Prolungato (10 classi) con 20 anni di storia.

Nel marzo del 1984 viene presentata ai genitori la proposta di costituire nella locale scuola media una sezione di scuola a tempo prolungato: si possono introdurre piccoli percorsi di apprendimento differenziato, con attività di recupero, con attività di potenziamento, si possono immaginare percorsi di conoscenza e di ricerca non strettamente legati ai campi delle discipline. Finalmente lo spazio per i nuovi linguaggi e poi più motivazione per l’apprendimento, per avvicinare alla scuola ragazzi difficili, per i quali lo studio non é la modalità vincente di stare a scuola.

La proposta è dirompente, va altre l’immaginato. Se il Tempo Prolungato è per tutti, se in modo particolare è per i ragazzi che abitano nelle isolate frazioni di montagna, ci vuole la mensa, ci vuole un’organizzazione di interscuola, vanno convinti oltre che i genitori, anche gli amministratori, vanno organizzati nuovi spazi di lavoro e apprendimento dentro l’edificio scolastico, vanno attivati gli ausiliari in attività di sorveglianza e distribuzione del cibo, gli insegnanti si debbono formare….

La proposta del nuovo modello piace, convince: altri genitori chiedono di iscrivere i loro figli. Nel giro di quattro/ cinque anni la scuola ha tre sezioni a Tempo Prolungato su quattro. Ne rimane fuori una piccola minoranza di alunni: quelli a cui la scuola proprio non piace, dicono i genitori.

Bisogna convincere anche loro. E’ troppo grande lo scarto tra le opportunità di un modello di scuola e l’altro. Niente laboratori, niente lavori mirati a piccoli gruppi, insegnanti meno attenti e disponibili perché lavorano in più classi. Ci riesce il nuovo Preside e, a partire dall’anno 1996, tutte le classi funzionano a TP.

Grande e spesso inconsapevole l’eredità:

Capacità della scuola di fare proposte culturali ad ampio raggio, ora anche con la scuola materna e la scuola elementare

Capacità di legare la proposta culturale generale alla realtà del territorio, valorizzando risorse, tradizioni, soggetti impegnati, azioni…

Capacità degli insegnanti di progettare e organizzare attività, oltre la propria materia, la propria classe, le proprie competenze.

Capacità della scuola di parlare ai genitori, di motivare le proprie scelte, di accogliere e interagire con le loro proposte.

Martedì 9 marzo 2004 il Collegio Docenti Unitario approva un documento che esprime la volontà di riproporre per il prossimo anno scolastico lo stesso modello organizzativo e didattico per tutti gli ordini di scuola.

Corridori sul Filo
Racconto di Mauro Bernini, genitore del TP, Bologna

La maestra Prima e il maestro Terzo si stavano allenando! L’allenamento faceva ormai parte della loro vita. Sapevano che se si fossero preparati con impegno, il loro lavoro sarebbe risultato più agevole. Forse. Lavoravano in un circo antico, molto famoso un tempo. Erano corridori sul filo.

Il filo era stato teso all’interno del tendone del circo. Questa volta i due maestri avevano preparato una prova al massimo della difficoltà.

La traiettoria del filo era insidiosa; la corda, infatti, correva inclinata dal basso verso l’alto in una continua implacabile salita verso la fine del tragitto (che in gergo chiamavano anno scolastico).

Prima e Terzo erano in gamba ma riuscivano a cavarsela a stento. Dopo parecchi tentativi riuscirono a compiere quella difficile arrampicata a piedi nudi, recitando brani di storia antica e matematica in lingua inglese, sorridendo e mantenendo la calma per tutto il tempo.

Gli altoparlanti diffondevano nell’aria un vocìo indistinto di bambini eccitati.

Ogni tanto risuonavano anche trilli di campanella inviperita e frasi incoerenti di adulti alterati.

"Non riesco a immaginare cosa si potranno inventare questa volta per complicare l’esercizio più di così". Disse la maestra Prima al collega.

"Non so proprio! So solo che ogni anno ci presentano difficoltà nuove e del tutto impreviste." Rispose lui.

"Mettiamo sapone liquido sulla corda inclinata?" Suggerì la maestra in un impeto di fantasia.

"Ecco! Potrebbe essere questa la nuova prova da superare! Proviamoci!" Sospirò lui con una certa preoccupazione.

All’inzio di ogni spettacolo infatti Burro, capo burocrate che aveva in gestione il Circo, inventava per loro degli ostacoli così fantasiosi e impossibili che ogni volta rischiavano di precipitare al suolo sfracellandosi di fronte agli spettatori. L’anno scorso almeno c’era una rete di salvataggio, ma quest’anno gli addetti alle reti erano stati allontanati perché costavano più di quanto Burro fosse disposto a pagare. Con tanti saluti alla sicurezza dei "corridori sul filo".

Molte settimane di preparazione passarono leste.

I due maestri-corridori si consideravano abbastanza pronti ma dentro di loro sentivano agitarsi i demoni di difficoltà crescenti e imprevedibili.

Al primo spettacolo tutto era pronto. Il circo era gremito di gente, riempito dal primo all’ultimo posto. Era un po’ cambiato dall’ultimo spettacolo; Burro aveva fatto stringere il più possibile il tendone ma aveva aumentato le panche e i sedili per gli spettatori. Sempre per avere meno costi e più guadagni.

Il pubblico era rappresentato da bambini chiassosi e sorridenti.

Burro afferrò il microfono e annunciò:

"Signore e signori, bambine e bambini, abbiamo il piacere di presentare il numero di equilibrismo più pericoloso mai visto fino a questo momento in un circo di addestramento! Solo per voooiiiiiiiiiii: I MAESTRI!!!"

Uno scrosciante applauso si unì alla musica dell’orchestra (che in realtà era fornita da un nastro registrato perché costava troppo mantenere l’orchestra).

Burro continuò:

"Quest’anno non ci saranno funi di sicurezza o reti di protezione come l’anno scorso! Quest’anno il pericolo sarà ancora più grande. Abbiamo preparato per VOI BAMBINI il numero più rischioso mai provato in un circoooooo."

I due maestri avevano preso posto su una piccolissima piattaforma di legno fissata sul palo di sostegno del tendone. La fune era stata tesa da quel palo fino al palo più lontano e terminava in un’altra piccola piattaforma di legno posta a circa diciotto metri dal suolo."

"La fune è tesa, è insaponata, non ci sono protezioni, non ci sono funi, non ci sono nemmeno aste d’equilibrio. I maestri dovranno camminare sul filo con un occhio bendato, un computer sottobraccio e cantando in inglese".

Un lunghissimo "ohhhhhhhhhhhh" si alzò dalla platea ammirata.

I maestri acrobati cominciarono il loro esercizio mentre i bambini seduti al loro posto sperimentavano una trepidante attesa.

Dopo qualche passo incerto Terzo quasi cadde ma riuscì miracolosamente a trarsi d’impaccio con un gran colpo di reni.

Anche la maestra che aveva cominciato a salire ebbe qualche problema con la pesantezza del computer, ma tutto sommato dimostravano di cavarsela abbastanza bene.

A metà percorso Burro riprese il microfono e urlò spaventando tutti "Ora una sorpresa!!" Dai lati cominciarono a piovere delle palle da tennis sparate con precisione da dei piccoli burocrati tiratori scelti che si erano appostati sui posti più alti delle tribune.

I maestri furono colpiti diverse volte ma riuscirono incredibilmente a proseguire nell’avanzamento. Burro fece un cenno col capo in direzione delle quinte e d’improvviso, senza che stavolta venisse effettuato alcun annuncio, dall’alto del tendone vennero fatte cadere delle piccole calcolatrici elettroniche direttamente sulla testa dei maestri. "Dovete afferrare almeno due calcolatrici e fare i calcoli del bilancio di quest’anno. Se arriverete alla piattaforma con i calcoli sbagliati dovrete ritornare indietro fino alla piattaforma iniziale e ricominciare il percorso." Strepitò Burro il burocrate spietato. In quel momento il maestro perse la presa e cadde verso il vuoto riuscendosi ad afferrare alla corda all’ultimo istante. Miracolosamente il computer che aveva assicurato alla sua schiena con una corda non lo ostacolava. La maestra scossa dall’ondeggiare della fune aveva piegato le ginocchia e tremava visibilmente.

Burro sogghignò: sembrava volesse far cadere almeno uno di quei due acrobati anche se tutti e due sarebbe stato meglio.

I bambini, che all’inizio erano incuriositi, diventarono presto preoccupati. Sentirono il pericolo incombere e facevano il tifo sempre più intensamente per l’uomo e la donna impegnati così severamente. Ora però la preoccupazione si era trasformata in terrore. Alcuni di loro, i più vicini alla pista, videro per terra le reti di sicurezza non usate per mancanza di personale. Bastò che uno, e non era nemmeno dei più grandi, scavalcasse il piccolo muro che separava i sedili dalla pista del circo, perché anche un altro lo imitasse. Poi si fece avanti una bimba e fu lei a sollevare per prima la rete di sicurezza. Molti bambini capirono al volo che occorreva anche il loro aiuto e corsero verso la pista ad afferrare la rete. I bambini che sedevano negli spalti in alto gridarono di gioia e incitarono i loro compagni. Uno di loro afferrò una delle tante palle da tennis che piombavano ancora da tutte le parti per lanciarla contro uno dei burocrati impegnati nel "tiro all’acrobata" e con una mira eccellente lo colpì proprio in mezzo alla fronte. Immediatamente decine di bambini bersagliarono con le loro stesse munizioni i burocrati i quali se la svignarono in grande velocità, comprendendo bene che non avrebbero potuto resistere alle raffiche che li raggiungevano ormai da tutte la parti.

Burro guardò a occhi sbarrati la scena che gli si presentava. Non voleva credere a quanto stava succedendo.

"Signori...riprendete posto....lo spettacolo! Lo spettacolo non è ancora finito!" Ansimò nel microfono.

La sua voce risuonò ancora abbastanza sicura negli altoparlanti, ma ormai le voci dei bambini sovrastavano ogni altro rumore; incitavano i due corridori a completare il percorso.

Burro fece due passi indietro in direzione dell’apertura che separava il circo dall’uscita dietro le quinte ma nessuno era più interessato a lui. L’attenzione di tutti era per i due acrobati. L’uomo era riuscito a tirarsi su e aveva ripreso equilibrio e determinazione. Orami lo separavano solo pochi metri dall’arrivo.

La maestra era ancora a metà strada. Aveva anch’essa avvertito un cambiamento profondo nell’atmosfera e traeva forza dall’incitamento e dall’affetto che sentiva provenire dai bambini.

Stavano per terminare la prova, quando Burro riapparve da dietro le quinte. Teneva un idrante tra le mani. Dall’idrante fuoriusciva un potentissimo getto di acqua e sapone. Burro lo puntò in direzione dei suoi nemici, i due acrobati. Il getto era talmente potente da arrivare in alto fin quasi alla piattaforma dove i due stavano finalmente arrivando. Quando vide le reti tenute ferme dai bambini, puntò l’idrante verso di loro cercando di spazzarli via come il vento fa con le foglie nei giorni d’autunno. I piccoli furono travolti e scaraventati a terra.

Soddisfatto Burro riprese a bersagliare i due maestri.

La situazione lassù era molto preoccupante: Prima aveva lasciato cadere computer e calcolatrici e si afferrava esausta a un parapetto sulla piattaforma sulla quale era finalmente arrivata ormai senza fiato.

Terzo guardava con odio Burro ma si sentiva del tutto impotente, non c’era nulla che potesse fare.

Burro gioiva, col suo sorriso da duro incallito.

Ma una minuscola bambina, che fino a quel momento non aveva detto una parola, si alzò. Sempre in perfetto silenzio si diresse verso Burro e gli si avvicinò da un lato. Senza esitazioni allungò la mano verso il suo fianco e gli estrasse una valvola come quella dei salvagente ad aria. Poi tirò con forza il tappo della valvola fino a strapparlo.

Burro dapprima non si accorse di nulla; poi si rese conto che si stava velocemente sgonfiando. Cercò di rimettere il tappo ma non lo trovò e si fece prendere dal panico, un panico da sgonfiamento che solo i palloni gonfiati sanno provare. Poi, sospinto dalla forza dell’aria che fuoriusciva, prese quota. Volò sempre più veloce e sempre più grinzoso facendo strane e complicate evoluzioni, come fosse un aeroplanino di carta.

"Nooooooooooooo............." Soffiò per l’ultima volta con la bocca Burro mentre finiva sconfitto e ormai innocuo sul punto più alto del tendone del circo.

Andò a fare compagnia ai piccioni che proprio lì avevano ricavato il loro rifugio. E si sa come di solito i piccioni accolgano gli ospiti indesiderati.

Qualcuno trovò il rubinetto dell’idrante che nel frattempo si era trasformato in una specie di serpente sputa-acqua e lo chiuse. Anche l’idrante sperimentò il destino di chi si sgonfia d’improvviso e giacque inerte al suolo bagnato.

I bambini della pista si rialzarono, quelli sugli spalti cominciarono ad applaudire seguiti dai maestri e da tutti quelli che si trovavano nel circo, anche quelli che non avevano fatto niente perché travolti dagli eventi.

Quel Circo cambiò!

Cambiò gesti, gestione e digestione.

I nuovi spettacoli furono sostituiti da giochi, da teatrini di burattini e tante altre invenzioni.

Gli animali che lavoravano nel circo di prima furono liberati e lasciati pascolare in un’ampia fattoria agrituristica.

Nuovi tempi si stavano preparando ma di quelli si parlerà un’altra volta.

 

Tempo pieno, addio?
Franco Frabboni (preside facoltà Scienze dell’Educazione, Bologna)

Una brutta pagella
Quali sono i voti in rosso della "pagella" con la quale bocciamo la legge di Riforma della scuola (legge 53/2003) del Governo Berlusconi e i primi testi in circolazione dei Decreti delegati e dei Programmi didattici che la corredano? Non sono pochi i brutti voti. In particolare, la nostra matita rossa e blu segna tre gravi insufficienze.

Il primo "votaccio" va addebitato alla politica scolastica del Polo: le scarse risorse destinate alla scuola pubblica, il vistoso finanziamento alla scuola privata, la scuola tramutata in "ruota-di-scorta" del mercato del lavoro, una "devolution" generatrice di mille-italie scolastiche e quindi nemica delle contrade scolastiche del nostro mezzogiorno, i tagli pesanti del personale insegnante.

