CESP - COBAS

CONVEGNO REGIONALE "RIFORMA MORATTI: Quali Prospettive?"

Palermo –IPSSAR "BORSELLINO"
p.zza Bellissima, 3 (quartiere Pallavicino) Palermo

martedì 4 e mercoledì 5 maggio 2004

Raccolta dei materiali:

Carmelo Lucchesi - Docente scuola media Palermo La riforma: linee generali.
Renata Puleo – Direttrice didattica - Roma I tempi della crescita e i tempi dell'apprendimento.
Gianluca Gabrielli maesto elementare, CESP - Bologna Dall'individualizzazione alla personalizzazione dei saperi
Salvatore Vaccaro - Università degli Studi di Palermo Dalla frammentazione del sapere alla precarizzazione del lavoro
Piero Castello – Maestro elementare - Roma Liceizzazione o istruzione professionale: come trasformare lo studente in apprendista




Dall’Individualizzazione alla Personalizzazione
Gianluca Gabrielli maesto elementare, CESP - Bologna

Di assemblea in assemblea, discutendo e confrontandomi con genitori e insegnanti, sono venuto mettendo a punto un prontuario di elementi semplificati utili a far cogliere gli aspetti negativi che questa “riforma” porta con sé. Il tutor che gerarchizza gli insegnanti, la riduzione del tempo scuola come apertura di un doppio mercato, del sapere e del tempo libero, ecc… Dietro questi ed altri cambiamenti invitavo a cogliare la grande e fondamentale esigenza di tagliare le risorse alla scuola pubblica, minimo comune denominatore di tutti i processi autonominatisi di “riforma” che hanno tentato di farsi strada negli ultimi anni.
Eppure, accanto a questi aspetti - che continuo a ritenere fondamentali – ne esiste uno ulteriore, di carattere più astratto e pseudo-filosofico, che è meno facilmente semplificabile perché innerva più o meno tutti gli elementi di cambiamento: la “personalizzazione”. Con questi appunti provo a mettere sulla carta una riflessione a partire dalla personalizzazione. Premetto quindi che do per acquisiti gli elementi citati prima.
Anticipo inoltre che gran parte dei processi di personalizzazione auspicati per la scuola pubblica italiana, a prescindere dal giudizio che se ne dà (e, come si vedrà di seguito, il mio giudizio è decidamente negativo), sono semplicemente inattuabili per le caratteristiche strutturali in cui si dovrebbero realizzare. Due esempi valgano per tutti: come personalizzare i percorsi didattici in classi sempre più affollate? Come personalizzare senza fondi per le supplenze?

La personalizzazione dappertutto
Chi in questi ultimi tre anni ha seguito il succedersi dei documenti pedagogici e organizzativi che hanno preparato e portato avanti la “riforma” Moratti sa che attorno al termine “personalizzazione” si raccoglie una costellazione rilevante di richiami, rimandi, allusioni, distinzioni che costituiscono il nucleo concettuale più importanti della riforma. Il termine compare specificamente come indicazione metodologica contrapposta alla “vecchia” individualizzazione, nella definizione ufficiale dei piani di studio che scaturiscono dalle Indicazioni Nazionali, come riferimento connesso all’opzionalità delle ore nella scuola primaria e secondaria di primo grado. “Personalizzare” è il fulcro attorno a cui si muovono numerose novità presenti nei documenti ministeriali (famiglia, portfolio, tutor, anticipo). Persona è il riferimento filosofico-lessicale che compare o che aleggia in gran parte del dibattito pedagogico.
Di fronte a questo uso massiccio ed inedito di questo termine nel dibattito è utile vedere come viene usato e cosa intendono con esso gli estensori della riforma.

“Persona”
Credo che i punti di riferimento ideologici che hanno nutrito la riforma Moratti abbiano due baricentri: la tecnocrazia aziendalistica delle “tre i” e una tradizione del pensiero cattolico declinata in modalità particolarmente conservatrici. Il riferimento alla “Persona” fa parte di questo secondo polo. Andiamo a vedere come Bertagna e il suo staff spiegano la contrapposizione tra “persona” e “individuo”:

“[…] quale la differenza fra l’individuo e la persona?
Rispetto alla domanda, pare di poter dire che ‘persona’ è più che ‘individuo’, che sia, cioè, concetto più vasto. […] Di individuo, infatti, si parla sia per gli uomini sia per gli animali. Di persona, no: nessuno ha mai sentito dire che l’ape di uno sciame sia una persona. Di persona si parla solo per gli individui umani. Che significa persona umana? Significa un individuo che, oltre che processi vegetativi e sensitivi unitari, ha in modo altrettanto unitario ragione e libertà: razionalità teoretica, pratica e tecnica e possibilità di volere e non volere sia riferito a scelte proprie e altrui. Sempre. Da grande e da piccolo. Significa dunque pensare ad un individuo che non sta in società come le api, ma vuole stare insieme agli altri perché ciò è bene, perché ciò [è] una conseguenza di valutazioni anche razionali, e non solo sentimentali o biologiche. Significa pensare un individuo che, perciò, fa sempre sintesi unitaria di processi biologici, sentimentali-affettivi e razionali, fino al punto da non poterli distinguere nei loro precisi confini. E poiché la ragione e la libertà, massima espressione della razionalità umana, a differenza dei battiti cardiaci o di un sentimento, non sono mai finiti, significa pensare ad un individuo che rimanda sempre ad altro da sé, che scopre che oltre le ragioni trovate c’è sempre un’altra ragione più profonda e che oltre le scelte libere adottate c’è sempre una scelta libera ulteriore da esercitare. L’inesauribilità insomma caratterizza la persona.
Il contrario dell’individuo, che è invece del tutto esauribile. Sapere perché l’ape vola sui fiori è possibile in via definitiva. Sapere perché un individuo umano fa quello che fa è sempre impossibile in via definitiva: c’è sempre una spiegazione ulteriore che si può dare, più profonda, e che magari è più illuminante di quelle pur ricche precedentemente date.” (1)

