CESP / COBAS

Corso di aggiornamento
LA RIFORMA MORATTI
Venezia, 26-27 marzo 2004, Istituto Algarotti


INDICE

Alessandra Bertotto, La legge 53/2003: Linee generali della riforma
Maria Miseo, Dall'attuale scuola media alla secondaria di primo grado della riforma: un confronto
Piero Castello, L’alunno diventa "apprendista". L’Emilia Romagna anticipa la formazione integrata prevista dalla riforma Moratti
Pino Patroncini, Legge 53: Il declino annunciato del'istruzione professionale trascinerà anche l'istruzione tecnica?
Angelo Zaccaria Istruzione tecnica e mondo del lavoro: quale rapporto è possibile?
Gianluca GAbrielli, Tempo Pieno: una scuola per il futuro
Scheda: ISTRUZIONE TECNICA/LICEI TECNOLOGICI: Il punto di vista delle imprese
Scheda: Documento Confindustria di proposta per la sperimentazione dell’alternanza scuola lavoro.


Alessandra Bertotto
LA LEGGE 53/2003: Linee generali della riforma

La legge 53 del marzo 2003 è una legge delega, la cui applicazione avviene attraverso 11 decreti. Il primo è quello del 23 febbraio sulla scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado.

Il primo problema che si pone è che le decisioni del Governo non solo non devono essere discusse e condivise dal parlamento (il parere delle Commissioni di Camera e Senato è consultivo e non vincolante e comunque è previsto il silenzio assenso), ma che il decreto in più punti va al di là della delega. Due esempi:

  1. nella legge 53 non esiste il tutor, che diventa maestro prevalente nella scuola elementare e orienta le scelte degli alunni sia per quanto riguarda le materie opzionali che la frequenza del secondo ciclo. Il tutor è un punto chiave della riforma, proprio perché indirizzando la scelta delle materie facoltative distrugge i programmi nazionali, compila il Portfolio e cancella la collegialità del lavoro docente, innescando divisione e gerarchia tra gli insegnanti e scavalca anche le prerogative dei contratti nazionali.
  2. la legge 53 prevede l’insegnamento di una lingua dell’Unione Europea alle elementari e dell’introduzione di una seconda lingua dell’Unione Europea alle medie. Il decreto generalizza l’insegnamento dell’inglese e prevede la scomparsa delle altre lingue ad esaurimento.

Questo prevederebbe un’analisi un po’ troppo lunga sull’egemonia culturale del mondo anglosassone, in primo luogo, e sul significato dell’insegnamento della lingua straniera alla scuola di base che, a mio avviso, deve avere un valore di educazione alla diversità, alla conoscenza di altre culture, alla comunicazione. O si vuole giustificare l’egemonia dell’inglese con la spendibilità nel mondo del lavoro (a dieci anni?).

Comunque ritornando alla legge 53, è costituita di 7 articoli:

Art.1: parla di "rispetto dei ritmi dell’età evolutiva", di "scelte educative delle famiglie, (…)in coerenza con il principio dell’autonomia delle istituzioni scolastiche", elementi anche questi che non vengono rispettati dal decreto, né tanto meno dalla circolare 29 del 5 marzo, applicativa del decreto stesso:

1) rispettare i ritmi dell’età evolutiva: il decreto applicativo ci dimostra che la Moratti va esattamente nel senso inverso: 27 ore obbligatorie. Meno tempo scuola vuol dire insegnamento più affrettato, apprendimento più superficiale e taglio di posti di lavoro.

2) le scelte educative delle famiglie si scontrano con le compatibilità di organico dei docenti sia di scuola e a livello nazionale (art.15 del decreto). E poi di quale famiglia si parla? La condizione sociale, economica e culturale può essere molto diversa. In questo concetto è già evidente l’intento di divisione degli studenti che permea l’idea di scuola di questo Governo, in senso esattamente contrario a quello che era l’obiettivo della scuola media unica, istituita nel 1962: un principio di uguaglianza e innalzamento generale del livello culturale.