Il secondo "votaccio" va addebitato al suo modello istituzionale: l’anticipo (sei mesi)della scuola elementare che ruba un lembo di paradiso alla scuola dell’infanzia, l’insegnante-unico nella scuola primaria, la riduzione di un anno dell’obbligo scolastico, la scelta precoce di uno dei due canali - liceale o professionale - della scuola secondaria, la filosofia del fai-da-te nell’uscita, in tempi diversi, dalla vita scolastica.

Il terzo "votaccio va addebitato al suo modello culturale: la Riforma di centro-destra blinda l’istruzione nell’angusta equazione scuola-mondo del lavoro (binomio dal quale si smarca anche la Confindustria). Gli assi culturali della scuola - tradizionalmente umanistico, scientifico e artistico - sono tramutati in tre bonsai lilliputiani (informatica-inglese-impresa) caldeggiati da Mediaset e straconsigliati - per gli acquisti - dal nostro Premier: il tutto in piena sintonia con le conoscenze omologate dall’odierna cultura di mercato.

Questa pagella in-rosso annota perdipiù, a piè pagina, un rabbioso messaggio "descolarizzatore" - nel nome della discontinuità e della rottura (una sorta di furia iconoclasta) - indirizzato al nostro glorioso tempo pieno, simbolo di una scuola democratica dall’elevata qualità dell’istruzione. Una scuola che in questi ultimi trent’anni ha indossato la veste di "apripista" ad un sistema scolastico nazionale in cammino verso questo doppio traguardo sociale e culturale: il diritto di tutti sia alla scolarizzazione( non-uno-di-meno), sia a potere pensare con la propria testa (la-mente-plurale).

Il tempo pieno - nel mirino della Riforma scolastica del Polo - ha l’indiscutibile pregio di avere edificato una casa della formazione a misura di coloro che la abitano: gli allievi. Di avere costruito, mattone su mattone, un luogo di relazione e di alfabetizzazione nel quale convivono e si confrontano dialetticamente più teorie dell’educazione (comportamentiste, gestaltiste, strutturaliste, cognitiviste) e più modelli didattici (scuola a nuovo indirizzo, scuola a tempo lungo, scuola comprensiva, scuola sperimentale).

I moschettieri del tempo pieno
Bruno Ciari, Gianni Rodari e Mario Lodi sono stati, per un quarto di secolo, i cavalieri "senza-paura" a difesa dei sacrosanti diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del secondo novecento. Come dire, hanno indossato i panni dei tre moschettieri più appassionati di uno straordinario drappello di educatori che, sotto la bandiera dell’Altra/pedagogia (senza collare accademico, non togata), ha illuminato di luce teorica ed empirica il firmamento della scuola di base del nostro Paese. A partire da quella magnifica dozzina che risponde ai nomi di Fiorenzo Alfieri, Albino Bernardini, Cecrope Barilli, Giorgio Bini, Franco Ferraresi, Katia Franci, Loris Malaguzzi, Don Lorenzo Milani, Sergio Neri, Carlo Pagliarini, Aldo Pettini e Margherita Zoebeli.

La loro scuola a tempo pieno pone a baricentro pedagogico il bambino e la bambina con i loro "zaini" intitolati al gioco e alla creatività: stracolmi di interessi, attitudini, emozioni, sogni. Gli allievi che la popolano sono sì corredati di fantasia-sentimento-lievità esistenziale, ma sono soprattutto equipaggiati di corporeità-logica-cultura antropologica. Hanno sangue sociale, voglia di conoscere-cambiare-trasfigurare il proprio mondo di vita quotidiana. L’infanzia e l’adolescenza di Bruno, Gianni e Mario dispongono di ali leggere per librarsi nei cieli dell’immaginario alla scoperta di galassie misteriose, ma sono altresì dotate di gambe solide (la parola, la mano, il corpo, il pensiero) per camminare per i sentieri del loro universo socioculturale. E per andare oltre, verso l’altrove.

E’ a partire da questa nostra piena adesione pedagogica al modello del tempo pieno che indossiamo con determinazione la veste del suo avvocato difensore. Oggi più di ieri. Proprio perché siamo di fronte ad una Riforma-Moratti che sta mettendo in "cassa-integrazione" - per cancellare la bandiera/simbolo della nostra gloriosa scuola elementare - il modello educativo "più-medagliato" in sede europea. Il mio compito di difensore non è difficilissimo. Questo perché il tempo pieno è protetto da un folto "girotondo" di angeli custodi. Portano il nome dei genitori, degli amministratori locali, dei sindacati, dell’associazionismo degli insegnanti, del privato sociale e delle chiese.

Comunque, il grido d’allarme a difesa del tempo pieno va reiterato, in coro. Perché è indubbiamente alle porte il pericolo che gli siano strappate le prestigiose "perle" pedagogiche e didattiche che brillano sul suo petto. Il killer, nascosto dietro l’angolo, si chiama messa in soffitta dei suoi abiti della domenica: confezionati, per l’appunto, nella sartoria del full time. Sono i vestiti della "festa" contrappuntati (a) di collegialità e di partecipazione-gestione sociale; (b) di accoglimento degli handicappati e degli extracomunitari; (c) di apertura all’ambiente naturale e sociale quale aula didattica "decentrata"; (d) di laboratori e di ricerca didattica; (e) di un insegnamento rispettoso degli "stili" di apprendimento degli allievi, attraverso pratiche didattiche in grado di rispettare i loro tempi-ritmi di apprendimento, nonché i loro registri linguistici e i loro modi di iopensare.

Spegnere nella nostra scuola questi punti-luce (certo, hanno un costo: di personale, di spazi e di attrezzature didattiche) conduce a due inevitabili derive educative.

Da una parte, significa impoverirla e declassarla culturalmente. Dal momento che le verrebbe preclusa la possibilità di inoltrarsi lungo i sentieri dove profuma una cultura-altra (i saperi "caldi", diretti, manipolabili, freschi di giornata) che cresce nelle aule didattiche decentrate dell’ambiente "naturale" (i parchi) e "urbano" (le teche: biblioteche, pinacoteche, museoteche, mediateche, ludoteche).

Dall’altra parte, significa precluderle la possibilità di assicurare l’uguaglianza delle opportunità formative, il dare di più a chi ha di meno. Obiettivo formativo - questo - perseguibile soltanto con il nostro modello a tempo pieno. La cui veste della "domenica" viene ormai indossata (è una sorta di casual didattico) dalle scuole elementari di tutto il mondo.

Ci salveremo?
Maddalena Micco, insegnante, Bologna

Non è facile essere contenti del proprio lavoro in questo periodo. Meno male che fra qualche giorno sarà Primavera e i fiori e il sole cominceranno a colorare qua e là il grigiore della città.

Un grigiore che vuole insinuarsi pericolosamente nelle menti e nei cuori dei lavoratori della scuola e dei genitori che per mesi hanno lottato per tenere ben stretto quello che in 30 anni è stato costruito!

Purtroppo l’anno bisestile ha colpito, colpito duramente sulla qualità della scuola e quello che fa più male è che sembra che la massa dei cittadini si faccia incantare dai mass-media e cada nella rete della menzogna perché detta col sorriso sulle labbra!

L’espressione "utente" è stata fino ad ora rifiutata da molti lavoratori della scuola, ma mai come ora ha acquistato l’efficacia temuta. Donna Letizia e il partito del "buon governo" sono riusciti a trasformare un luogo principale di promozione della cultura, di crescita matura interdipendente "docente-discente" in un supermercato in cui ogni scuola offre quello che ha, propagandandolo come il "meglio". Che squallore!

La "mannaia" ha tranciato 13 ore ma il cancro può far agonizzare il Tempo Pieno per un anno, poi la metastasi e Settembre 2006 il cuore del Tempo Pieno rischia di cessare di battere.

Io che dopo il convegno dello scorso anno mi ero illusa di poter andare ad un secondo o terzo convegno più per mettere in discussione il mio modo di lavorare in una classe a Tempo Pieno, per analizzare in un processo di ricerca-azione cosa modificare per rendere le attività che propongo ai miei alunni ancora più appetibili!

Mi rendo conto che la maggioranza dei bimbi del quartiere dove lavoro io perché siano depurati dalla cultura mediatica del "Grande Fratello" hanno bisogno di tempo strapieno, perché il loro lessico diventi più ricco, perché imparino a conoscere i legami stretti che ci sono tra le parole ed il messaggio implicito, a volte pernicioso, di alcuni testi, perché possano bearsi di essere proprietari di un bene prezioso quale la "PAROLA".

Un giorno disperata non capendo perché 4/5 bambini non avessero memorizzato nulla di tutto ciò che avevo fatto nella settimana, ho pregato tutte le colleghe (tra queste l’insegnante di sostegno statale e l’operatrice della cooperativa) di metterci a tavolino e, tutte insieme, senza distinzione alcuna di titoli o anzianità di servizio, discutere e magari inventare la strategia migliore perché l’apprendimento di quei bimbi possa essere più duraturo. Non potrò più dire alla mia collega "sai che a questo non ci avevo pensato? Grazie per avermelo fatto notare, ora ci provo anch’io!"

Abbiamo dovuto "arrangiarci" perché, grazie alle continue "ottimizzazioni" (alias "tagli economici"), non è possibile avere "a portata di mano" esperti di pedagogia e psicologia neppure in quartieri con numerosi problemi sociali.

Ora anche l’obbrobrio della "certificazione" solo in caso di lesioni psicosensoriali, e Tito io come lo salvo che ha "solo problemi relazionali"?

Il Decreto Legislativo rimanda alla L. 104/92, ma se non ci sono fondi come può operare tutta l’equipe prevista dal PEI? Come può un diversamente abile stare al passo coi tempi frenetici che il modello 27+3+10 implica?

Filastrocca
Mamma Mauria, Bologna

Restare lì seduti per capire e provare
Scrivere, cancellare, ridere e cantare
Mettere gli accenti giusti e dopo sillabare
Scrivere un po’ più in grande e poi scarabocchiare
Sommare 3 più 8 e poi moltiplicare
Studiare anche la storia da ricordare
Usare dei colori, dipingere e incollare
Contare, cantare, correre e disegnare
Tirare delle righe e cancellare
Capire, copiare e poi ricominciare
Leggere un po’ più in fretta senza sbagliare
Trovare parole nuove da combinare
Guardare i compagni ed ascoltare
Sorridere a qualcuno e dopo litigare
Sentire parlare, provare a non sbuffare
Andare piano e poi accelerare
Tabellinare in fretta e dopo pasticciare
Mangiare le crocchette ripiene di patata
Fare gli occhi tristi al pesce e all’insalata
Ridere, saltare e poi ricominciare
Provare con l’inglese a dire yes good bye
Girarsi un po’ nel banco, trovar da chiacchierare
Fantasticare e sonnecchiare
Dire anche "basta! Non ce la posso fare"
E poi ricominciare a contare e cantare
Suonare, stonare, provare a ripensare
Risolvere il problema di Rino il contadino
Che ha messo 7 uova dentro ogni cestino
Scrivere un nome nuovo senza sbagliare
Fare anche il dettato senza copiare
Alzare alta la mano, farsi guardare
Riempire tutto lo zaino ed aspettare
Sognare ora di uscire e dopo ritornare

Ci vuole del bel tempo
Per crescere e imparare

Tempo pieno, tempo necessario
Francesco De Bartolomeis (Torino)

Le parole dell’innovazione
Niente di più facile che elencare le cose da fare a favore del rinnovamento educativo. E non c’è elenco lungo che non possa essere ulteriormente allungato. Le parole dell’innovazione sono tutte in circolazione: ricerca, progetto, laboratori, rapporti con l’esterno, tempo pieno, interdisciplinarità e via di seguito. È difficile riportare le parole ai problemi, immergerli nella realtà. Ma è la condizione perché un termine, ad esempio, quale ricerca, assuma significato concreto, riguardi particolari cose da fare. E allora l’attenzione si concentra sulla situazione in cui intervenire, si fanno progetti, si apprestano strumenti, si prende la strada con molte incognite del lavoro attuativo.

La ricerca. A seconda del campo cambiano strumenti e metodologie. Si decide di osservare una particolare realtà. Bisogna definirla secondo gli aspetti che interessano, bisogna fornirsi di informazioni preliminari. Se si vuole adoperare il metodo dell’osservazione sul campo, bisogna costruire una scheda molto flessibile di osservazione, se si vuole intervistare una qualche persona rappresentativa occorre preparare domande pertinenti. I dati raccolti vanno elaborati, interpretati, sistemati in forma significativa. Cose analoghe sono da dire in fatto di esperimenti scientifici o la costruzione di oggetti tecnici. Si richiede molto tempo, il tempo pieno appunto. Al contrario, nel catodi un regime educativo che separi spiegazione, studio a casa, interrogazione il tempo a scuola non è mai abbastanza breve per non annoiare.

Il computer ormai è presenza indispensabile anche nei luoghi di formazione. Quale uso se ne fa? Già lo scrivere pone problemi di grafica e quindi richiede il ricorso a un particolare programma, Publisher, ad esempio. C’è il problema di catturare immagini, di unirle a testi: quindi macchina fotografica e videocamera digitale e programmi di montaggio con Power Point o con Pinnacle. La produzione di video rinnova la ricerca e la documentazione. Uso del computer significa anche entrare in Rete per ampliare i mezzi di informazione. Di regola tutto questo non può essere fatto dall’insegnante di classe. È necessaria la disponibilità non dico di un informatico ma di una persona che padroneggi i nuovi mezzi all’interno del lavoro educativo ma libero da compiti di insegnamento. È un’altra via che porta al tempo pieno.