La persona diventa quindi il termine che identifica il soggetto pieno, completo, irriducibile, unico ed inesauribile; su un gradino più basso l’individuo (per cui era stata costruita la vecchia scuola di massa) si dibatte tra materia e sentimento, privo sia di razionalità che di consapevolezza.
A partire da questa contrapposizione prende corpo, nella progettazione scolastica, quella tra personalizzazione e individualizzazione:

“Personalizzazione / individualizzazione”

Vediamo come viene presentato questo cambiamento di baricentro:

“In questa direzione si muove l’educazione come promozione dell’identità personale piuttosto che individuale. E si parla di identità personale perché essa non può essere mai compiuta e circoscritta una volta per tutte, ma resta sempre aperta, per l’intera vita. Mentre se si parlasse di identità individuale si presupporrebbe qualcosa di definito e di esaurito, quasi un’identità fatta a stampo, uguale per tutti i membri di una specie, come quella delle api. No, i bambini, nella pedagogia della riforma, non hanno un’identità individuale, ma personale. Ecco perché la riforma parla [di] personalizzazione dei percorsi piuttosto che di individualizzazione dei percorsi: la personalizzazione apre, accresce, libera, moltiplica l’affermazione personale di ciascuno; l’individualizzazione invece uniforma, dà a tutti le stesse cose, rende tutti aperti o chiusi alle stesse cose. La personalizzazione è dare a ciascuno il proprio, che è unico e irripetibile; l’individualizzazione è dare invece a tutti, sebbene in modo diverso, lo stesso, che è uguale e ripetibile. La personalizzazione usa, così, le conoscenze e le abilità elencate nelle Indicazioni nazionali come base per progettare professionalmente percorsi formativi che, a partire da esse, rispondano, però, alle capacità uniche e irripetibili di ciascuno; l’individualizzazione, al contrario, userebbe i percorsi didattici per dare professionalmente a ogni bambino le conoscenze e le abilità elencate nelle Indicazioni nazionali; nel primo caso, avremmo gli obiettivi formativi e le unità di apprendimento di cui parla la riforma, nel secondo gli obiettivi didattici e le unità didattiche.” (2)

A partire della personalizzazione cambia quindi tutto il lessico della programmazione. Dai Programmi alle Indicazioni Nazionali, dalle Unità Didattiche alle Unità di Apprendimento, dagli Obiettivi Didattici agli Obiettivi Formativi.
In questa volontà di rinominare ogni prassi scolastica si uniscono questioni di egemonia di scuole pedagogiche, l’esigenza di lanciare evidenti collegamenti con aree della riflessione filosofica (il personalismo cristiano) (3), la volontà di mostrare l’esistenza di un progetto complessivo anche dove gran parte delle scelte sono dipendenti da vincoli di bilancio. Ciononostante l’operazione ha una coerenza logica che credo emerga di seguito (4). Anche il Centrosinistra ha spinto per abolire le vecchie Unità Didattiche e sostituirle con i Moduli e, nelle versioni più spinte, con le Unità Formative Capitalizzabili. Sotto le sigle anche lì si potevano scorgere le linee di una filosofia del cambiamento.

Personalizzazione dei piani di studio

Nell’intento dei documenti ministeriali la personalizzazione dei piani si studio procede a partire dal PECUP (Profilo dello studente in uscita) e dagli OSA (Obiettivi Specifici di Apprendimento) presenti nelle Indicazioni Nazionali. Dall’altra parte si hanno le “persone” che arrivano a scuola con le loro caratteristiche individuali, le loro esigenze specifiche, le opzioni delle famiglie. Sulla base di questi elementi il docente tutor elabora le UA (Unità di Apprendimento) che rimandano agli OF che raccolgono più OSA ma che sono “curvate”, “adattate” alle esigenze specifiche dei singoli alunni.

“La centratura delle UA sull’apprendimento, considerato come qualcosa di profondamente individuale e personale, pone fin dall’inizio il cruciale problema di far convivere le esigenze dell’unità con la molteplicità dei percorsi di apprendimento. Come si pone e si risolve il problema della personalizzazione all’interno di una UA? Ciò che rende possibile la convivenza tra le esigenze dell’unità e la molteplicità dei percorsi è il fatto che le UA si fondano su un intero di apprendimento articolato al suo interno: l’intero deve essere prospettato come compito di apprendimento identico per tutti; ciò che può essere personalizzato è l’acquisizione delle conoscenze, abilità e comportamenti utili alla realizzazione dell’intero. Tenuto conto delle capacità attualmente disponibili di un certo alunno, delle sue motivazioni, bisogni, interessi, ecc., si può pensare di curvare la scelta delle conoscenze e delle abilità, e relative delle attività, ai bisogni formativi diversificati di questo alunno, mantenendo ferma l’unità del compito di apprendimento. Così, per alcuni si dovrà di insistere su abilità considerate motivanti e strategiche; per altri di ridurre il carico di conoscenze e abilità non strettamente necessarie; per altri ancora di arricchire la composizione dell’intero di apprendimento, ecc. La personalizzazione degli apprendimenti non avviene, come per l’individualizzazione, adattando i contenuti disciplinari o tematici alla “capienza” dell’alunno, ma articolando l’intero di apprendimento in obiettivi adeguati ai reali bisogni formativi di ciascuno.” (5)