3)Il Regolamento dell’autonomia DPR 275/99 dice che "Il Piano dell’Offerta Formativa (…) esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa e organizzativa che le singole scuole adottano nell’ambito della loro autonomia (…) e viene reso pubblico e consegnato agli alunni e alle famiglie all’atto dell’iscrizione".

Ma l’autonomia delle scuole viene vanificata nel momento in cui si impone di rifare il POF per l’anno 2004/5 adeguandolo al decreto, che è entrato in vigore dopo la scadenza delle iscrizioni.

Per il resto l’Art.1 parla di un piano di interventi finanziari per attuare la riforma: per istituire il servizio di valutazione; per la valorizzazione, la formazione e l’aggiornamento del personale docente e ATA; introduzione dell’informatica; interventi contro la dispersione scolastica e per l’educazione permanente.

L’Art. 2 prevede il diritto all’istruzione e alla formazione per almeno 12 anni e comunque fino al conseguimento di una qualifica entro il 18° anno di età.

Viene ridefinito e ampliato l’obbligo scolastico e formativo previsto dalla legge 144 del 1999: obbligo fino a 18 anni che può essere assolto in percorsi anche integrati di istruzione e formazione:

  1. nel sistema dell’istruzione scolastica
  2. nella formazione professionale regionale
  3. nell’apprendistato.

Tale obbligo si intendeva assolto con il conseguimento di un diploma o di una qualifica professionale. Questa è una legge fatta dal governo di centrosinistra, che ritroviamo quasi identica nella legge 53, anche se qui non si parla di apprendistato, che prevede rapporto di lavoro, ma di tirocinio, che non lo prevede. Quando la Moratti dice "Non cambia niente"……

In questo articolo si introduce la struttura del sistema:

1)scuola dell’infanzia: si introduce l’anticipo dell’iscrizione dei bambini di due anni e mezzo, che ha creato tante polemiche e proteste per questioni didattico-educative (inserire nello stesso gruppo bambini di due anni e mezzo con bambini che ne hanno anche 6). Anche se la legge dice che "è assicurata la generalizzazione dell’offerta formativa", sappiamo che esistono liste di attesa.

Se poi analizziamo i dati del Veneto (da La scuola veneta dell’Ufficio scolastico regionale,2003) vediamo che attualmente i bambini delle scuole materne paritarie sono 87.100 (di cui 7,5% comunali , pari a 6532 bambini), pari al doppio di quelli presenti nelle materne statali (40068): In questo settore la scuola privata ha come si vede una grossa incidenza. Aumentare la frequenza alla scuola d’infanzia, vuol dire trovare nuovi clienti alla scuola privata.

Altro problema è poi la formazione di classi numerose (all’asilo nido c’è un rapporto di 8/10 bambini con una educatrice,alla materna ci possono essere classi con 28 bambini). Infine manca una figura professionale specifica perché le esigenze educative e didattiche sono diverse con bambini più piccoli.

2)scuola primaria, di cui si parlerà nella prossima relazione. Nella legge comunque si definisce solo la durata, 5 anni (1+2+2), la possibilità di anticipare l’iscrizione ai bambini di 5 anni e mezzo, una generica indicazione in poche righe dei contenuti educativi e didattici, inclusa l’alfabetizzazione di almeno una lingua dell’UE.

3)scuola secondaria di primo grado, di cui si parlerà in una specifica relazione.

Del resto nella legge 53 si dice abbastanza poco: si parla in modo molto generico di conoscenze, abilità e capacità autonome di studio, di approfondimento delle tecnologie informatiche, di studio di una seconda lingua della UE.

Si dice però che la scuola sec. di 1° grado "è caratterizzata dalla diversificazione didattica e metodologica in relazione allo sviluppo della personalità dell’allievo". E qui viene già introdotto il concetto della disuguaglianza che verrà poi concretizzato nel decreto attuativo con il Piano di studio personalizzato e il Portfolio (istituto che nella legge non esiste), che scheda le capacità dell’alunno già dalla scuola dell’infanzia.