La qualità
Ho dato sempre molta importanza ai problemi gestionali e organizzativi riferiti al buon funzionamento del sistema formativo. Ma questo non ha niente a che fare con il modello azienda perché sono da considerare le particolarità in fatto di attività e di prodotti che qualificano le istituzioni formative. Azienda vuol dire efficienza, produttività che nel caso della scuola vanno riferiti alla innovazione educativa. L’azienda-scuola della Moratti è vecchia nonostante la presenza del computer, dissestata, che non motiva né gli studenti né gl’insegnanti, che non guarda al futuro, ignora ricerca e acquisizione di competenze da usare anche in campo professionale. Il carattere attrattivo della scuola si è molto indebolito anche con le nuove condizioni dell’informazione. Ora è più difficile fare della scuola un centro in cui i bisogni giovanili vengano soddisfatti, dare il senso di acquisire competenze, di imparare cose ritenute fuori della propria portata. Rivelarsi a se stessi: è la grande forza di motivazione dell’educazione.

La qualità porta l’attenzione su problemi che riguardano mezzi, condizioni, risorse e loro impiego, competenze. Questa complessità richiede da una parte l’analisi delle situazioni in cui si vuole intervenire e dall’altra realistici progetti..

La riforma Moratti ha fatto dei tagli e dei surrogati la sua bandiera. Da sempre sostengo una idea ragionevole e semplice finora ignorata. L’idea è questa: in un tipo nuovo di sistema formativo, i compiti educativi non possono ridursi all’insegnamento in classe. Solo una diversificazione di figure professionali può fare fronte alla complessità di una educazione che si fonda su progetti, sull’aggiornamento, sui rapporti con realtà estere, sulla utilizzazione di nuove tecnologie. Altro che tutor. La qualità costa ma rende. Non tagli ma un fabbisogno di professionisti della educazione-formazione molto più alto dell’attuale. Oltre tutto è motivante la possibilità di restare nel sistema formativo non con compiti di docenza, ma cambiando tipo di prestazione professionale al suo interno. Si dovrebbe anche ricorrere a competenze esterne perché la formazione si apra con strumenti adeguati sui problemi del mondo.

Il tempo pieno per il rinnovamento del sistema formativo
È da avversare un tempo pieno che comporti un prolungamento al pomeriggio dello strazio del mattino, cioè spiegazioni frontali, immobilità al posto di ascolto, assenza di rapporti e di comunicazioni tra gli allievi, nessuna traccia di lavoro su problemi con i mezzi della ricerca.

È difendibile soltanto un tempo pieno come modello di rinnovamento che collochi il sistema formativo nella città che educa. Un modello da generalizzare che ha necessità di espandersi all’esterno per incontrare con modalità collaborative, con piani e strumenti di ricerca istituzioni, beni culturali e ambientali, servizi.

Sul tempo pieno si doveva fare un deciso passo avanti e invece al suo posto è stato messo un surrogato che si fonda su una opzionalità illegittima. Le condizioni che rendono possibili un nuovo modello formativo portano a una inevitabile conclusione: il tempo pieno deve essere obbligatorio. All’estensione temporale si lega l’estensione spaziale delle attività: non solo aule e laboratori, ma luoghi esterni di varia natura per sviluppare ricerche sul campo.

Lo stare a scuola e svolgere attività di apprendimento sono cose diverse, e nella maggioranza dei casi la seconda manca. L’apprendere sicuramente richiede tra l’altro un tempo più lungo di quello dedicato alla sciagurata diade spiegazione-interrogazione che rimanda a casa l’apprendimento inevitabilmente di tipo tradizionale. Un tempo più lungo per fare ricerche, discutere, lavorare in gruppo, adoperare strumenti tecnologici, dedicarsi ad attività produttive, uscire dalla scuola per raggiungere realtà esterne da conoscere, documentare ecc. Per stabilire la durata del tempo scolastico occorrono idee chiare sulle cose da fare e su come farle. Risulta che il tempo pieno è necessario per l’apprendere e il produrre.

Il tempo pieno non è un limitato problema di organizzazione didattica; è una scelta sociale con strumenti capaci di agire, tra l’altro, sugli svantaggi e dare un senso nuovo al proseguimento degli studi e all’approdo professionale. Non meno centrale, per il decondizionamento precoce, è la cura del periodo 0-6 anni.

Il tempo pieno che usi mezzi e competenze per dare alla funzione formativa funzione sociale fa mutare la condizione culturale di persone svantaggiate, influisce su come vivono il presente e sulle loro prospettive per il futuro. Non basta una nuova didattica. È decisiva una nuova collocazione del sistema formativo nella organizzazione sociale e politica. Alcune ragioni a sostegno del tempo pieno:

¦ Il tempo pieno prima di essere una particolare invenzione didattica, frutto della pedagogia progressista, è nella vita di un allievo ordinario. Voglio dire: se a scuola non c’è il tempo pieno, sommando quello che l’allievo fa a scuola e quello che è costretto a fare a casa (i compiti) ne risulta un impegno orario che supera il tempo pieno. Quello che non si fa a scuola con la necessaria assistenza dell’insegnante (le varie attività di apprendimento) si fa a casa, di solito senza un aiuto, con interferenza grave a danno di altri interessi e di altre attività. Il tempo a casa viene invaso con contraddizioni e disagi. Proprio il tempo pieno può liberare tempo a favore di interessi e di attività che non riguardano la scuola e sono essenziali anche ai fini dello sviluppo culturale. In assenza di tempo pieno, acquistano un ruolo pesante i compiti a casa. Ma quanti studenti trovano a casa genitori disponibili e capaci di aiutarli e di controllarli?

¦ Ristrutturazione del curricolo e conseguente distribuzione delle attività secondo tempi e successioni non artificiosi. Se si pratica la ricerca, se si entra in rapporto con realtà esterne, tempi e successione delle attività non possono essere scandite in base a una fissa unità oraria.

¦ Necessità di combattere la tecnica del differire che nega alla scuola la funzione di luogo dove si apprendono conoscenze e abilità, ossia bisogna saldare insegnamento, apprendimento e valutazione. Quattro i collegamenti necessari del tempo pieno: ricerca, laboratori, espansione su realtà esterne, nuove tecnologie. Sono condizioni dell’apprendimento.

¦ Due problemi essenziali. Primo: da quali motivazioni nasce la necessità della città educativa? Secondo: quali sono le condizioni per realizzarla? Risposta al primo problema: Per costruire le conoscenze non possono bastare i libri e il lavoro a scuola. Nei libri ci sono informazioni che riguardano l’esterno. Perciò occorre uscire dalla scuola e convergere l’attenzione su alcune delle realtà a cui si riferiscono le informazioni date dai libri. Non semplicemente visitare l’esterno ma muoversi in esso con piani, strumenti e competenze. Risposta al secondo problema: Se la scuola deve aprirsi alla città, la città deve riconoscere il suo ruolo educativo particolarmente attraverso impegni culturali, sostenuti da risorse economiche, degli Enti locali e della Regione. Insisto sulla necessità di figure professionali diverse dagli insegnanti in parte interne alla istituzione formativa e in parte operanti all’esterno che rappresentano realtà diverse da quelle della scuola (rapporti con l’università, con responsabili di beni culturali, di servizi, del mondo produttivo). Un movimento unilaterale della scuola verso il mondo esterno darebbe risultati modesti: visite per se stesse superficiali.

¦ La specializzazione degli insegnanti già a livello di scuola dell’infanzia e di scuola primaria rafforza la diversificazione. La specializzazione di competenze e di attività professionali nell’ambito educativo e formativo favorisce anche la mobilità professionale, la possibilità di assumere compiti diversi dall’insegnamento all’interno del sistema formativo.

¦ L’utilizzazione di realtà esterne secondo piani richiede necessariamente il tempo pieno non come semplice estensione temporale ma con attenzione alla qualità delle attività nella successione di fasi diverse: a) preparazione (informazioni su realtà esterne, costruzione di strumenti quali schede di osservazione, questionari, schemi di interviste, disponibilità di strumenti per documentare quale macchine fotografiche e telecamere digitali), b) lavoro sul campo, c) elaborazione a scuola dei dati raccolti, d) organizzazione dei dati nella documentazione finale sostenuta dalla documentazione di tutto il corso dell’attività. I rapporti come collaborazione, attenzione alle idee degli altri, accettazione della diversità non sono meno importanti delle conoscenze. Ricerche, lavoro sul campo, divisione di compiti, verifiche critiche fanno entrare nelle attività anche la vita di gruppo e la collaborazione come impegno per obiettivi comuni.

¦ La tipologia e la qualità delle attività di tempo libero hanno una forte influenza nel caratterizzare i modi di vita. L’assenza del tempo pieno o il suo basso livello qualitativo è motivo di inquinamento del tempo libero, perché fa interferire con effetti di disturbo attività legate alla scuola con altre attività non meno necessarie. Quindi diversificazione educativa fuori della scuola e indipendente dalla scuola.

¦ Non è un sovrappiù il rapporto con la bellezza. Quella che si incontra non solo nei musei ma anche nella vita ordinaria, nell’ambiente. Bellezza naturale, semplice, economica. La bellezza e la poesia nel senso più generale.

¦ Particolare attenzione per quella che si chiamava cultura materiale, ma che ora si presenta, con fondata ambizione, come sociologia delle civiltà complesse. È come dire che le civiltà sono sempre complesse, e perciò per quanto l’attenzione sia localistica è inevitabile fare uscire la ricerca dai limiti del sistema considerato perché è collegato a sistemi progressivamente più ampi.

Se si attivano ricerche, anche nei piccoli centri si incontrano importanti fatti storici che tolgono il piccolo dall’isolamento e lo collegano alla storia senza aggettivi. Una pieve, un castello, le abitazioni, le strade di comunicazione, le attività produttive sono tutte realtà che offrono l’occasione di ampliare e di approfondire l’indagine. Ciò che definiamo "locale" ha sempre rapporti con eventi storici e attuali di aree molto vaste, ed è compenetrato dalle nuove tecnologie di informazione.

¦ Non solo conoscenza ma attività di produzione. Con la produzione, nei laboratori scolastici e territoriali, la conoscenza si approfondisce, può scendere nei particolari, comprendere relazioni di parti e struttura dell’insieme. S’impone come necessaria l’interdisciplinarità. L’attività di conoscenza e di produzione riguardante l’utilizzazione delle opportunità della "città educativa" deve essere prevista nella programmazione e nell’organizzazione quindi nella dettagliata offerta educativa.

Le metodologie di ricerca hanno diversa fisionomia a seconda del settore a cui si applicano. Prima di essere metodo, la ricerca è modalità dell’apprendere e del produrre. La ricerca in relazione alle particolarità dei settori richiede la collaborazione programmata di esperti diversi dagli insegnanti di sezioni e di classi. Da tempo c’è la tendenza a costituire sezioni didattiche specie nelle istituzioni culturali, ma i rapporti scuola-sezioni didattiche in pochi casi stimolano attività di ricerca e di produzione. Invece di adattare le metodologie specialistiche alle esigenze delle scuole, si escogitano traduzioni didattiche che spesso sono falsificatrici anche perché si continua a credere che le trasformazioni ludiche facilitino le attività.

¦ Il lavoro come attività produttiva e come studio del ruolo che ha nei mutamenti sociali. Quindi lavoro come tecnologia e cultura sociale e storica.

¦ I propositi di innovazione, se organizzati in progetti, non hanno niente a che fare con la programmazione rituale. Da prevedere che gli insegnanti agiscano come gruppo e collaborino sia con professionisti della formazione con compiti non di insegnamento sia con esperti esterni. Mediante l’utilizzazione normale, ossia continuativa e sistematica di esperti esterni la scuola ha la possibilità di affacciarsi sulla innovazione culturale e di esserne stimolata.

¦ Modalità di aggiornamento in rapporto a progetti di innovazione.

¦ Il tempo pieno fornisce le condizioni per sviluppare anche programmi di recupero necessari per trattare ritardi culturali, difficoltà a collaborare, a inserirsi nel ritmo medio della classe. Niente che rassomigli al dopo scuola o a lezioni private. La dimensione dovrebbe essere quella del piccolo gruppo. Quando fu proposto il recupero ci fu una sollevazione generale. Le solite ottuse obiezioni: serie A e serie B, discriminazione e simili. In verità si volle sfuggire al compito di inventare il recupero. Non esiste un kit bello e pronto: bisogna prepararsi, inventare, sperimentare, perfezionare.

¦ Uso di nuove tecnologie. Dalle macchine fotografiche e dalle videocamere digitali al computer e a una grande varietà di programmi informatici (Power Point, Pinnacle, Publisher, Photoshop ecc.). Le tecnologie devono contribuire a unificare insegnamento, apprendimento, valutazione

¦ Documentazione multimediale in entrata e in uscita (libri, internet, video, cd) per progettare, svolgere attività, verificare.

¦ Forme di partecipazione ad attività educative da parte di genitori e di nonni. In questa direzione devono pesare le famiglie e non secondo il credo della controriforma Moratti.

¦ Dal tempo pieno all’educazione permanente. Piani di educazione permanente hanno bisogno di basarsi su una buona qualità del sistema formativo come una delle sue condizioni necessarie. Non provo neppure a elencare i principali problemi che s’incontrano nel tempo di vita che si spende nella formazione fino a 22-24 anni. Dal problema delle città sostenibili delle bambine e dei bambini si prosegue fino a incontrare l’orientamento scolastico e professionale, la cultura del lavoro, il disagio giovanile, la droga, alcol, fumo, tempo libero come dissipazione di potenzialità e conformismo, e in non pochi casi dissipazione della vita, difficoltà di rapporto degli adulti con i giovani. Di conseguenza la formazione permanente ha obiettivi che vanno al di là di compiti specificamente professionali.

Conclusione. Scopo del tempo pieno è dare autosufficienza alle attività propriamente scolastiche in fatto di apprendimento di conoscenze e di abilità, e quindi assicurare alla scuola le condizioni per educare. In luogo di estendere arbitrariamente il tempo di scuola si libera il tempo dopo la scuola da ciò che deve essere fatto a scuola. Il tempo pieno lavora per il tempo libero, non lo inquina con compiti e attività che hanno come luogo proprio la scuola. Il tempo di scuola se si estende a casa, invade e sconvolge la diversificazione di interessi e di attività.

 

Meno tempo e logica dell’efficienza...
Mauria Bergonzini (Bologna)

Da molti anni lavoro nel campo della formazione per gli adulti all’interno di una impresa cooperativa.

In sintesi il mio lavoro consiste nel trovare un punto di equilibrio fra obiettivi non sempre convergenti: quelli dell’organizzazione committente e quelli delle persone che lavorano.