Sembra di capire che in nome del rispetto della persona si proponga una vera e propria rinuncia a presentare curricoli unitari e contenuti comuni. In nome di questa adesione alle caratteristiche diverse dei singoli allievi si rinuncia ad operare sulla metodologia, sugli stili di apprendimento e di insegnamento (con procedimenti propri della individualizzazione) per diversificare le attività (e conoscenze e abilità) riducendo o arricchendo la composizione del precorso di apprendimento. Se tale pratica può rendersi necessaria in contesti particolari, porla a fondamento della definizione di tutti i percorsi di insegnamento della scuola personalizzante significa porre le premesse per un “sereno” abbandono dei meno “capaci” a percorsi più poveri e per la coltivazione di percorsi virtuosi per i “talenti”. Si propone quindi un quadro del lavoro di programmazione didattica che abbandona la prospettiva egualitaria per l’offerta differenziata in base alle caratteristiche degli allievi.

Carattere ampio del termine Personalizzazione

Ma personalizzazione è un termine ampio, che si riferisce anche a scelte organizzative che vanno oltre e affiancano la progettazione didattica. In nome della personalizzazione vengono attivate le ore facoltative ed opzionali nella scuola primaria e secondaria, salta il riferimento al gruppo-classe e si parla solamente di gruppi di “fanciulli”, viene istituito l’anticipo scolastico nella scuola materna ed elementare. La nuova figura del tutor raccoglie molte responsabilità in questa direzione, caricandosi oltre tutto dei rapposti con le famiglie che risultano anch’essi cruciali in questo senso. Personalizzare assume quindi una valenza d’insieme che collega molte innovazioni cruciali. Vediamole una ad una.

Creare spazi per la domanda individuale. Che fine fa la classe.
La scuola tende a diventare un servizio a domanda individuale e il tutor coordina questa offerta.
In questa direzione va l’istituzione delle ore opzionali e facoltative (3 nella scuola primaria, 6 nella secondaria) che devono incontrare la domanda dei genitori facendogli scegliere già a partire dall’età di 5 anni e mezzo del bambino/a parti del percorso formativo scolastico). Queste ore scompongono il gruppo classe in gruppi formati in base alle scelte dei genitori.
Nella stessa direzione va anche l’istituzione dell’ “anticipo” e il superamento della classe omogenea per età come elemento base dell’organizzazione scolastica.
Fino ad oggi l’apertura delle classi partiva da esigenze profondamente diverse: sia in senso orizzontale che in senso verticale nasceva da un progetto finalizzato in gran parte alla socializzazione e manteneva nella classe il punto di riferimento forte: si apriva la classe, ma poi si ritornava ad essa. Nella scuola della personalizzazione la classe omogenea non c’è più per lasciare il posto a quella classe disomogenea per età, in nome dell’ “eterocronia dello sviluppo della persona”; inoltre anche la classe disomogenea si scompone per quantità consistenti del tempo scuola. Le tendenze di sviluppo possibili, in prospettiva, guardano alla non graded school, magari in nome di un Don Milani capovolto: “Non c’è cosa più ingiusta che far parti uguali tra diseguali” (citato da Bertagna nel documento preparatorio degli “Stati generali” del 2001).

Creare spazi per la domanda individuale. La singola famiglia determina i percorsi.
Il ritornello della centralità della famiglia (al singolare) nella “riforma” Moratti si può trovare dai manifesti elettorali fino sull’ultimo dei documenti pedagogici. I dati incontrovertibili su cui si basa sono l’istituzione dell’anticipo, l’istituzione delle ore opzionali e facoltative e l’istituzuione del portfolio (nella cui compilazione la famiglia è coinvolta). Più esplicitamente alcuni parlano di “concreta riappropriazione del ruolo educativo svolto dalle famiglie” (6).
Non sono più i genitori (plurale) che insieme partecipano alla scuola portando le loro istanze e confrontandosi negli organi collagiali, ma sono le singole famiglie che esprimono richieste didattiche per i propri figli e il sistema della scuola pubblica, in nome dell’autonomia [sic] e attraverso la flessibilità didattica e organizzativa, offre percorsi personalizzati che soddisfino queste richieste.
Evidentemente in gran parte questo discorso, nella realtà attuale, si rivela solamente un manto ideologico che riesce a coprire esclusivamente i livelli più bassi di questa domanda: anticipo, qualche materia aggiuntiva da pescare nel mondo della libera professione docente… Dove questa richiesta individuale dei genitori assume dimensioni consistenti e onerose (ad esempio l’iscrizione al tempo pieno) ci pensa l’assenza di risorse a negare la “personalizzazione” collettiva come niente fosse. Anche in questa accezione la personalizzazione funziona solo nella direzione della disarticolazione della scuola pubblica; nella direzione opposta i vincoli di bilancio ne rivelano il carattere di mera copertura ideologica.