La diversificazione didattica e metodologica prelude anche alla scelta precoce del percorso successivo, determinata anche dalle materie opzionali facoltative studiate in terza media su indicazione del tutor. Nella legge si dice infatti, che questa scuola "aiuta ad orientarsi per la successiva scelta di istruzione e formazione". Nella sua applicazione saranno gli "approfondimenti" scelti dalle famiglie con l’assistenza del tutor a "consentire una scelta degli indirizzi formativi del secondo ciclo (…) già per certi versi collaudata".

4) il secondo ciclo prevede:

  1. il sistema dei licei con otto diversi indirizzi:artistico, classico,economico, linguistico, musicale, scientifico e tecnologico.Il liceo dura 5 anni e termina con l’esame di stato. E’ prevista su questo una specifica relazione.
  2. il sistema dell’istruzione e della formazione professionale, con durata 4 anni, per conseguire titoli e qualifiche professionali di differente livello.

Qui sorge un problema: non si parla più di istruzione tecnica, ma solo di istruzione e formazione professionale. In base all’art.117 della Costituzione, in materia di istruzione e formazione professionale "spetta alle Regioni la potestà legislativa".

Che fine faranno gli istituti tecnici, frequentati dal 40% degli studenti italiani? Diventeranno licei tecnologici e economici o istruzione e formazione professionale passando in mano alle Regioni, con un anno di scuola in meno?

E’ evidente il generale abbassamento del livello culturale e di preparazione che questo comporterebbe.

Neppure Confindustria è d’accordo con la Moratti. In un convegno su questo tema di cui forniamo la scheda, definisce gli istituti tecnici una delle "perle" della scuola italiana e considera negativa l’alternativa secca liceo o formazione professionale regionale. Comunque lascio l’analisi a specifiche relazioni di domani.

Altra grave conseguenza è il taglio enorme dei posti di lavoro: un anno di scuola in meno su 5 rappresenta già il 20%, a questo si aggiunge la diminuzione del tempo scuola, che si prevede anche per la superiori (si parla di 27 ore obbligatorie +5), anche se ancora non esiste un decreto specifico.

Sempre nell’art. 2 sono previsti inoltre:

All’Art. 3 si prevede che l’Istituto nazionale per la valutazione verifichi in modo periodico e sistematico le conoscenze e le abilità degli studenti e la qualità dell’offerta formativa delle scuole. Il rischio è che su questo vengano poi determinati finanziamenti alle scuole e meccanismi di carriera e livelli retributivi degli insegnanti, come lascia intravedere l’art. 22 del Contratto nazionale di lavoro.

L’Art. 4 è uno dei cardini della legge, l’alternanza scuola-lavoro vista si dice, come "modalità del percorso formativo" per "l’acquisizione di competenze spendibili nel mercato del lavoro". Prevede che gli studenti possano "svolgere l’intera formazione dai 15 ai 18 anni attraverso l’alternanza di periodi di studio e di lavoro in azienda.

In pratica addestramento. Questi "periodi di tirocinio (…) non costituiscono rapporto individuale di lavoro", quindi se non c’è rapporto di lavoro non c’è retribuzione, lavoro gratuito in sostanza. Ci sono invece contributi per le imprese "disponibili ad accogliere studenti".

E’ previsto un tutor in azienda e un tutor a scuola ("docente incaricato dei rapporti con le imprese"), i cui compiti sono riconosciuti come "valorizzazione della professionalità docente", cioè pagato con il fondo di istituto.

L’alternanza scuola lavoro non riguarda solo gli studenti della formazione professionale, ma tutti gli studenti delle superiori attraverso "corsi integrati, che prevedano piani di studio progettati d’intesa tra i due sistemi", quello dell’istruzione, i licei insomma e quello della formazione professionale.

Anche se ancora non esiste un decreto applicativo, questa parte della riforma è già in atto attraverso accordi tra il Ministero e le Regioni, che prevedono corsi di formazione sperimentali, rivolti ai ragazzi che finiscono la terza media.

Con l’approvazione della legge 53 è stata abrogata la legge 9/99 sull’obbligo scolastico (innalzato provvisoriamente a 15 anni).

Grazie a questa legge, ora abrogata, un numero di studenti fra i 40 e i 50 mila erano stati recuperati alla frequenza della scuola superiore.