La mia esperienza mi fa dire che anche quando si riesce a fare un buon lavoro di progettazione e l’attuazione del programma scorre bene, quello che molto spesso le persone chiedono è di avere più tempo, di avere un’altra occasione per approfondire, per capire meglio, per dare spazio ancora al confronto con gli altri, per ritornare in aula dopo aver provato a trasferire sul lavoro i nuovi metodi di lavoro.

Questa richiesta di altro tempo si scontra molto spesso con quanto l’organizzazione chiede: più efficienza, più capacità di riversare in tempi brevi nel posto di lavoro, nella quotidianità, i temi oggetto della formazione.

Dunque anche per gli adulti il tempo è una risorsa mai sufficiente perché per imparare il tempo è una risorsa, fra le prime.

Quando allora sento parlare di meno tempo per la scuola o di una distribuzione di tempo così frammentata da non ricomporsi più in un processo formativo ed educativo di qualità e per tutti, che faccia crescere i bambini e poi i ragazzi, allora ritrovo tutta intera questa logica dell’efficienza e del fare in fretta che sta nella cultura delle organizzazioni e delle imprese, ma che non può stare nella nostra scuola. Perché meno tempo a scuola e meno qualità a scuola significa partire male soprattutto nella prospettiva della formazione lungo tutto l’arco della vita.

Oltre che occuparmi di formazione, sono anche mamma di tre figli, nati a distanza di diversi anni l’uno dall’altro. Per questo riesco a scorrere, proprio da mamma, tutto quello che nella scuola è successo e sta succedendo. Delle volte mi capita di confondere i nomi dei compagni, o dei genitori e anche di dimenticare il nome di qualche maestra soprattutto quando ci sono stati dei cambiamenti durante i cicli. Ci sono stati punti alti e punti bassi, questioni da aggiustare, tappe felici, insomma tutto quello che c’è nella scuola. Ma mai ho pensato che si potesse fare a meno di una scuola a tempo pieno, dove i bambini e le bambine crescono e imparano. E poi alla scuola sono stati affidati via via compiti una volta estranei: se ne deve occupare la scuola è stata un po’ la sintesi della delega. Mi vengono in mente cose tipo l’educazione stradale, o l’educazione sessuale, per non parlare dell’educazione alle relazioni con i bambini con difficoltà.

Poi c’è il problema della scelta delle materie opzionali. Mi chiedo – e non sono proprio fuori dalle cose di cui si tratta – come potrei in modo competente scegliere fra le ore cosiddette a scelta delle famiglie. E’ già stato difficile per me indirizzare i miei figli alle scuole superiori. Delle volte è un prenderci !

Per concludere e per lasciare un segno di proposta: siamo in un momento di ridisegno o addirittura di una cancellazione di quel welfare che abbiamo conosciuto e su cui, con maggiori o minori certezze, si è costruita la vita nel nostro Paese.

Credo che in qualche forma dobbiamo dare il segno che la scuola del tempo pieno e comunque la scuola pubblica di qualità nei cicli successivi è nei nostri cuori, così come abbiamo scritto nei cartelli alle manifestazioni e appeso poi sulle reti attorno alle scuole.

Possiamo dire che ci mettiamo anche dei soldi ? Che quello che spendiamo in oggetti parascolastici, in zaini e quaderni patinati, lo possiamo mettere a disposizione per andare avanti, per non tagliare le cose cui teniamo davvero ? Ci può essere un altro 8 per mille che riguarda la scuola ? Ci possono essere azioni simboliche e delle azioni di sostanza. E’ possibile pensarci e fare delle ipotesi ?

Per finire, non è tema di oggi, ma oltre al tempo è evidente quello che sta succedendo attraverso la revisione dei programmi. Credo che sia un bel problema se anche Darwin sta diventando un pericoloso sovversivo.

"Dadi" e "dade" a scuola
Giovanni Briguglio, bidello (Bologna)

Non ce lo possiamo nascondere. I bidelli, le "dade" come diciamo a Bologna spesso partecipano in sordina alla vita scolastica che si svolge dentro e fuori dalle classi. Sicuramente nelle scuole a Tempo pieno questa "partecipazione" è maggiore che negli altri modelli di scuola. Lo stesso momento del pasto, durante il quale il rapporto con il cibo dei bambini avviene attraverso di noi, ha un importanza notevole: paure, gusti diversi passano attraverso il sorriso o lo scherzo di chi serve il pasto e sdrammatizza situazioni che i bambini possono vivere anche con sofferenza. Altri momenti fondamentali sono quelli dell’emergenza: ad esempio la cura delle ferite rimediate in giardino, o cambi improvvisati in situazioni particolarmente imbarazzanti... E oltre questi momenti più evidenti, esistono tanti altri momenti di quotidianità in cui la relazione con i bambini e con le classi è certamente importante.

Alcune colleghe che lavoravano nelle materne comunali di Bologna mi raccontano che in passato, fino a una decina di anni fa (e nei nidi ancora oggi), l’idea che la scuola fosse una comunità di soggetti che tutti insieme concorrevano alla crescita dei bambini era molto più diffusa tanto da concretizzarsi in strutture assembleari periodiche come il "collettivo" che riuniva insegnanti e appunto dadi/e, sia nella previsione di coprsi di aggiornamento previsti espressamente per insegnanti e bidelli/e proprio perché destinati ad occuparsi della relazione adulti-bambini che riguarda tutti. Forse pensando alla scuola che vogliamo dovremmo anche guardare non con nostalgia, ma con curiosità da sperimentatori a queste esperienze non a caso nate negli stessi anni in cui è nato il tempo pieno.

La scommessa giusta
Gabriella Tull maestra di tempo pieno (ed ex allieva), Trieste

Ormai molti mesi fa abbiamo scommesso sull’alleanza tra genitori e insegnanti radicata nella pratica del Tempo Pieno, modello pedagogico e didattico fondato su valori forti,depositario di una visione di società solidale che "tiene dentro", valorizzando la diversità.

Abbiamo avuto ragione, conferma e conforto (ce n’è bisogno) della nostra analisi, giorno

per giorno, nelle scuole e nelle piazze.

Quello che è successo rende palese la capacità di un buon modello scolastico di creare le condizioni per la consapevolezza e la crescita della cittadinanza di tutti i soggetti che lo fanno vivere: bambine/i, genitori, lavoratrici e lavoratori della scuola.

Rispondiamo perciò con la nostra esperienza ai vuoti slogan del governo.

Una delle tante menzogne dette in questi mesi è che la riforma darebbe maggiori opportunità agli alunni socialmente svantaggiati perché potrebbero fare piu’ ore di "recupero", detta cosi’ può sembrare ragionevole a molti genitori. Compete agli insegnanti spiegare che la ripetizione di contenuti, senza un progetto educativo che lavori sulla motivazione all’apprendimento e sulla socialità, nella migliore delle ipotesi non dà alcun frutto,non funziona,nella peggiore crea danni alla già scarsa autostima che questi bambini hanno di sé, se poi raggruppiamo piu’ bambini con deprivazione torniamo alle classi differenziali, luogo perfetto per chi è altrove.

Ricordiamo anche che la scuola a T.P. è stata il luogo privilegiato della ricerca didattica e ci viene da ridere sentendo la scoperta dei laboratori fatta dalla Moratti.

Bisogna perciò continuare a lavorare sulle "radici" del T.P. Parlare di valori fondanti il patto sociale,pratiche d’accoglienza,di integrazione,di scuola come comunità, e bisogna parlarne alla "cosiddetta sinistra" che non sa piu’ che dire, balbetta in modo sconclusionato e poco comprensibile, a fronte di un governo con le idee chiarissime.

Io credo nel tempo pieno
Paola Carolei, mamma, Bologna

Sono figlia di una insegnante (ora in pensione) a tempo pieno, ora sono mamma di una bimba al secondo anno in una scuola a tempo pieno.

Ho visto lavorare mia madree l’ho vista lavorare con passione, l’ho vista felice collaborare con la sua "Partner" si ricorda ancora TUTTI i suoi alunni le loro caratteristice le loro debolezze e la loro forza.

Alcuni ragazzi tutt’ora la cercano e la salutano caldamente.

Sono rimasta talmente colpita dal suo lavoro che ho voluto che anche mia figlia potesse fare una così bella esperienza nella scuola.

Credo in questo tempo, credo in questo modello scolastico, credo che all’interno ci sia talmente tanto da dare e da fare che sia per questo che si chiami pieno.

Nell’intera giornata scolastica non impari solo a leggere a scrivere non impari solo le tabelline impari a stare tanto tempo con gli altri e con loro impari a divedere il tempo impari la collaborazione.

Avere del tempo vuol dire imparare a non avere fretta.

E’ un modello di cultura che parte anche dalla collaborazione degli insegnanti.

Purtoppo si ha una visione "limitata" della scuola la si vede unicamente come luogo dove si va per imparare materie scolastiche dimenticando che i veri valori li possiamo trasmettere ai nostri figli unicamente credendo in loro e lasciandoli "lavorare" con i giusti tempi.

Io ho voluto tutto questo per mia figlia ed ora lotterò con altrettanta forza per "difenderlo" e garantire un modello di scuola in crescita un modello di scuola con le basi sicure.

Dedicato alle maestre, la parte migliore della scuola
Vita Cosentino

In questo mio contributo intendo ragionare attorno a cosa posso -possiamo- imparare da questo straordinario movimento delle scuole elementari. E’ straordinario perché contiene elementi nuovi e significativi, che permettono di riaprire un orizzonte di senso in cui collocare l’intera scuola e il nostro mestiere di insegnanti.

Parto da un presupposto: ormai è sotto gli occhi di tutti e di tutte che i sistemi scolastici dei paesi occidentali sono in profonda crisi. Almeno per tre motivi. Da una parte non funziona più l’assetto stesso della scuola come trasmissione di conoscenze: sempre più ci rendiamo conto che non c’è un mondo delle conoscenze costituito da certezze condivise e quindi trasmissibili; dall’altra avvertiamo con sconcerto quanto le nuove generazioni siano lontane dai modelli culturali e linguistici in cui noi siamo cresciute/i; in ultimo cresce la consapevolezza che l’idea dell’istruzione come riscatto sociale ha perso forza in un’epoca che tende a ridurre tutte le passioni alla passione di "Fare soldi e subito" come mostrano, per es., i giovani, soprattutto maschi, del nord-est, lasciando precocemente la scuola.

Che ci sia necessità di cambiamento è incontrovertibile. Sta capitando però che alla crisi dei sistemi educativi si trovino risposte che risultano sempre più dannose.

Qui in Italia gli interventi legislativi degli ultimi anni, invece di partire dal buono che c’è nella scuola, hanno puntato tutto sull’aspetto tecnico organizzativo, si sono ispirati all’aziendalismo, al privato, alla logica mercantile, fino al disastro di oggi. Con la riforma Moratti si sta andando, per via amministrativa, attraverso continui piccoli o grandi provvedimenti, alla distruzione sistematica della scuola pubblica.

La mia idea è di approfittare di questa crisi –vera- e del fermento politico suscitato dalle risposte –false-, per ripensare da capo il senso della scuola e del nostro mestiere. Ripensare la scuola in movimento, con l’idea di non rimanere solo nel contro ma riformarla in prima persona, per quanto sta in ciascuna, ciascuno di noi, che non è poco. Non limitarsi a resistere ma cominciare a mettere in parole l’esistere in spazi di libertà: la libertà non ce la dà nessuno, consiste nel movimento stesso di diventare liberi e libere.

Questa lotta, con la straordinaria partecipazione dei genitori, con le loro dichiarazioni ai giornali, ai siti internet, ha fatto emergere un giudizio sociale ben netto: la scuola elementare va bene. In questione c’è più di un modello orario – il tempo pieno -, in questione c’è un modo di fare scuola, una concezione della scuola.

Le maestre lavorano bene. Al giudizio sociale mi sento di affiancare un altrettanto netto giudizio politico e simbolico: le maestre sono la parte migliore della scuola, hanno prodotto in questi anni un sapere pratico che ha qualcosa di prezioso da insegnare a tutta la scuola, per cambiarla davvero e in meglio.

E’ uscito da pochi giorni, per le edizioni Junior, il libro Voci maestre di Cristina Mecenero, che è una maestra elementare, che finalmente dà voce alle maestre che sono il 95% della scuola elementare e finora sono rimaste troppo mute. Intervistandone alcune e osservandole in classe, il libro ne fa un soggetto che produce sapere. Cristina propone il sapere della maestra come "Saper stare vicino all’inizio, saper rimanere in contatto con le cose essenziali, di base". E constata che " E’ un’arte che nella nostra cultura è posta ai margini, quando addirittura non ecclissata".

Un libro corale che consiglio di leggere a insegnanti di ogni ordine di scuola, ma anche a intellettuali che con troppa leggerezza denigrano chi ci lavora, ai genitori interessati a figlie e figli, a chi ha a cuore le nuove generazioni e una possibile convivenza umana.

Ispirarsi alle maestre per cambiare la scuola sembra semplice, ma non lo è. Di mezzo c’è un cambiamento di sguardo sulla realtà, un capovolgimento dei criteri di valore dominanti nella società e nella scuola, quelli per cui il sapere dell’esperienza delle maestre vale zero. Un inconsapevole sentimento di superiorità nei confronti delle maestre è esperienza comune e diffusa. E infatti prevale in chi insegna alle medie, e ancora di più alle superiori. Per non parlare del come le considera la società: sono pagate meno e lavorano di più. E c’è una ragione. Nel 2001 come movimento di autoriforma della scuola avevamo organizzato un convegno dal titolo "Le maestre e il professore", perché d’improvviso su questo valore zero si era aperto uno squarcio di consapevolezza su una di quelle questioni che stanno nel fondo di una cultura, un presupposto implicito che ci muove, ma di cui non abbiamo coscienza. Assieme, nel dialogo abbiamo messo a fuoco come sia l’idea aziendalistica dell’insegnamento che quella gentiliana poggiassero su una precisa gerarchia di potere legata al sapere, fatta di valori simbolici riferiti all’essere donna e all’essere uomo: come una piramide, dove al fondo sono le maestre e un sapere che tiene assieme conoscenza e affetti, che ha cura degli esseri umani e delle relazioni, a cui non si assegna valore, e in cima invece c’è il professore e il sapere neutro specialistico, considerato più nobile perché oggettivo e scientifico, perché più vicino all’accademia e depurato dagli aspetti emotivi. (gli atti di questo convegno si possono consultare nel sito autoriformagentile.too.it)

Rovesciare quei valori simbolici intacca, anche nelle nostre menti, una precisa gerarchia di potere, apre dei varchi che rendono praticabili altre strade. Ora è un tempo buono per farlo, perché questo movimento delle elementari, coinvolgendo i genitori, è "uscito" dalle scuole e ha creato un terreno di lotta e di discussione nel tessuto stesso della società.