Creare spazi per la ricezione e la cristallizzazione delle differenze in luogo del confronto dialettico tra le diversità
Se gli obiettivi cui portare gli alunni non sono più gli stessi, allora si aprono due varchi enormi per stravolgere il ruolo della scuola nel contrastare gli effetti culturali delle diseguaglianze sociali presenti nella società. Con l’ottica della personalizzazione infatti si aprono percorsi differenziati già a 5 anni e mezzo in base alle “attitudini” e alle “capacità” (7).
Per ciò che riguarda le attitudini, è chiaro che a quell’età le differenze tra i vari bambini non rimandano ad insondabili predisposizioni della “persona”, ma in gran parte ai condizionamenti sociali con cui questa persona ha interagito durante la sua esistenza. Eppure il tutor dovrebbe riconoscere queste attitudini e sulla base di queste consigliare alla famiglia la frequenza alle ore opzionali più adatte al bambino/a. Anche verificando nella pubblicistica ministeriale si ha subito l’impressione che l’effetto principale di queste ore opzionali sia di costruire momenti scolastici che riflettono semplicemente le caratteristiche socioculturali dell’ambiente di vita della famiglia: pianoforte per alcuni, falegnameria per altri. La scuola dell’individualizzazione proponeva a tutti sia pianoforte che falegnameria, operando affinché ci fosse una messa in relazione dialettica dei diversi tipi di saperi. In questo modo i figli degli immigrati recenti e i figli della media borghesia potevano affrontare gli stessi percorsi fianco a fianco, magari attraverso didattiche cooperative.
Altrettanto grave è lo stravolgimento sulla base delle “capacità”. Sempre più spesso infatti i documenti pedagogici e quelli ministeriali sono tornati a proporre i gruppi di livello tra le scomposizioni consigliate del gruppo classe; ritorna cioè ad essere legittimata la divisione per livelli di competenza (e di profitto scolastico-disciplinare) dei bambini/e. La personalizzazione, in nome della fedeltà alla realtà, ripropone con forza il raggruppamento dei “bravi” e, separato, quello dei “somari”.

Verso l’insegnante e la costellazione
Al centro di tutti questi processi sta la nuova figura dell’insegnante tutor (8). Infatti il tutor concentra nella sua persona tutte le funzioni chiave della personalizzazione: Raccoglie le istanze delle famiglie in relazione al percorso scolastico, orienta le famiglie stesse riguardo alle ore opzionali, compila il portfolio delle competenze di ogni alunno in contatto con la famiglia e il territorio. La forza didattica della scuola non viene più costruita attraverso la collaborazione tra docenti, tanto che il nuovo assetto non prevede più il consiglio di classe. Il tutor diviene quindi sempre di più il coordinatore degli insegnanti, sia quelli interni al contratto-scuola, sia quelli esterni previsti già da oggi per le ore opzionali. Al posto del consiglio di classe come luogo di discussione e confronto per la valutazione emerge l’insegnante tutor che raccoglie le certificazioni dei diversi insegnamenti e le assembla nel portfolio. Non è detto che in futuro il tutor non possa diventare l’unico insegnante interno di una scuola pubblica in gran parte esternalizzata e precarizzata.

NOTE
1. Temi e problemi dell’innovazione: domande, risposte, di Giuseppe Bertagna (collaborazione di Gregoria Cannarozzo, Adriana Betti, Elena Vaj, Ermanno Puricelli); s.d. (ma in più punti del testo si allude al decreto in corso di approvazione, per cui fine 2003), voce PERSONALIZZAZIONE E INDIVIDUALIZZAZIONE.
2. Ivi
3. Vedi anche l’accusa lanciata alla scuola dell’individualizzazione di “fordismo didattico, tardomaterialismo scompositivo”, ivi, voce UNITA’ DIDATTICHE E UNITA’ DI APPRENDIMENTO
4. Anche il Centrosinistra aveva spinto per abolire le vecchie Unità Didattiche e sostituirle con i Moduli e, nelle versioni più spinte, con le Unità Formative Capitalizzabili. Sotto le sigle anche lì si potevano scorgere le linee di una filosofia del cambiamento, lotte di scuola, ecc., cfr. Luca Castrignanò, La didattica modulare nella scuola dell’autonomia, 4. Quaderno CESP n. 1. La scuola: prove di resistenza - Atti del seminario di auto-aggiornamento tenuto il 16 maggio 2002 presso l'ITIS Belluzzi di Bologna. A cura di Gruppo Scuola del Bologna Social Forum e CESP - Centro Studi per la Scuola Pubblica, Bologna. Ora nel sito www.cespbo.it
5. Ivi, voce UNITA’ DIDATTICHE E UNITA’ DI APPRENDIMENTO
6. Ivi, voce FAMIGLIA
7. Qui Quo Qua. Viaggio alla scoperta della nuova scuola, Disney, Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, 2003 (diffuso come supplemento a Topolino, novembre 2003)
8. In questo contesto di analisi non mi soffermo sull’importantissima valenza dell’introduzione del tutor come fattore di gerarchizzazione dei docenti e che lede l’identità cooperativa che questo lavoro ha ancora in Italia.