Con la sua abrogazione e in assenza di decreti attuativi del "diritto-dovere per almeno 12 anni", previsti dalla Moratti, si è creato un vuoto, che fa ritornare l’obbligo scolastico a 8 anni. Per riempire questo vuoto, ma anche, contemporaneamente, per spingere nel senso voluto dalla Moratti, si sono stipulati gli accordi con le Regioni, che hanno come primo risultato la distruzione di un sistema unitario nazionale: 20 Regioni, 20 sistemi formativi diversi.

Per avere un’idea di cosa ciò significhi, analizziamo cosa succede in Veneto:

nell’anno 2002/3 la Regione ha organizzato 20 percorsi formativi sperimentali di durata triennale, con la partecipazione di 19 scuole e altrettanti centri di formazione professionale, soprattutto del settore meccanico per un totale di 423 studenti.

Il monte ore del primo anno è di 1000 – 30 ore settimanali di cui:

16 ore a scuola, materie di studio: italiano lingua straniera, storia, matematica, informatica, scienze integrate;

14 ore: attività di orientamento e di preformazione.

(fonte: "La scuola veneta: una realtà in movimento" – realizzazione dell’Ufficio Scolastico Regionale per il Veneto –aprile 2003)

Per l’anno 2003/4 la Regione Veneto ha previsto 66 percorsi triennali e 112 biennali per un totale di circa 3000 allievi.

E qualche tempo fa è stato stipulato un accordo tra l’Ufficio scolastico regionale e l’Unione delle Camere di Commercio del Veneto, che ha coinvolto 200 aziende, per realizzare percorsi di alternanza scuola-lavoro per 300 studenti di 11 scuole venete. Ogni scuola, a seconda del proprio indirizzo, formerà una partnership con un’impresa di un determinato comparto, dall’industria ai servizi.

Ma chi garantirà che gli stages siano momenti di formazione reale e non un modo di fornire alle imprese manodopera gratis?

L’Art. 5 tratta la formazione degli insegnanti. Per tutti gli ordini di scuola prevede per la formazione iniziale corsi di laurea specialistica con valore abilitante e, per accedere ai ruoli organici, contratti di formazione lavoro con attività di tirocinio. (ecco i nuovi supplenti! Con quale retribuzione? Con quale condizione giuridica? Con quali diritti?)

Si prevede poi formazione in servizio per il tutor e crediti didattici e abbreviazione del percorso per coloro che sono specializzati nel sostegno, ma non hanno l’abilitazione all’insegnamento.

All’Art. 7 si dice che nel rispetto dell’autonomia delle scuole verranno emanati regolamenti che definiscano la quota nazionale dei piani di studio con orari e organizzazione delle discipline. Quale sia poi il "rispetto dell’autonomia delle scuole" ci viene mostrato dalla circ. 29, applicativa del primo decreto, con la quale si impone alle scuole di rifare il POF per adattarlo alla riforma.

Inoltre si prevedono regolamenti per stabilire gli "standard minimi formativi" dei titoli professionali per passare dalla formazione professionale ai licei e perchè questi titoli siano spendibili a livello nazionale.

Riguardo all’anticipo dell’iscrizione alla scuola dell’infanzia, si dice che ciò deve essere compatibile "con la disponibilità dei posti e delle risorse finanziarie dei Comuni", che come è noto sono state ampiamente tagliate in particolare dall’ultima legge finanziaria.

Tra l’altro si dice "che i decreti legislativi (…) sono emanati successivamente" allo stanziamento delle "occorrenti risorse finanziarie", per cui in un primo momento la Commissione Bilancio del Senato non aveva approvato il decreto.

Non voglio commentare ulteriormente questa legge. Le relazioni avranno modo di analizzare in modo più puntuale la riforma e le sue conseguenze.

Per concludere vorrei solo aggiungere che io credo che questa sia veramente la scuola delle tre I:

IGNORANZA per il grave abbassamento culturale causato prima di tutto dalla netta diminuzione del tempo scuola e non solo

INGIUSTIZIA perché divide gli alunni bravi dai meno bravi, chi ha un retroterra famigliare favorevole da chi non lo ha, gli studenti dei licei dagli apprendisti dell’addestramento professionale

IMPRESA perché sempre più la logica dell’azienda entra nella scuola e l’impresa si sostituisce alla scuola come luogo di formazione.