Sta ricomponendo attorno alla scuola il corpo sociale, con un’idea di società che sia effettivamente civile e pubblica e condivisa. Molte delle scuole che lottano con più intensità a Roma e a Milano, sono in quartieri di periferia, dove le famiglie lavoratrici, quelle meno benestanti, si vedono ogni giorno portar via pezzi dello stato sociale. Ma cosa si può fare quando ci si trova individualmente davanti allo sportello dell’ospedale a pagare un ticket raddoppiato? Niente, si vive solo uno stato di impotenza. La scuola invece è di per sé un luogo di incontro, potenzialmente uno spazio pubblico, e si stanno creando le condizioni perché lo sia davvero.

Con questo movimento delle elementari la scuola ha ritrovato la sua lingua, che non è quella degli obiettivi, delle griglie, della mission, dell’efficienza, ma non è neppure quella delle manifestazioni contro, con parole d’ordine dure e gridate, quasi militaresche, o delle piattaforme rivendicative. La sua lingua è quella di una comunità vivente in cui le cose che contano sono quelle umane ed elementari che hanno a che fare con la vita di tutti i giorni. In piazza, la presenza massiccia di donne, e –soprattutto- il voler tener dentro anche bambini e bambine, misurandosi con la loro sensibilità, ha cambiato la lingua e la forma politica della manifestazione. A Milano, per S. Valentino, l’hanno chiamata "Manifestazione d’affetto per la scuola pubblica". Trovare forme linguistiche nuove significa trovare altre forme di politica. Portare in piazza foglietti come quello che ho ricevuto dalle mani di una bimba, che avrà avuto 8 anni, è rendere politico il quotidiano. Diceva: "Le mie maestre vogliono continuare a lavorare insieme". In questa semplice frase c’è un mondo: la bimba che non voleva perdere da un giorno all’altro una delle sue due maestre, il desiderio delle due maestre di continuare a fare scuola in un certo modo, cioè quello costruito sull’essere due in classe, che permette di fare attività creative, i suoi genitori a cui va bene così. Questa semplice frase che in prima battuta sembra confinata a quelle persone lì, come un loro desiderio quasi privato, quando viene scritta su un foglietto distribuito in piazza acquista una dimensione pubblica, pur rimanendo un linguaggio tanto vicino al quotidiano da sembrare banale.

La scuola è un sistema vivente e all’interno di esso –volenti o nolenti – siamo dentro sistemi di relazioni. Con i modi relazionali che pratichiamo, con la lingua che usiamo, in modo consapevole o inconsapevole, noi veicoliamo una certa idea di scuola, l’accreditiamo e la facciamo vivere. In questo c’è la possibilità di una scelta politica che sta a ciascuno, ciascuna di noi. Cominciamo a domandarci qual è l’idea di scuola che facciamo vivere: o è la scuola del registro e del programma, quella che ne fa una struttura di dominio e di riproduzione delle classi dominanti, come era un tempo; oppure è quella delle attività a pagamento, che ne fa una merce da comprare e vendere sul mercato, come è prefigurata dalla riforma Moratti; oppure – e questa è la possibilità che si apre in movimento – è una scuola che diventa fino in fondo pubblica. La dimensione pubblica non è acquisita una volta per tutte, non è garantita dalla parola statale accanto al nome della scuola, vive o non vive nelle nostre scelte quotidiane. E’ una lotta giorno per giorno. A cosa dico sì, a cosa dico no? Quanto tengo fermo dentro di me il senso pubblico della scuola, rimisurandolo ogni giorno assieme, nelle relazioni che pratico? Quanto le mie pratiche sono pratiche pubbliche? La dimensione pubblica vive se la scuola diventa veramente uno spazio in cui, a partire dalla propria differenza, di sesso, di età, di cultura, si portano desideri, passioni, curiosità, scoperte, da condividere e su cui costruire sapere assieme.

ASSIEME CON, queste parole dicono una relazione imprevista e senza nome nella società che abitiamo. Lo constatava con amarezza già nell’80 Anna Maria Ortese in Corpo Celeste (pag. 42). Cercava e non trovava nella letteratura, se non in alcuni poeti, il segno di una coscienza terrestre "… che abbia al centro la parola essere, prima di ‘avere’ e ‘potere’, la parola ‘essere con gli altri’, invece che ‘contro o sugli altri’.".

Le maestre sanno, praticamente, come si costruisce sapere assieme con, perché con l’infanzia, se ci si sta non volendo essere da un’altra parte, si può stare solo in questo rapporto assieme con. Altrimenti si fanno guasti terribili.

In questo processo che è un cambiamento di sé in prima persona, ispirarsi a ciò che di meglio c’è nell’essere maestra offre l’orientamento di un pensiero radicale. Ha un valore politico e simbolico. Ha il senso di rifare oggi, nel contesto reale - nelle mutate condizioni di un tempo presente che ha da pensare la differenza - il gesto simbolico che fu di Don Milani, quando indicava nel punto di vista dei poveri, un punto di vista capace di cambiare tutta la scuola e la cultura.

Niente più compresenze?
Daniela Turci, Bologna

Con la riforma del Ministro Moratti cambieranno molte cose, , cio’ sta gia’ avvenendo , tutti gli operatori della scuola se ne stanno rendendo conto. Vediamo insieme alcune importanti variazioni che investiranno sia l’organizzazione sia la sostanza della scuola: le ore obbligatorie di lezione diventeranno 27, le restanti ore sino a 40 saranno facoltative per i genitori e quindi anche per gli alunni. Non ci sarà più la possibilità di usufruire di altre ore che, non rigidamente, erano dedicate alla mensa e al gioco e alle attività libere e ricreative perché queste non saranno conteggiate come ore "importanti". Perdono quindi d’importanza ma la riacquisiranno quando si tratterà di formulare l’Organico dei docenti che sarà strettamente legato al numero di ore di funzionamento di ogni scuola. Chi nelle scuole ha gia’ fatto alcuni conteggi potrà rendersi conto dei posti che saranno "tagliati" per effetto della riforma Moratti. Ecco quindi il risparmio che ne viene da un punto di vista strettamente economico soltanto. Scompariranno, se tutto procederà come è scritto nei documenti che tutti dobbiamo leggere e decifrare, le ore di Compresenza, in classe, per i docenti. Cosa sono e cosa rappresentano queste ore? Nel Tempo Pieno sono una ricchezza perche’ permettono di lavorare per gruppi di alunni, perché favoriscono il "sostegno" in caso di presenza in classe di un alunno/a disabile, perché facilitano l’interazione degli insegnanti affinche’ insieme costruiscano momenti significativi nello svolgimento delle lezioni. Tutto questo non era e non è qualcosa in più ma era ed è una ricchezza della scuola a Tempo pieno. Possiamo pero’ fare qualcosa al di là della "resistenza che tutti abbiamo messo in atto", dobbiamo organizzare, per quel poco di autonomia che a scuola abbiamo ,una proposta e un progetto da condividere che dimostri la necessità di una scuola organizzata con tempi distesi che non significa "tempi persi", che si qualifichi anche grazie le Compresenze, che evidenzi la necessità di docenti che siano "tutti tutori" cioè dire tutti in grado di garantire e realizzare una Contitolarità reale, già esistente , dell’uno accanto all’altro, tutti capaci di colloquiare fra loro e insieme ai familiari degli alunni/e affidati. Il Ministro ci dice che almeno per il prossimo anno scolastico nulla muterà, dobbiamo crederle? Ciò significa che chi elabora le politiche educative che inevitabilmente hanno una ricaduta quasi immediata sulle scuole agisce nella provvisorietà, nel dire una cosa e disdirla semplicemente alcuni giorni dopo a seconda delle proteste che provengono oramai da tutte le parti politiche, da tutte le associazioni di genitori, da cittadini e studenti? Ciò a mio parere è inaccettabile, informiamo quindi il più correttamente possibile noi stessi e chi ci circonda, simuliamo le diverse situazioni ma non perdiamoci d’animo mai, riusciremo solo così a modificare la situazione.

 

Di quale scuola abbiamo bisogno, quale scuola ci vogliono imporre, quale scuola vogliono i bambini e le bambine, quale tempo pieno chiediamo, come possiamo continuare a difendere la scuola pubblica italiana
Cristina Mecenero, maestra, movimento dell’autoriforma

Ciò che scrivo di seguito ha come cornice questo secondo convegno organizzato dal Cesp, un tempo di riflessione e di confronto che si propone non come parentesi tra le lotte, ma come parte di esse, e naturalmente il grande movimento che ha preso forma in questi ultimi mesi a partire dalle scuole elementari, per cui mi sento ora ancora più orgogliosa di essere una maestra.

L’argomento del convegno, Non abbiamo tempo pieno da perdere, invita a pensare in più direzioni – per esempio quella del rapporto tra tempo e crescita, tra bambini e bambine e tempi di esperienza, tra noi adulti che ci occupiamo di loro e ciò che possiamo fare accadere nelle classi; io scelgo di seguirne una, e cioè di dare voce agli intrecci tra le maestre che siamo e la scuola che abbiamo fatto finora.

Scelgo di parlare al femminile, le maestre, perché le maestre sono il novantacinque per cento della scuola elementare, senza nulla togliere a Gianluca, Gabriele, Andrea e Franco, maestri che ho conosciuto e che stimo, e agli altri che fanno questo mestiere con grande impegno e investimento emotivo e intellettuale. E dovendo più a loro che a noi l’essere qui in un contesto pubblico a parlare di scuola elementare, perché come maestre non abbiamo mai amato dialogare con la scena pubblica. Ma voglio che la lingua esprima quello che è, sapendo che ciò è importante sempre e soprattutto quando si vuole riflettere.

La prima vera preoccupazione che io abbia mai avuto da che ho iniziato a insegnare - una sorta di sentimento di incertezza, precarietà, non corrispondenza, e di lutto, per la scuola come è stata e come io l’ho fatta finora – l’ho provata alcuni mesi fa, quando mi sono resa conto che la nuova proposta di riforma scardinava alcune di quelle condizioni che negli ultimi trent’anni hanno fatto sì che noi maestre elementari abbiamo potuto fare una buona scuola. Tutor, frantumazione dei tempi e forse anche del gruppo classe, anticipo, abrogazione del tempo pieno: ciò che portano con sé queste "novità" sono un’atmosfera di fondo, un’idea di base, una prospettiva che taglia con ciò che abbiamo fatto fino a ora. Taglia senza indugi, come se niente fosse, come se non ci fosse nessuno veramente nelle scuole elementari, non veramente donne per la maggior parte, e uomini, che spendono la loro vita dedicandosi a questo mestiere, non veramente bambini e bambine che ancora oggi sono quello che sono e cioè appartenenti a quella fase della vita che ha delle caratteristiche tutte e sue e non si può ridurre ad altro, se non a costi umani altissimi.

Il tempo pieno è lo strumento che abbiamo accordato in questi trent’anni per fare una buona scuola e per vivere bene a scuola. Così è, molto semplicemente.

A me ha permesso di attraversare un periodo storico, quello degli anni Ottanta e Novanta, esercitando un mestiere che non presupponeva grandi fratture con la mia vita personale, non presupponeva una scissione problematica tra il mio desiderio di lavorare bene, di fare cose con senso, di partecipare alla vita della società contribuendo al bene comune, nonostante la tornata cognitivista e gli "attacchi" a un’organizzazione sensata, per esempio il dimezzamento delle ore di contemporaneità. Mi ha permesso di stare nell’eredità delle grande sperimentazioni degli anni Sessanta e Settanta da cui deriva il modello di scuola del tempo pieno, di starci imparando il senso della condivisione, della collegialità, del fare pratico, del fare immaginativo, del lasciare spazio al corpo.

A partire da quell’eredità negli anni ho visto le maestre che siamo continuare nella scelta della condivisione, della collaborazione, di grandi eventi culturali, legati all’interculturalità, alla pace, alla presa di consapevolezza di chi si è e chi sono gli altri e cosa possiamo fare insieme, insieme ai nonni e alle nonne, agli anziani del paese, agli extracomunitari, ai nostri vicini compagni delle scuole materne e delle medie. Tutti eventi organizzati coinvolgendo decine e decine di bambini e genitori, non più io credo per adesione a una visione del mondo che aveva una traduzione in un movimento politico, ma per risonanza.

Risonanza a che cosa? Io credo che abbiamo sentito risonanza con il nostro compito di stare vicino all’inizio.

Se lo dico così il mio mestiere, e quello di chi lavora nella scuola materna-d’infanzia, prende la forma che io sento che ha, di un mestiere di grande respiro, un mestiere che porta con sé un profondo significato simbolico sociale e culturale.

Stare vicino all’inizio sembra facile, ma non lo è. Perché? Perchè presuppone di rimanere in contatto con le cose essenziali, di base. Significa accompagnare le bambine ei bambini in un percorso in cui si giocano cose elementari, ma che appartengono all’ordine delle fondamenta, cose intorno alle quali tutto si ordina, prende senso e progredisce. Cose da poco? Chi ha il coraggio di dirlo… eppure per la nostra società sapere stare vicino all’inizio è tutto fuorché interessante.

Stare vicino all’inizio significa stare nel contatto, è dal contatto col corpo culturale dei bambini che le maestre sanno, sanno cosa fare, se di mattina o di pomeriggio, sanno quando aspettare perché qualcuno è assente, sanno quando è necessario dare una mano, o chiedere consiglio quando le vicende si complicano. Sanno dialogare con le loro passioni legandole alla didattica, che è un oggetto duro, in mezzo a tutto quel ben di dio che è l’intelligenza morbida, sfumata, sfrontata, leggera e spietata dell’infanzia, quella didattica che a volte sfugge, e sfugge via anche dai corpi bambini.