SAPERE GRATUITO E SOTTRAZIONE AL POTERE
Dall’unità alla disseminazione, dalla frammentazione alla frantumazione
di Salvo Vaccaro

Per lunghi, troppi, secoli il sapere si è caratterizzato per la sua rarefatta elitarietà. Se è vero che ogni pratica sociale, tanto nelle sue rappresentazioni collettive quanto nelle sue invaginazioni private, si definisce come un sapere, talvolta inarticolato, che incrocia il campo delle significazioni materiali come potere che crea una nuova figura di realtà, passando dal potenziale in quanto orizzonte libero di ciò che si apre al reale, al possibile in quanto selezione che vaglia il grado di plausibilità di tale apertura, sino al possibile-ora che la concretizza mettendola in scena, è altrettanto vero che la codificazione simbolica di questa pratica sociale, proprio per la sua rilevanza in termini di potere, è sempre stata una posta in palio di appropriazione e fortificazione da parte di élites pretendenti ad occupare la posizione di prestigio e di privilegio che la detenzione delle chiavi magiche del nesso sapere-potere comporta.

La decifrazione sciamanica del sapere destinale della comunità, l’acquisizione guerriera della forza e dell’astuzia militare per la salvaguardia della comunità, l’abilità retorica del politico che cattura menti e parole suadenti, l’ascesi spirituale del santone in presa diretta col dio di turno, rappresentano figure e configurazioni variabili del nesso sapere-potere in capo a élites che dominano singolarmente la scacchiera dei poteri istituzionali, dei regimi discorsivi, della produzione di norme, delle forme (trascendentali) di giustificazione e legittimazione. È all’interno di tale scacchiera che si succedono le élites, le combinazioni di peso relativo tra le varie configurazioni, in un'unica espressione la trama delle relazioni di potere la cui conoscenza costituisce il segreto della sua conquista e della competenza al suo mantenimento.

L’unità di tale nesso era da dissimulare: gli arcana imperii relegavano l’intelligibilità delle mosse del potere e dei potenti in una dimensione misteriosa e in quanto tale inaccessibile alla comune comprensione dei mortali, giacché la detenzione del potere era mimesi diretta di una investitura divina, che solo una casta di mediatori accreditati poteva intuire per privilegio di rivelazione, mentre la linearità ereditaria del potere mondano escludeva per principio una concorrenza illegittima, ossia tra non-pari. Il gioco tattico si svolgeva nei sotterranei delle regge, vivacizzando un tempo e uno spazio (se ne vedano i riflessi sia nelle tragedie greche che in Shakespeare) che altrimenti, fuori dalle mura del palazzo, erano scanditi lungo un asse di piattezza in cui tutto scorreva senza cambiamenti, irreversibilmente ma senza rotture di continuità, pure in presenza di rivolte, guerre, spedizioni sanguinose, golpe di palazzo e sangue, tanto sangue versato dai poveri cristi che, ciechi al sapere-potere, rielaboravano la loro sorte disgraziata come immutabile destino fatale.

L’attacco antielitario alla cittadella fortificata del sapere-potere non è solo un gioco tattico teso alla successione delle posizioni sul campo. Non si tratta solo di riuscire faticosamente ad accedere penetrando all’interno della fortezza assediata, ma anche di restituire visibilità pubblica a tale nesso scompaginando le figure che pretendevano per sé la disgiunzione tra pubblicità ed unità strategica di conoscenza e potere. La condanna a morte di Socrate segna una tappa di tale conflitto per l’unità del sapere: la cicuta che la polis impose di bere al principe dei sofisti simboleggia una battaglia al momento persa, ma anche la breccia attraverso cui trovare un accesso che rappresenti un canale di scorrimento mobile per la diffusione quanto più ampia possibile tanto dei saperi, quanto del potere. Solo con la modernità tale varco, aperto e rinchiuso secondo le diverse vicende storiche, si impone come assetto istituzionale che colma secondo una unità duale l’immaginario-simbolico ed i processi materiali.

L’architettura binaria del sapere moderno – scienze umane e scienze esatte – spazza via le figure che facevano dell’occultamento del sapere la chiave di accesso al potere, fornendo ad esso una formula giustificativa non rivolta al pubblico, bensì al rappresentante terrestre del dispensatore di legittimità trascendentale, nonché e soprattutto ai competitors la cui forza era comunque e dovunque una minaccia costante a ogni potere istituito (il ritorno di Ulisse a Itaca è l’emblema poetico-letterario di tale dinamica). Sia Popper che Kuhn convergono nel rilievo determinante per il quale solo la riproducibilità pubblica, sia pure in laboratorio, secondo modelli di controllo verificabili e falsificabili, garantisce la scientificità di una teorizzazione. La gestazione faticosa dell’avvento della modernità - segnata emblematicamente con la rivoluzione di Copernico che mette al centro del sistema il sole quale sostituto secolare dell’occhio divino, ma all’interno di un piano organico di moti celesti la cui cifra essenziale era rappresentata dall’individuo cosmico, antesignano dell’umanità nella sua unità - riassorbe il sapere-potere nella sovranità che lega insieme la nascita dello stato quale unica entità politica riconosciuta e perseguibile (ancora oggi, in epoca globale di preteso disfacimento dello stato nazionale) e la dimensione culturale e simbolica che vede trionfare il codice unitario di razionalità rispetto agli altri codici (espellendo il sapere alchemico in primis, bollato al pari della stregoneria quale sapere non vero e illegittimo), e subordinando a sé saperi residui, circoscritti in enclaves ristrette da cui non costituiscono più una minaccia al suo predominio.