Saper stare vicino all’inizio: all’inizio c’è affetto e conoscenza, affetto e sentimento, affetto e emozioni. Stare nel movimento che si produce nella vicinanza a tante piccole creature e al loro esserci affettivo, quell’esserci nel sentimento della conoscenza, è questo che ha imparato chi fa bene la maestra. Per stare lì, stai in contatto con la tua vita, con te stessa, prima e di più che con le competenze tecniche.

Noi maestre e maestri ora siamo scesi in piazza, abbiamo invaso la Rete, penso qui a quello che sta succedendo nel sito di Rete Scuole, abbiamo tenuto assemblee, per dire no a questa riforma e insieme alle bambine e ai bambini e ai loro genitori stiamo dicendo pubblicamente in varie situazioni perché la scuola elementare funziona.

Io lo dico così: la scuola elementare funziona perché le maestre non praticano il mestiere ad arte, lo praticano con arte.

Le maestre non c’entrano quasi niente coll’essere professioniste. Le maestre sono molto di più. E molto di meno. Ed è attraverso questo più e questo meno che le maestre lasciano passare gli entusiasmi, i coinvolgimenti e l’esserci che distingue l’essenza del nostro lavoro da quello di chi insegna negli altri ordini di scuola. Le maestre sono donne che vanno e vengono da corsi, letture e partecipazioni a eventi sociali e culturali: vanno – ricevono, prendono, si infervorano – e vengono-tornano a scuola filtrando tecniche e approcci e specialismi attraverso l’intelligenza dello stare in presenza dell’infanzia.

Ma per praticare un mestiere come il nostro con arte abbiamo bisogno di uno spazio simbolico e concreto. Lo spazio che ha tutte e due queste caratteristiche è quello che si crea intorno all’essere in due, alla collegialità, alla collaborazione, alla corresponsabilità, all’avere un tempo generoso a disposizione. Quello spazio ora è messo completamente in discussione dalla nuova Riforma.

Ma i bambini non chiedono a noi un portfolio, o attività opzionali, o di essere tutorati: chiedono a noi di esserci, prima di tutto, stando lì al loro fianco, presenti con tutto il carico e la leggerezza della nostra e della loro storia. Quell’esserci è un elemento strutturale della relazione a scuola con i bambini e le bambine. Sentirsi chiamate in causa: è questo che per noi ne consegue, e di questa chiamata a esserci fa parte anche la fatica del fare la maestra. Per esserci a fianco dell’infanzia, abbiamo fatto scuola finora sporcandoci le mani, nei laboratori, nelle attività teatrali, nelle invenzioni del momento, nei pasticci dei bambini.

Le maestre sono donne che si sporcano le mani. Si sporcano le mani per il sapere. Per accompagnare le creature piccole a padroneggiare alcuni strumenti della nostra cultura. E’ indispensabile sporcarsi le mani se si è maestre, perché la materialità, la corporeità, la fisicità – della materia, in senso lato e duplice, della voce, del contatto, dello sguardo – sono la dimensione delle bambine e dei bambini con cui stiamo per quattro o sei ore al giorno per cinque anni. Il pensiero si muove dentro di noi e circola fuori di noi molto diversamente se la partenza è la mente, il ragionare, l’intellettualizzare, o se si parte dal corpo, e quindi dall’esserci affettivo, emotivo, con sentimenti e intuizioni e sensibilità…. Con le mani manteniamo un contatto intelligente con l’esperienza, e ciò che guadagniamo dall’esperienza lo manipoliamo subito dopo per farlo diventare di nuovo materia, come quando si cucina. Ed è di questa pasta che è fatto il nostro sapere.

Le nostre voci ora stanno contribuendo al passaggio che si può avere dall’esperienza diretta al sapere, e cioè al passaggio dall’esperienza di stare vicino all’inizio (all’inizio dei percorsi, all’inizio della vita, all’esperienza più che alla teoria) al sapere che può derivarne e di cui potrebbe fare tesoro la società, una società interessata al rapporto tra generazioni, non dimentica che il mondo è fatto ogni giorno da noi bambini-adolescenti-adulti, che siamo un po’ tutto, un po’ tutto assieme.

Gregory Bateson conclude uno dei suoi libri con una domanda: come insegnanti siamo saggi?

Io dico che sì, come maestre siamo sagge.

Cara Ministra, cara società, per dare una buona nuova forma alla scuola, non avete che da ascoltarci.

Il Tempo Pieno a Trieste
Loredana, Silvia, Tonia e Alessandra
Comitato di Trieste per la difesa del tempo pieno e prolungato e della scuola pubblica

Il tempo pieno a Trieste è distribuito omogeneamente tra quartieri residenziali "tranquilli" e zone più popolari e socialmente variegate.

Come istituzione ha una lunga storia e s’inserisce in un sistema scolastico pubblico di impostazione laica che vede, unica realtà in Italia, l’esistenza dei "Ricreatori Comunali", strutture pubbliche con educatori, nelle quali i ragazzi di età scolare possono trascorrere il pomeriggio durante il periodo scolastico, impegnati in attività libere o organizzate.

Tali strutture offrono, in collaborazione con le scuole pubbliche e a sostegno della scuola e della famiglia, il SIS, (Servizio di Integrazione Scolastica), dove bambini delle scuole elementari a modulo possono passare il pomeriggio, tra "compiti" e attività ricreative. La presenza di ricreatori e SIS costituisce di per sé una risposta concreta e di qualità alle necessità delle famiglie di poter "collocare" i propri figli per il pomeriggio, ed è probabilmente il motivo per cui il numero di scolari a tempo pieno in città è inferiore a quanto sarebbe sulla base delle richieste di puro "accudimento" delle famiglie.

Questo d’altra parte vuol dire che chi, fino ad ora, ha scelto il modello di scuola a Tempo Pieno (ed i posti messi a disposizione dalle scuole spesso non sono riusciti a soddisfare le domande d’iscrizione) lo ha fatto scegliendo esplicitamente un modello didattico e non solo la soluzione al problema logistico di dove lasciare i figli al pomeriggio. Ed è per questo che buona parte di questi genitori si è sentita minacciata dalla Riforma Moratti ed ha partecipato alle iniziative locali e nazionali di protesta.

Il Comitato di Trieste sta da tempo organizzando assemblee ed incontri per far capire cosa la riforma toglie a tutta la scuola pubblica (infanzia, elementare a modulo e a tempo pieno, media e superiore), cosa spaccia per nuovo, mentre nuovo non è, e quanto ha inciso la protesta sul decreto e le ultime circolari emessi, al fine di "tenere caldi" gli animi.

Le prossime iniziative sono ancora incontri, tra cui uno con l’ispettore locale, coinvolgimento dei Consigli docenti e d’Istituto, approfondimento su nuovi temi quali il portfolio, che si prefigura come una schedatura dell’individuo sin dalla primissima infanzia.

Anche da Trieste: W la Scuola Pubblica e W il Tempo Pieno!!!

Appunti sulla legittimazione sociale del tempo pieno
Mauro Boarelli, genitore, Bologna

Il tempo pieno è entrato nell’ordinamento giuridico dalla porta di servizio. Le lotte sociali che alla fine degli anni sessanta ne rivendicavano l’istituzione vennero recepite nel 1971 con una legge che non è esplicitamente dedicata a una nuova organizzazione didattica, ma all’immissione in ruolo degli insegnanti. Poi più nulla fino alla riforma dell’ordinamento della scuola elementare (che poi diventerà la legge n. 148 del 1990). Nella prima stesura fu addirittura cancellato ogni riferimento al tempo pieno, che venne in seguito reintrodotto grazie a un movimento di base, ma solo in forma residuale.

E’ chiaro che la legittimazione sociale di una istituzione non deriva unicamente dalla sua base giuridica, e questo è ancora più evidente nella scuola elementare, dove le pratiche didattiche e le relazioni con i genitori ed il territorio hanno avuto un ruolo importante per la definizione del modello educativo. Tuttavia gli aridi dispositivi delle leggi fotografano la legittimazione istituzionale della scuola e non sono privi di conseguenze sulla sua percezione sociale. Con il venire meno delle tensioni politiche da cui nacque l’idea del tempo pieno, la fragilità del suo fondamento giuridico ne ha ostacolato l’espansione, ha acuito il divario geografico (poco o niente tempo pieno al Centro/Sud), ha impedito qualsiasi progetto organico di riqualificazione. Il tempo pieno non interessa la società nel suo complesso. La sua difesa è affidata solo agli insegnanti e ai genitori direttamente coinvolti, e - tra questi ultimi - non sono certo pochi quelli che non colgono la differenza tra il progetto didattico e la pura e semplice offerta di un "orario lungo".

La lotta che stiamo conducendo è quindi necessariamente una difesa dell’esistente. Deve però tramutarsi in battaglia "offensiva", cioè in una proposta di "riforma dal basso". Dobbiamo avere la consapevolezza che anche in una situazione politica diversa da quella attuale, l’attacco al tempo pieno continuerà, magari in forme meno devastanti e più subdole. Ne abbiamo avuto un assaggio anche con il governo di centrosinistra e il ministro Berlinguer. Credo che il modo migliore per non disperdere il patrimonio creato con le mobilitazioni di base sia quello di convincere (e di convincere noi, prima di tutto), che possiamo scrivere anche le regole, magari lanciando una proposta di legge di iniziativa popolare che dia piena legittimità istituzionale e sociale al tempo pieno. Non dobbiamo più solamente difenderci dalle norme, ma governarle.

 

Pollicino e la Moratti
Valeria De Vincenzi
mamma del Coord. bolognese in difesa del Tempo Pieno e prol. e della Sc. Pubblica

Non è facile dire qualcosa che non sia già stato detto sul Tempo Pieno.
Dunque, lasciando perdere la ricerca dell’originalità, cercherò di esprimere alcuni miei sentimenti.

Ho notato che ultimamente sembra andare piuttosto di moda l’elogio del "Tempo Vuoto".
Alcuni autorevoli esponenti del mondo della cultura affermano che i nostri figli sono troppo impegnati, che otto ore da trascorrere a scuola possono diventare "una prigione".
Docenti di sociologia, dall’alto delle loro cattedre, sostengono che la difesa del Tempo Pieno "ad oltranza" ha una connotazione "nostalgica" e che non sempre il Tempo Pieno è difendibile ovunque così com’è.
Sono opinioni, e come tali vanno rispettate.
E’ triste però ascoltarle e leggerle in questo particolare momento, che mi azzardo a definire storico. Come dire, un’opinione può essere giusta, ma assume un valore, un peso differente se espressa in un momento poco opportuno.

La mobilitazione di insegnanti, genitori, studenti, liberi cittadini a difesa del tempo pieno e della scuola pubblica dura da molti mesi e continua a resistere e a crescere, nonostante il primo decreto sia stato approvato, nonostante la televisione svolga una devastante campagna di disinformazione, nonostante chiunque esprima il proprio dissenso verso la riforma Moratti venga tacciato di essere bugiardo-maleinformato-strumentalizzato, nonostante sia difficile avere anche questa preoccupazione tra i mille impegni quotidiani, nonostante la stanchezza...
nonostante TUTTO.

Dunque mi sembra che chi invece, ora come ora, si lancia nell’elogio del "tempo vuoto", preferisca far sentire la propria voce fuori dal coro. Anzichè esprimere solidarietà ad un movimento tanto ampio, trasversale e spontaneo, preferisce distaccarsene con un certo snobismo.

E’ vero che non sempre la giornata di un bambino in una qualunque scuola a tempo pieno di una qualunque città italiana, a Bologna come a Caserta, a Roma come a Torino, è felice.
E’ vero che ci sono scuole migliori e scuole peggiori, insegnanti più portati all’insegnamento e insegnanti meno portati.
E’ vero che vi sono molte realtà dove il tempo pieno è più simile al "parcheggio" che al progetto educativo che noi difendiamo con tanta passione.

Dunque, perchè i genitori che l’hanno scelto difendono il tempo pieno?
Perchè io lo difendo?
La risposta è semplice: perchè le realtà dove il Tempo Pieno funziona molto bene ESISTONO, e sono anche tante!
Forse in qualche cittadina sarebbe già un risultato avere la "scuola della Moratti", rispetto alla scarsità dell’offerta formativa che stanno vivendo ora.
Ma non possiamo permettere una logica di omogeneizzazione dell’offerta formativa volta al ribasso!

Ricordate la favola di Pollicino?
I suoi genitori, non riuscendo a sfamare tutti i loro figli, decidono di abbandonare Pollicino al suo destino nel bosco. Non vi sembra che lo Stato stia facendo lo stesso con la Scuola Pubblica? Non trovando il modo di mantenerla, preferisce abbandonarla a un lento declino...
Ma almeno nella favola di Pollicino i ruoli erano chiari, i genitori ammettevano la loro povertà, non tentavano di disfarsi di Pollicino sorridendo e raccontandogli che lo attendeva il brillante futuro delle tre "I" ...

I miei tre figli hanno 9, 7 e 4 anni.
Di tempo da spendere a scuola ne hanno davanti ancora tantissimo, e vorrei che fosse tempo speso bene.
A me non interessano i figli competitivi, specializzati, iperproduttivi propagandati dagli ingannevoli "mamma Letizia" e "papà Silvio".
Non voglio un TUTOR che, dall’oggi al domani, si improvvisi insegnante di materie mai insegnate prima, che li incanali precocemente verso un percorso segnato.
LORO SONO CREATURE IN DIVENIRE, DEVONO POTERSI ESPRIMERE A 360°.

Per loro la giornata di otto ore a scuola non è affatto "una prigione".
La scuola è un bel posto che amano, dove vanno volentieri, per imparare, giocare, disegnare, conoscere, correre, dipingere, leggere nuovi libri, suonare, cantare, ascoltare storie sconosciute, stare insieme ai loro compagni e ai loro maestri...

Ecco allora che "tempo vuoto" e "tempo pieno" non sono contrastanti, perchè hanno in comune il "tempo per crescere".

Il processo di crescita di un individuo inizia fin dalla più tenera età e continua per tutta la vita.
La Scuola del futuro deve riuscire a dare a tutti i bambini le stesse opportunità di crescita, colorando le realtà "grige", e non sbiadendo le realtà "multicolori".

Ma questo obiettivo di certo non si raggiungerà se, invece di investire di più nella scuola pubblica a vantaggio delle nuove generazioni, passerà questa riforma volta al ribasso, furbescamente mascherata da riforma ottimizzante.

La scuola delle differenze, la scuola delle diseguaglianze
Romana Veronesi, insegnante di scuola elementare I. C. 7, Bologna

In questi anni sono stati inseriti nelle classi nuovi alunni, provenienti dalle più diverse aree culturali. Spesso sono arrivati in corso d’anno e altrettanto spesso sono ripartiti dopo pochi mesi.

Sono bambini arrivati con le famiglie dal paese d’origine, oppure nati in Italia da genitori stranieri, sono figli di coppe miste, sono bambini adottati, sono i figli di famiglie che si sono ricongiunte dopo mesi o anni di separazione. Molti di loro hanno storie complesse alle spalle e vivono un presente molto duro per le condizioni di lavoro dei genitori, per la precaria situazione abitativa, per lo sradicamento e "il doppio culturale" che si trovano a dover affrontare quotidianamente.

La scuola è cambiata in questi anni, per necessità. Si è posta domande, ha affrontato difficoltà, ha fatto tentativi ed anche errori per realizzare una possibile accoglienza e degli efficaci inserimenti, avendo presente l’obiettivo cui doveva tendere ovvero le pari opportunità educative e formative per tutti gli alunni.

Le diverse istituzioni del territorio, il comune, i quartieri, i centri di documentazione… hanno avviato una collaborazione con le scuole supportando gli insegnanti nella formazione, nella progettazione e negli interventi diretti sugli alunni.

Si è sviluppata in questi anni una forte progettualità dentro la scuola che ha portato alla creazione di preziosi laboratori per l’alfabetizzazione degli alunni stranieri e per l’attuazione di percorsi interculturali, rivolti a tutti gli alunni, che hanno consentito di allargare la visuale territoriale, spesso eurocentrica, dei percorsi formativi.

Questi laboratori sono già scomparsi grazie ai tagli del personale scolastico effettuato in questi ultimi due anni; alcune scuole cercano faticosamente di tenere in vita quella progettualità con complesse architetture degli orari ed incastri dei docenti sfruttandone le compresenze.

Mi chiedo quale possibile attenzione potremo dedicare, in prospettiva, ai singoli bambini, in special modo a quelli che vengono da lontano; come si potrà loro garantire una buona accoglienza, seguirli nel percorso di inserimento e di apprendimento, se quello che ci aspetta è l’aumento degli alunni nelle classi, la diminuzione delle risorse fondamentali ovvero il numero degli insegnanti, il tempo-scuola, la compresenza e la condivisione fra tutti gli insegnanti di una progettualità, per conseguire l’obiettivo del successo scolastico?

Abbiamo creduto nella scuola delle differenze individuali e culturali, della pluralità dei punti di vista, convinti della necessità di dover fornire strumenti di conoscenza comuni a tutti.

La scuola che prefigura questa riforma non potrà che acuire le diseguaglianze piuttosto che valorizzare le differenze.

Adozioni alternative
Gianluca Gabrielli, maestro

Questo anno di nuove iniziative di lotta e di dibattito sul tempo pieno ha avuto un effetto importante: ha riavviato la riflessione pubblica sulla scuola. Una riflessione dalle caratterische particolari prima di tutto nei suoi protagonisti, perché non pone steccati alla discussione: parlano soprattutto insegnanti e genitori, parla il personale ata e le associazioni, balbettano sindacati e i politici; parlano anche i bambini - con grande scandalo di Emilio Fede che vorrebbe vederli solo cantare a Piccoli fans. In secondo luogo la novità è nei contenuti: si parte dal tempo pieno dopo che questo modello di scuola era stato abbandonato dal Centrosinistra e se parla proprio quando il Centrodestra tenta di abolirlo; come dire: l’ordine del giorno viene capovolto.

Si è creata così, nelle mille scuole mobilitate e nelle continue assemblee, una situazione di grande scambio: vengono rimessi in discussione i capisaldi più incrostati, vengono avanzate le idee più inedite senza timori.

Questa creatività sociale si percepisce molto chiaramente riguardo alle forme di lotta – che questa "società civile della scuola" ha fatto crescere tantissimo, tanto da far vergognare il mutismo politico delle opposizioni e la timidezza dei sindacati amici. Più complesso il discorso riguardo ai contenuti, al fare scuola, alle prefigurazioni della scuola che ci piace sognare: in questo senso il dibattito cresce più lentamente… Probabilmente, se dalle lotte fosse scaturito un raccolto più significativo di questo misero "… più fino a dieci ore di mensa", oggi la crescita ulteriore del dibattito sarebbe enorme. Giocando ai paragoni, siamo come i partigiani che la riflessione sulla società futura devono farla sui monti, nei ritagli di tempo tra una fuga strategica e la minaccia di nuove imboscate. Una vera fase costituente potrà partire solo se questa resistenza avrà ragione dei distruttori.

Eppure, anche sfiniti per la fatica, anche sotto la minaccia della propria cancellazione si può sognare una scuola futura.

E come in tutte le epoche di passaggio, i prestiti del passato e le ricontestualizzazioni possono risultare proficue. Strade interrotte possono rivelarsi percorribili, idee scartate sono nuovamente brandite con soddisfazione.

Qui ne propongo una, l’adozione alternativa ai libri di testo. Fu pensata e crebbe nel passato per scardinare l’astrattezza e la potenza della trasmissione unilaterale del "sapere"; prefigurava la "programmmazione" e metteva fianco a fianco gli insegnanti in un lavoro cooperativo. Era la conquista diu va "autonomia didattica" che nulla aveva a ché fare con il progettificio della "Autonomia" di oggi. Era una strada intrapresa non a caso negli anni in cui cresceva il TP e si affermavano tanti principi che oggi ci tocca difendere strada per strada, scuola per scuola.

Oggi l’adozione alternativa – collegata al blocco delle adozioni dei libri di testo "riformati" - può rivelarsi uno stumento importante per due ragioni. Prima di tutto va a ledere gli interessi - enormi - delle case editrici che vedono la riforma come un grande businness e che sicuramente hanno costituito uno dei gruppi di potere economico che più ha spinto e spinge per questa cattiva scuola morattiana. Ma ancor più importante è l’effetto dell’adozione alternativa sulla didattica, sul fare scuola quotidiano, sulle pratiche che induce tra noi insegnanti. Ci impegna a pensare i percorsi insieme, a rivederli periodicamente in base alle risposte dei bambini e delle bambine, ci spinge agli scambi, ai prestiti, ai passaggi di materiale... Ci invita ad essere sempre protagonisti dei percorsi didattici e sempre ci chiede di rimanere creativi. Ci rende depositari viventi di un’idea di scuola.

Già tanti insegnanti lo fanno. Io vorrei iniziare a farlo. Credo potremmo essere in tanti e tante. Adottiamo questa idea di scuola.

Cosa bolle in Parlamento
Titti De Simone Deputata Prc commissione Cultura della Camera

Pensando ai provvedimenti sull’istruzione fin qui passati dal Parlamento, la prima immagine che mi viene in mente è quella di una nauseabonda pentola di minestra che è stata messa a bollire fin dall’insediamento di questo governo, a cui si sono aggiunti di volta in volta sgradevoli ingredienti. Questo governo ha operato nella direzione di una dequalificazione organica del sistema dell’istruzione, in una logica mercantile e di privatizzazione, delineando provvedimento dopo provvedimento, un vero e proprio attacco alla scuola pubblica. La cancellazione del tempo pieno e del tempo prolungato stanno dentro questo disegno organico.

Nel nostro paese aumenta il numero degli studenti e paradossalmente diminuisce quello degli insegnanti. La politica di questo governo ha incentivato il precariato, ridotto drasticamente il numero di insegnanti di sostegno, gli investimenti, gli organici, il tempo scuola, i fondi per l’edilizia scolastica. Inoltre, l’Italia è il primo paese occidentale che ha previsto attraverso la riforma Moratti la riduzione dell’obbligo scolastico. L’approvazione della legge 53, attraverso lo strumento della delega ha manifestato solo la volontà di agire nella totale discrezionalità, sottraendosi all’espressione di un voto di merito, lasciando al Parlamento solo il compito di esprimere un semplice parere di congruità, peraltro non vincolante, sui decreti legislativi.

La battaglia nelle aule parlamentari è cominciata nel luglio del 2001, con il decreto legge 255/2001 che è intervenuto in materia di punteggi per le graduatorie che parificò i punteggi tra precari delle scuole paritarie e scuole statali, che introdusse il bonus per gli specializzati Siss complicando ulteriormente tutta la vertenza precari della scuola. Da lì in poi tutto ha spinto in direzione di una forte riduzione dei contenuti, del tempo e della qualità dell’istruzione. Verso una scuola pubblica ridotta al minimo, piegata alla cura dei particolarismi, della quale esaltare l’aspetto confessionale (vedi assunzione dei 20 mila insegnanti di religione).

La politica sull’istruzione, la dequalificazione del settore cultura inteso in un senso più ampio è rappresentata soprattutto dai numerosi tagli che le finanziarie di questi anni hanno introdotto e dal continuo e costante ricorso al principio della precarizzazione: sia per quanto riguarda coloro che precari non erano – pensiamo ai provvedimenti sui soprannumerari oppure a quelli relativi ai docenti collocati fuori ruolo per motivi di salute – sia più che mai a coloro che precari erano e rischiano di rimanere tali, a scuola come all’Università.

La richiesta di rinnovare la delega per la modifica degli organi collegiali, i provvedimenti in materia di autonomia scolastica, di parità e diritto allo studio, di stato giuridico dei docenti – della scuola e dell’università - che sono all’esame della commissione cultura della Camera, i decreti attuativi della legge 53/2003 in preparazione, ma anche l’aumento della esternalizzazione dei servizi nel settore scolastico, ma anche nel settore dei beni culturali, testimoniano di una politica dell’istruzione e della cultura che rischia di determinare un vero e proprio declino. Quello che si persegue è l’addestramento dei più piccoli, la preparazione della futura massa di lavoratori flessibili e dunque precari, la totale subordinazione del mondo della scuola alla produzione e all’economia.

Il risultato della politica morattiana sono classi più piene, scuole statali più povere e una scuola progressivamente ridotta al minimo anzi ai "livelli essenziali delle prestazioni" per citare il ministro dove con una equazione matematica, 40 = 40, il tempo pieno da modello pedagogico e educativo, diventa una sommatoria di orari di scuola, dove l’istruzione è trasformata in una merce a scelta delle famiglie. A ciò potrebbe aggiungersi la precoce canalizzazione tra istruzione e formazione professionale prevista nella legge 53 e che sarà delineata con maggior precisione con i prossimi decreti attuativi, che determinerà un sistema classista, di divisione dei destini sociali destinato ad ampliare il divario tra classi sociali e livelli culturali.

Ma nonostante i numerosi tentativi, e i tanti soldi, spesi dal ministro Moratti, per convincere i cittadini e le cittadine della bontà di queste riforme, un movimento popolare ha preso forma e dato vita ad una battaglia in difesa della scuola pubblica. Abbiamo visto dapprima gli studenti contestare la pagliacciata degli Stati generali, poi i genitori delle superiori protestare contro il riempimento a 18 ore degli orari dei docenti, e la protesta è enormemente cresciuta con il decreto legislativo sulla scuola per l’infanzia e la primaria, raggiungendo l’opinione pubblica. Imponenti manifestazioni, scioperi, occupazioni da parte dei genitori hanno avuto il merito di allargare la mobilitazione e di sollecitare le opposizioni, le forze sociali, ad assumersi pienamente questa battaglia.

Per opporsi a questo primo tassello della riforma Moratti in Commissione Cultura della Camera abbiamo innanzitutto scelto di non accettare alcuna logica emendataria, rifiutando l’impianto generale dei provvedimenti e denunciandone la pericolosità. Raramente però i mezzi di informazione, di carta stampata e televisione, sono stati disponibili ad aprire un vero e proprio spazio di confronto. Abbiamo chiesto audizioni, condotto il dibattito anche in termini ostruzionistici, scontrandoci duramente con l’impermeabilità della maggioranza alle critiche e alle contestazioni sociali.

Il lavoro di opposizione fin qui ho svolto ha per me un solo obiettivo e deve essere posto con nettezza: cancellare in tutti i suoi aspetti questa riforma e porre questa battaglia come elemento fondamentale di una alternativa al governo Berlusconi.

Tempo pieno e territorio
Miriam Consorti

Uno degli aspetti che ho sempre trovato interessante tra le potenzialità della proposta pedagogica del tempo pieno, è un aspetto del quale in realtà negli ultimi anni si è parlato poco, purtroppo: la possibilità di aprire la scuola al territorio, e di far entrare "il territorio" nelle scuole. Intendo questa possibilità di scambio e di osmosi interessante per vari motivi. Perché la scuola non può essere autoreferenziale e può svolgere il proprio ruolo educativo soltanto tentando una integrazione con la realtà sociale che la circonda. E la realtà sociale che circonda ogni singola scuola può essere ricca di risorse o povera, può essere collocata in contesti diversissimi. Ma quei contesti devono poter "fare scuola", devono poter essere indagati, conosciuti utilizzati dai bambini, anche quando sono problematici, anche quando portano con sé delle contraddizioni evidenti. Questi contesti, siano essi connotati in termini espliciti come proposte educativo/didattiche, come servizi per l’intera popolazione, come forme di aggregazione, come "problemi ", costituiscono un "mondo" che la scuola può far conoscere, indagare, apprezzare, criticare, ai bambini e alle bambine che di quel "mondo" sono già cittadini, indipendentemente dalle loro situazioni familiari o sociali o economiche. Una scuola che abbia il tempo e le risorse per riprendere in mano questa potenzialità per valorizzarla è la scuola che vorrei. Una scuola in cui gli insegnanti e i bambini, possano concedersi il tempo (e non il lusso), di guardare fuori dalla finestra e di uscire ogni tanto dal portone per appropriarsi delle competenze che l’interazione con la strada e con le persone che la abitano porta con sé.