L’accentramento politico-territoriale che segna lo stato moderno, privato di legittimità divina, ridisloca sul piano del sapere pubblico la giustificazione della forza quale criterio decisivo del potere. Lo scambio tra libertà e sicurezza che, secondo Hobbes, anima il contratto sociale nel suo duplice risvolto sintattico – patto fondativo della società e patto di soggezione al sovrano - si situa in uno scenario paradigmatico (e affatto realistico) facilmente soggetto al calcolo da parte di ciascun individuo che sia al contempo dotato di ragione e deprivato di insane passioni (la follia, come lo smarrimento emozionale, è l’altra faccia oscura della razionalità). Tale sapere - disponibile ad ogni mente ben disposta, libera da pregiudizi e aperta all’argomentazione ragionevole, ossia istruita di qualcosa metodicamente riversata in essa - è la razionalità unitaria e bicipite insieme, che diviene accessibile per chiunque si alleni al suo raggiungimento: è l’epoca dell’universitas come unica via di conseguimento del sapere ormai accreditato, esattamente come l’uni-verso segnava l’orizzonte di verità cosmica sotto la cui volta si giocavano le vicende mondane nelle diffrazioni policentriche di un nucleo universale unico e unitario.

La ragione nella sua potenza di astrazione si ergeva come macchina di calcolo per ricondurre ad unità le differenze: la proliferazione di sfere di sapere che moltiplicavano la dualità del moderno (scienza economica, politica, sociale, giuridica, linguistica, antropologica, morale, ecc. nella metà campo umanistica; scienza matematica, fisica, chimica, biologica, botanica, astronomica, medica, ecc. in quella propriamente scientifica) era controllata da una matrice astratta della razionalità la quale, per ogni disciplina che man mano storicamente si affermava strappando autonomia per sé e per il proprio apparato istituzionale, poneva un codice di astrazione che riassumeva sotto di sé i segni molteplici per ricondurli nell’unico senso ammesso: l’unità del sapere. Ecco allora la norma, la moneta, il linguaggio, il (sentimento del) dovere, quali trait d’union tra differenziazione e unità, in cui la frammentazione dispersiva è funzionale all’unità razionale della potenza di astrazione che mima, sul piano del sapere, l’accentramento politico-territoriale dello stato sul piano del potere. Le discipline, come ormai si chiamano i diversi saperi, sono disciplinate da una matrice di razionalità che dirime conflitti, assegna compiti, suddivide funzioni, tassonomizza pertinenze, consolida regimi, istituisce apparati, intrecciando in forma inedita sapere e potere nella nuova configurazione inaugurata dalla modernità. Come mostra Foucault, parole e cose ritrovano nella modernità quella congiunzione apparentemente contraddetta dalla disgiunzione del sapere in tante discipline nella cui specificità singolare si perviene ad unità.

Oggi la pluralità delle sfere del sapere è un fatto insormontabile che non pone più in questione la gestione di una unità ormai infranta, effetto mimetico di una unità trascendentale di stampo divina, secolarizzata in una metamorfosi che annoda saperi frammentati e poteri decentrati senza contraddizione. Tuttavia la posta si è estesa: dall’antica lotta per l’acquisizione di disponibilità a saperi elitari, dal moderno conflitto intorno al soggetto di gestione del nesso sapere-potere, a partire dal 1968 (data emblematica e convenzionale insieme) avanza una battaglia sulla produzione autonoma di sapere e potere, con l’elaborazione di differenti ipotesi di intreccio reciproco che dà luogo a configurazioni orizzontali, e non più verticali, di tale nesso cruciale. L’allargamento pubblico dei canali di accesso, coniugato con la miniaturizzazione delle tecnologie di sapere e un relativo benessere che sposta le matrici consumistiche di spesa anche verso il genere culturale, ha disseminato in alcune aree del pianeta toccate da quei processi il modo di produzione, aprendo l’orizzonte a inediti approcci di declinare sapere libero e potere di sottrazione al già-dato, al conforme, all’uni-forme. L’emancipazione del sapere dalla griglia disciplinare orientava l’acquisizione e la gestione non più verso una nuova unità egemonica dalla quale operare l’ennesima operazione di sussunzione ripetitiva del modulo iscrittorio di sempre, bensì verso la creazione di percorsi frastagliati in cui la frammentazione plurale del sapere potesse rispecchiare la dissoluzione della sua unità sotto forma di percorsi molteplici e plurali di connessione transinsulari, proiettando una mappa ad arcipelago irrelata da una miriade di concatenazioni libere, automoltiplicantisi, liberamente irradianti verso altri arcipelaghi di sapere.

Tale immagine si riverberava, e rispecchiava al contempo, una nuova idea di potere orizzontale che disponesse le forze in un gioco non-autoritario in cui la sovranità veniva ad essere annullata senza precipitare nell’anomia annichilente da cui essa riemerge come istanza di ordine e sicurezza. Il nesso sapere-potere del ’68 assumeva il sapore libertario della fantasia creativa ed eretica al potere, facendo della frammentazione dei saperi una virtù, piuttosto che un limite da ricondurre ad unità. La disseminazione del sapere e del potere rendeva possibile l’emergenza di diversi soggetti, ugualmente legittimati a ritagliarsi le forme-di-vita loro disponibili, tanto nel conflitto quanto nella convivenza plurale di differenti (un debito rintracciabile sia nell’irruzione della prospettiva di genere, sia nell’esodo volontario verso nuove e-utopie). La produzione di profili esistenziali liberati e liberatori estendeva a dismisura la trama di sapere e potere, riannodando ogni volta un ordito differenziato che si sottraeva ad ogni pretesa egemonica tanto del sapere disciplinare, quanto del potere regolamentare. La schiusura di orizzonti superava la contrapposizione tra unità e frammentazione, liberava energie prima intrappolate al centro della dialettica tra stato e società o marginalizzate con violenza negli interstizi di miseria – al pari delle periferie del pianeta ove dominava la povertà e l’ingiustizia in ogni ordine – e infine offriva l’opportunità di produrre saperi e poteri al di fuori dei regimi discorsivi e degli apparati istituzionali, pervasi dall’ansia di controllo all’unità, sia pure nelle articolazioni decentrate offerte dalle liberal-democrazie vigenti.