Un "modesto" impegno
Giorgio Rinaldi

Mi chiamo Giorgio Rinaldi, ho una bimba di 7 anni che frequenta le elementari Longhena ed un ragazzo di 25 anni che ha già terminato gli studi. Faccio parte del comitato genitori - insegnanti per la difesa del tempo pieno. Vorrei testimoniare il mio impegno, anche se modesto, nella scuola in un momento in cui c’è da un lato il tentativo di dequalificare la scuola pubblica, dall’altro un attacco all’istituto del tempo pieno. In questi anni ho avuto modo di conoscere più da vicino ed apprezzare la scuola, istituzione che era il fiore all’occhiello della nostra città.

Quando ho cominciato a dare il mio contributo, più di venti anni fa, volevo conoscere il mondo dove sarebbe avvenuta la crescita emotiva ed affettiva di mio figlio nella convinzione che avrebbe aiutato anche me a crescere come genitore; inoltre ho sempre ritenuto fondamentale per il bambino una continuità tra la scuola e la famiglia. Chi si è dedicato un po’ alla scuola sa che si inizia a dare piccoli aiuti alle educatrici, e lo si fa soprattutto per il proprio figlio, poi però accade una cosa strana e bella: l’interesse si sposta da tuo figlio a tutta la scuola, non stai più lì solo per il tuo bambino ma per tutti i bambini della scuola. Insomma avviene quello che gli educatori chiamano genitorialità diffusa: è come se fossi genitore di tutti i bambini della scuola di tuo figlio. La scuola era la Salvador Allende, che mi si diceva, fosse all’avanguardia in Italia e non solo, tant’è che ricordo una commissione di svedesi venuta a vedere questa scuola probabilmente famosa anche in Svezia: ero molto orgoglioso di questo, io che ritenevo quel paese una nazione da prendere ad esempio. Mentre la scuola che ricordavo io era una scuola di altri tempi. In definitiva non la chiamerei nemmeno scuola. E se vogliamo non lo era. La scuola dei miei tempi era un qualcosa che serviva ai genitori che lavoravano per non lasciare i figli soli in attesa di uscire dall’ufficio o dalla fabbrica. E infatti rimanevano a scuola solo il tempo necessario. Nella scuola di mio figlio avevo trovato qualcosa di diverso. I bambini rimanevano tutto il giorno a prescindere dal tempo di impegno dei genitori, anzi c’erano bambini che avevano la mamma a casa.

Con mia figlia l’impegno non è calato, anzi ho iniziato da subito, con un entusiasmo ancora maggiore; a volte anche troppo: mi hanno dato perfino del rompiscatole. Però ho fatto altre esperienze molto interessanti; ad esempio ho partecipato ad un lavoro di gruppo per migliorare l’offerta ai bambini che si iscrivono alla scuola dell’infanzia della nostra città. E lì ho potuto vedere più da vicino la capillarità dell’organizzazione scolastica comunale. Ogni aspetto viene preso in considerazione, e nei minimi dettagli. Una esperienza che consiglierei a chi è indeciso tra scuola pubblica e privata.

Naturalmente il mio entusiasmo non è condiviso da tutti. D’altra parte capisco che vi sia chi vuole offrire un prodotto diverso a suo figlio e trovo giusto che abbia la possibilità di farlo, però lo dico subito, non trovo giusto che lo possa fare con il danaro pubblico. Non voglio entrare nel merito della legge regionale 52 del 1995, quella che prevede contributi alle scuole private, se sia o non sia costituzionale, però voglio esprimere il mio dissenso. Insomma è come se a me che prendo l’autobus ogni mattina venissero a dire che il mio abbonamento è aumentato perché debbono dare un contributo a chi prende tutte le mattine il taxi. Comunque per tornare alla scuola pubblica, non si può non esprimere un parere su quanto questa amministrazione comunale sta tentando di fare: da un lato per motivi di ordine economico e dall’altro, credo, per motivi ideologici. Sembra che ogni bambino che frequenta la scuola dell’infanzia costi 6000 euro l’anno; ho sentito un autorevole esponente dire che si può risparmiare fino a 10 volte. In che modo? più o meno dovrebbe andare così: si mettono 3 bambini insieme con una mamma non lavoratrice a badarli. Sì, forse si può risparmiare anche 10 volte: ma quella è una scuola?

E presto dovremo fare i conti anche con i cambiamenti dovuti alla riforma Moratti. Dico subito che non conosco a fondo tutti i risvolti della legge; e quindi non posso fare considerazioni generali, però ho l’impressione che ci riporti ad una scuola del passato. Ad esempio l’istituzione della scuola secondaria di formazione professionale, mi ricorda il vecchio avviamento professionale di gentiliana memoria (una specie di scuola media che come dice il nome insegnava un mestiere a ragazzi di 11 anni). E poi quella somma di ore che il ministro Moratti, in una recente trasmissione televisiva, ha tentato di far passare per tempo pieno, mi ricorda il tristissimo doposcuola dell’era presessantottina (il tempo pieno è stato istituito nel 1968). Era la scuola di Giovanni Gentile, una scuola che risaliva ai primi anni venti, una scuola selettiva, per pochi ma buoni. Poi ci sono stati cambiamenti che cercavano in un modo o nell’altro di adeguare la scuola ad una società in continua evoluzione, piccole riforme e pseudo riforme che l’hanno trasformata in quella che conosciamo; una scuola democratica, che offriva pari opportunità a tutti. Poi c’è stata la tentata riforma De Mauro – Berlinguer, e ora la riforma Moratti; dicevo una riforma che mi sembra ci rituffi nel passato. Ad esempio l’istituzione della figura del tutor quindi il maestro unico. Il tutor o come viene chiamato insegnante prevalente è colui che ha i rapporti con le famiglie, che decide i piani personalizzati degli alunni, che insegna le materie fondamentali e che dovrà riconoscere le personali capacità di ogni bambino svilupparle ed esaltarle.

Ora qui occorre stare molto attenti a non lasciarsi attrarre da questa sirena che ci fa intravedere la possibilità di cogliere quelle capacità nascoste nei nostri figli. Certo il tutto ha una bella confezione ma nasconde delle insidie. Intanto mi sembra di scorgere il ritorno ad una scuola classista dove viene esaltata la differenza individuale di partenza e cade quindi l’obiettivo che la scuola fino ad ora si era data e cioè dare a tutti pari opportunità di crescita e di conseguimento di quei fini che ogni buona scuola deve darsi; e poi chi dice che i genitori saranno aiutati nella scelta e che invece non saranno soli? Se così fosse solo le famiglie più preparate potranno avvantaggiarsi di questo cambiamento. Strettamente legato all’istituzione del tutor è la riforma del tempo scuola. Occorre tornare sulla diatriba: 27+3+10 è uguale a tempo pieno o no? Il ministro dice che si, è proprio così e che non cambia nulla.

Vediamo se è vero. Ci sono state diverse tappe e non sempre chiare sull’argomento. In un primo documento si leggeva di ridurre l’orario scolastico a 25 ore settimanali da affiancare a 3 ore facoltative di attività liberamente scelte dalle famiglie e dagli allievi. La proposta si sarebbe poi assestata su 27 ore + 3. Infine si sono aggiunte 10 ore di mensa. Il tutto, come dicevo, con l’introduzione dell’insegnante unico.

Vediamo che cos’è invece il tempo pieno. Lo dico per chi non ha figli che frequentano questo tipo di scuola.

La scuola a tempo pieno attuale è strutturata in questo modo: due insegnanti di pari dignità (intendo dire che si suddividono le materie considerate di serie A) che occupano ciascuna 22 ore con l’accavallamento di 4 ore settimanali. 8 ore (l’orario si svolge su 5 giorni la settimana) sono distribuite nell’arco della giornata tra mattino e pomeriggio e su queste le insegnanti spalmano tutte le materie e le esperienze che aiutano la maturazione e l’apprendimento del bambino, comprensive della mensa.

L’orario giornaliero previsto dalla riforma prevede l’insegnamento delle materie di serie A (italiano, matematica, scienze, storia e geografia) il mattino, quando sono presenti tutti gli alunni, perché nella stessa classe ci sarà compresenza di alunni con varie scelte, cioè tempo prolungato di 40 ore, tempo di 27 ore +3 e di 27 ore, e al pomeriggio verranno insegnate le materie facoltative a quei bambini che resteranno a scuola. Il tempo pieno ha avuto, ed ha, sia sostenitori che detrattori ma senza entrare nel merito, mi sembra evidente che le due cose non siano equivalenti.

Un’ultima cosa che come genitore mi deve preoccupare è quella di poter anticipare l’età di inizio della scuola per il proprio figlio. Bisogna andare a vedere cosa implica questo anticipo dell’età scolare.

Fino ad ora dovevano iscriversi alla scuola dell’obbligo i bambini che avevano compiuto 6 anni entro il 31 agosto dell’anno considerato. Ora possono iscriversi anche i bambini che hanno compiuto 6 anni entro il mese di aprile dello stesso anno. È ovvio a questo punto che possono coesistere nella stessa classe bambini con una differenza di età di 18 mesi; le capacità intellettive di bambini di 5 anni e mezzo e di 7 anni sono molto diverse e questa coesistenza credo possa generare conseguenze didattiche e psicologiche negative.

È pur vero che i bambini sono come le spugne, assorbono tutto quello che proponiamo loro. C’è chi dice che le potenzialità dei bambini sono enormi e che potrebbero apprendere molto di più. Ma occorre fare attenzione a non turbare il loro delicato equilibrio psicologico; l’equilibrio tra capacità intellettiva e crescita emotiva. In altre parole potremmo anche far di un bambino, più recettivo di altri, un pozzo di scienza, ma, rimarrebbe sempre lo stesso bambino? Non dobbiamo poi meravigliarci di sentire fatti di cronaca che riguardano i giovani: era così bravo, sempre a studiare, la sera andava sul balcone con il cannocchiale a studiare le stelle, invece di andare in discoteca. Chi poteva immaginare che sarebbe caduto vittima della droga? La scuola deve essere centrata sul bambino, sulle sue esigenze di apprendimento e di socializzazione, deve essere in grado di risolvere i contrasti interiori e psicologici che naturalmente un bambino, affacciandosi al mondo, deve fronteggiare.

In una relazione sulla riforma della scuola viene citato un libro di Edgar Morin "La testa ben fatta", e vi si dice che una scuola ben fatta, contribuisce, in maniera determinante, alla costruzione di una testa ben fatta. Ma quale è una scuola ben fatta? E’ una scuola che sa aspettare che i bambini abbiano l’intenzione, la costanza e l’impegno di conoscere, che insomma siano attrezzati per farlo.

Leggo testualmente: "Riformare la scuola è una grande impresa culturale e pedagogica e va fatta con molta prudenza e con la partecipazione di tutti, perché la scuola non deve guardare al presente ma proiettarsi verso il futuro".

Io penso che la scuola debba essere una occasione offerta ad ogni bambino perché diventi un individuo che sappia trovarsi a suo agio nel mondo, e riformare la scuola vuol dire far si che quell’individuo possa "trovarsi meglio" anche in un mondo che cambia.

Mettiamo le radici nella scuola
Lara, La Spezia

Salve a tutti!
Mi chiamo Lara, ho 28 anni, scrivo da La Spezia e sono un’ insegnante elementare convinta sostenitrice del tempo pieno. Avrei voluto essere lì con voi in queste due giornate, ma purtroppo ho saputo solo ieri di questa iniziativa e non sono riuscita ad organizzarmi.
La nostra scuola si chiama "La Pianta" e noi qui abbiamo intenzione di piantarci le radici (si prestava bene)…per questo stiamo cercando di lottare contro questa pessima riforma, utilizzando le forme più incisive.
Il mese scorso abbiamo occupato la scuola e per la prima volta mi sono trovata a dormire con un sacco a pelo all’interno di un edificio…..
Perché l’ho fatto?
Perché credo alla valenza formativa di questa scuola ma anche alla crescita professionale che da essa deriva,
perché io qua dentro ci trascorro più tempo che in qualunque altro posto e non c’è niente che non mi piaccia e che vorrei cambiare,
perché vedo i bambini lavorare in classe e nei laboratori, e anche a loro sembra piacere,
perché sono stufa di continuare a sentire delle bugie, offendono la nostra intelligenza,
perché siamo in tanti a pensarla così e non posso credere che stiamo sbagliando tutti,
perché mi incanto ad ascoltare i racconti delle mie colleghe "più grandi" sulle loro battaglie perché il tempo pieno venisse approvato, dei loro viaggi a Roma a cercare quel documento perso tra le scartoffie, ad esempio, e di tutte le "altre avventure",
perché le vedo lavorare oggi e nei loro occhi vedo lo stesso entusiasmo e la stessa forza, che è anche la mia e quindi penso che questa scuola non può essere tanto sbagliata,
perché da un po’ di tempo a questa parte, leggo in loro una grande è giustificata amarezza, quella di chi sente di aver fatto tanto…inutilmente, e vorrei dire loro "non è vero...per questi e per tanti altri motivi, continueremo a lottare perché, veramente,...non abbiamo tempo pieno da perdere…grazie!

 

Chi spiegherà i cambiamenti ai bambini?
Micol Quiros, mamma, Bologna

Sono la mamma di un bambino di 7 anni che frequenta la seconda elementare alle Scuole Scandellara, e vorrei manifestare il mio totale disappunto nei confronti della Riforma Moratti facendo alcune considerazioni : ho seguito i dibattiti televisivi (con i quali , da profani , si cercava di capire gli orientamenti della Riforma ) quali Ballarò e Porta Porta in cui il Ministro Moratti ha sempre sottolineato che la sua Riforma mette in primo piano LA FAMIGLIA favorendo quindi i rapporti SCUOLA / FAMIGLIA. Come genitore sono quindi a chiedermi come mai non sono mai stata interpellata??? Sara' la Moratti a spiegare a mio figlio che dal prossimo anno scolastico avrà solo una maestra con funzioni di TUTOR, e che quindi la continuita' didattica con le sue due maestre di quest'anno non sarà più garantita ?? L' introduzione di INFORMATICA , l' aumento di ore di inglese (magari in mensa come cosiglia il nostro Presidente del Consiglio), la pausa mensa senza le maestre, le 10 ore settimanali con "non si sa bene chi ??" sono il risultato di un MIGLIORAMENTO QUALITATIVO SCOLASTICO competitivo con gli altri standard europei ....NE SIAMO PROPRIO SICURI ?????