È la stagione felice delle sperimentazioni extra-istituzionali, della fantasia al potere, dell’esplorazione di altri mondi interiori, della costruzione edificante di comunità alternative, della fuoriuscita di innumerevoli saperi dalla gabbia delle discipline istituite e codificate accademicamente, della formazione dal basso di nuove conoscenze diffuse attraverso nuovi strumenti che ricombinavano creativamente oralità e scrittura, pathos e ratio, eros e Kultur, gesto e parola, segno e significazione, visualità e cifra. La “gaia scienza” di Nietzsche sembrava realizzarsi nella giocosa anarchia del sapere e del potere ad ogni livello, sia conflittuale nello scontro quotidiano, sia parallelo nella progettualità di mondi di vita da inventarsi nel singolare plurale che contraddistingueva una epoca sovversiva all’ennesima potenza. Anche le istituzioni e gli apparati costruiti progressivamente nel tempo da mano e mente liberali venivano scardinate e rovesciate dall’interno e dall’esterno, secondo una duplice mossa tenaglia di scavo e incavo che recuperava quanto di integrabile nella nuova trama di sapere-potere, mentre rigettava senza appello ciò che si rendeva percepibile nella sua intollerabilità assoluta. La disseminazione incitava alla pluralità irrappresentabile, che pure trovava saldo aggancio nella vita quotidiana restituita per la prima volta al vissuto non più irretito in un unico e unitario significato dispotico. Mao, con i suoi cento fiori, e l’anti-Edipo hanno segnato, nel bene e nel male, nella fedeltà e nell’incoerenza di tale promessa di felicità non più dilazionabile, i confini di spazio e di tempo di tale formidabile stagione di attacco sottraente al potere-sapere. Così il ’68 intendeva prendere sul serio l’emancipazione dalla minorità incitata sin dai Lumi kantiani…

La disseminazione dei saperi sfuggiva al controllo del potere dialettico di unità-frammentazione: il contrattacco non mira a ripristinare regressivamente una disposizione ormai dissolta, bensì punta alla frantumazione (definitiva?) delle condizioni contestuali grazie alle quali è stato possibile assaltare il cielo senza aver chiesto prima il permesso. Sono rintracciabili almeno tre direttrici di questo contrattacco: lo svilimento della pubblicità dell’apparato istituzionale di massa di cui ormai registrare il fallimento nel disciplinamento degli orientamenti di sapere; la precarizzazione delle forme di autonomia anche reddituale che fungono da presupposto di tempo liberato da dedicare alla cura (culturale) di sé; la trasformazione del regime discorsivo del sapere di cui negare singolarità specifica – la gratuità infunzionale - per legarlo strettamente ad un illusorio détour professionale.

I processi emancipativi di alfabetizzazione estesa hanno trovato nell’istituzione scolastica di ogni ordine e grado un contenitore ad imbuto che regolamentava la pubblicizzazione ormai acquisita nella parte ricca del pianeta lungo tutto il XX secolo, senza tuttavia rinunciare alla funzione disciplinare: la selezione dei contenuti di sapere, spesso normati in via accentrata, il predominio statuale delle porte di accesso alla professione, l’orientamento statuale impresso alle forme di vita scolarizzate, persino sin nelle forme architettoniche, la sottile discriminazione censoria avvertibile nei luoghi di marginalità e nelle figure espulse con modalità latenti e informali, il ruolo di palestra all’obbedienza conformistica tanto all’autorità centrale della figura dell’insegnante, quanto alla delega corporativa nella pseudo-democrazia dei processi deliberativi interni, facevano dell’istituzione scolastica un apparato disciplinare di stato quanto mai potente per la riproduzione dei meccanismi di formazione e funzionamento della società statualmente regolamentata, esattamente come i processi produttivi con l’emergenza delle nuove forme di lavoro erano funzionali alla riproduzione allargata del capitalismo regolato statualmente. Una volta colmato il gap di alfabetizzazione collettiva, la messa-in-formazione così disciplinata scatenava il conflitto dei saperi autonomi tanto dentro quanto fuori dell’istituzione, che si è trovata al centro di epici scossoni data la delicatezza della sua funzione politica, finendo col smarrire il proprio ruolo per sovraccarico di tensioni. Proprio l’onere eccessivo ha progressivamente svilito la sua ragion d’essere, sia in quanto occlusiva di reale autonomia, sia in quanto inidonea all’obiettivo disciplinare. La sua frantumazione passa paradossalmente attraverso la difesa indifendibile di un segno pubblico ormai da tempo sussunto e svuotato di ogni fattore dissonante: l’istituzione di pubblico mantiene solo gli standard negativi, rinviando ad altri luoghi elitari il deposito e l’elaborazione di quei saperi per pochi protesi all’ingresso nella posizione privilegiata dei gestori e amministratori dello status quo, mentre si lascia sfuggire il nesso tra contenuti di sapere e forme di vita quotidiane che attengono sia ai beneficiari, indifferenti e insofferenti allo stile istituzionalizzato della formazione e trasmissione di saperi formali, sia all’insieme della società nel suo complesso, che in quello spazio disciplinare chiuso non riesce più a trovare le chiavi di decifrazione e comprensione attiva del proprio stare al mondo come individuo e come comunità interagenti in spazi globali.

L’acquisizione di autonomia culturale passa, come è ovvio, da un certo livello di benessere economico e di tempo liberato, frutto di quel compromesso fordista e socialdemocratico che secondo Marco Revelli ha caratterizzato nella seconda metà del “secolo breve” i conflitti nelle aree industriali della terra. Soldi sottratti alla valorizzazione diretta e indiretta del capitale, nonché tempo libero da dedicare al pensiero senza necessità di collegarlo ad una esigenza pesante e ingiuntiva di un qualche risultato concreto da raggiungere (pensiero della reificazione strumentale, secondo Horkheimer), rappresentano una miscela sovversiva su cui si concentra il contrattacco: la frantumazione di tale condizione passa attraverso la finanziarizzazione dell’economia produttiva e la precarizzazione della posizione soggettiva entro i processi produttivi che elimina autonomia reddituale e tempo liberato per altro che non si sottoponga alle ingiunzioni della valorizzazione capitalistica. La nuova economia riduce le risorse disponibili a funzioni di bisogni ricreati opportunamente come salda base ipotecaria da cui non potersi svincolare, pena l’espulsione dal recinto sacro lavorativo, la marginalizzazione violenta e la perdita totale di ogni autonomia. I crescenti livelli di disoccupazione, ricondotti moralisticamente a volizioni oziose da redimere o a congiunture ostative di un mercato non compiutamente liberalizzato, rivelano invece il reale volto sterminatore del mercato capitalistico che affida al cuore duro della ragion di stato la gestione di un problema relegato alla stregua di ordine pubblico, minandone la legittimità data la non corresponsione dei termini contrattuali: cedere libertà senza ottenere sicurezza (in senso lato).

Infine muta pretestuosamente il regime discorsivo del sapere, la cui gratuità – ossia non l’essere intenzionato finalisticamente verso alcunché ma disporsi all’attitudine critica (quindi non speculativa nel senso di rispecchiante, né contemplativa nel senso dell’ammirazione e adorazione verso il presente così come esso è) – viene elisa a favore di un nesso vincolante alla formazione di professionalità immediatamente spendibili su un mercato del lavoro, che tuttavia è alieno da recepire in massa nuove figure in quanto, almeno in questa parte del pianeta iper-industrializzato, la segmentazione globale del processo produttivo, già surclassato dalla produzione di ricchezza monetaria a mezzo di denaro liquido (cioè l’egemonia della dimensione finanziaria immateriale e virtuale su quella materiale), rende strutturale la inoccupazione di massa, ponendo il problema dell’integrazione pacifica di masse istruite professionalmente in bacini ristretti di occupazione di forza-lavoro, laddove la deculturazione progressiva e incalzante pone il problema analogo di una integrazione socio-culturale che solo contesti violenti – vedasi la guerra permanente – possono ricondurre a unità collante al tessuto sociale statualmente controllato.

Quel che oggi è in palio, nello scontro tra sapere e potere, è la capacità di controllo consapevole e proiettato in avanti delle traiettorie esistenziali che aprono mondi-di-vita per ciascuno e per tutti. Autonomia e forza plasmante di sé, per parafrasare l’ultimo Foucault, resistono alla frantumazione sottraendosi al ricatto che obbliga alla mera resistenza passiva come ultima frontiera disponibile. La polarità antagonista, erede del dominio dialettico esercitato sul mondo a scapito dell’immensa maggioranza del pianeta, dovrà disgregarsi nella diffusione di sperimentazioni collettive negli interstizi ove il possibile-altro si annida senza, per ora, prendere radici, ma anzi disperdendosi in una elusione continua alla cattura pervicace di quel che un tempo si sarebbe chiamato “sistema”, ma che in ultima analisi è la ferrea e micidiale (letteralmente) griglia del sapere e del potere, da cui chiamarsi fuori per sentieri extraistituiti da aprire momento dopo momento, spazio dopo spazio, allenandosi ad un autogoverno di sé e della comunità che sappia fare a meno di tale griglia e della sua pesante necessità (anche logica), innovando pertanto i flussi dei saperi e le modalità relazionali di potere senza condensarli in forme e vettori gerarchici.

* Testo della relazione, presentata col titolo Dalla frammentazione del sapere alla precarizzazione del lavoro, in occasione del Convegno-studi Riforma Moratti: quali prospettive?, organizzato a Palermo dal CESP Sicilia il 4 e 5 maggio 2004.
Salvo Vaccaro insegna Filosofia politica e Scienza politica all’Università di Palermo. Sul tema oggetto del presente articolo, si è già soffermato in Le nuove élites del sapere (“Libertaria”, V, 1, gennaio-marzo 2003). Il suo ultimo lavoro si intitola Globalizzazione e diritti umani (Mimesis, Milano, 2004).