Maria Miseo
Dall'attuale scuola media alla secondaria di primo grado della riforma: un confronto

Mi piace iniziare questa relazione riportando l’affermazione della ministra alla puntata di Ballaro’ sulla scuola del 4/3/2004: "..non è vero che i nostri studenti sono tra i migliori in Europa.. questo succedeva decenni fa…..ed è per questo che vogliamo tornare a quel tipo di scuola".

Ho citato a memoria, ma il senso è chiaro, le intenzioni esplicite: si vuole tornare alla scuola d’élite in cui, detto spudoratamente, le masse andavano all’avviamento e i signori studiavano ed eccellevano. Si nega allegramente il principio dell’insegnamento uguale per tutti, e si abolisce, quale finalità della scuola "la formazione dell’uomo e del cittadino".

Ma la ministra non l’ha detta tutta …perché la scuola voluta da questo governo non è solo un ritorno al passato, non è solo una scuola in cui si garantisce istruzione per alcuni e addestramento, ben che vada, per altri; è molto più moderna, nel senso che è una scuola aperta al mercato a 360 gradi. La limitazione all’accesso al sapere va di pari passo con la privatizzazione degli "erogatori" di sapere e con la mercificazione del sapere stesso.

Ma vediamo, prima di ogni considerazione, come cambia la scuola media attraverso una sintesi su cui poi ragioneremo.

La scuola media attuale ha un orario settimanale obbligatorio di 30 ore per tutti, ma nella gran parte delle scuole, soprattutto nel nord, il tempo scuola va dalle 33 ore per chi opta per il bilinguismo (comprensive di 3 ore curriculari -cioè comprese nelle 30- di lingua inglese, più tre ore di una seconda lingua comunitaria), alle 36 per chi sceglie il prolungato (in cui le sei ore sono svolte in compresenza, su un progetto formativo unitario, interdisciplinare e/o di laboratorio sull’intera classe).

L’organico dell’istituto è stabilito sull’insieme di queste attività.

Nella scuola controriformata , varata dal governo a colpi di delega," la scuola secondaria di 1° grado è articolata in un periodo didattico biennale e in anno di orientamento e di raccordo con il secondo ciclo ": si abolisce la legge istitutiva del tempo prolungato , si stabilisce un orario obbligatorio di 27 ore settimanali per tutti, più sei ore facoltative di non si sa ancora cosa, più 7 ore di mensa (annualmente 891 ore obbligatorie+198 facoltative + 231 di mensa).

Le 27 ore (comprensive della quota riservata alle regioni, alle istituzioni scolastiche e all’insegnamento della religione cattolica) sono ripartite in un’articolazione per materia compresa tra un minimo e un massimo di ore annue (es. arte e immagine da 54 a 66 ore annue, vedi prospetto in ultima pagina). Si rimette all’autonomia scolastica la facoltà di articolare tale monte ore (in poche parole il collegio deve stabilire se dedicare più ore alle scienze o all’italiano, e immaginiamo tutto il caos che una simile illogica proposta scatenerà).

Si introduce una seconda lingua straniera (ciò significa, è bene sottolinearlo, due lingue in quattro ore contro la media attuale di due lingue in sei ore) e sei educazioni "alla convivenza civile" da "spalmare" all’interno di tutte le materie (ed. alla cittadinanza, stradale, ambientale, alla salute alimentare, all’affettività; tali educazioni non sono discipline a sé stanti).

Nelle dodici discipline obbligatorie comprese nelle 27 ore diminuiscono le ore di lettere (-1 ora e mezza) quelle di inglese (- 1ora e 22 minuti) e scompare ed. tecnica, sostituita da un’ora settimanale di tecnologia ( quindi 2 ore in meno , accorpata con scienze) in cui si studierà informatica insieme, tra le altre cose, all’economia domestica.

Dunque diminuzione del tempo scuola ed aumento delle discipline nell’orario obbligatorio, e personalizzazione nell’orario facoltativo. Tale orario , facoltativo per gli alunni, deve essere fornito dalla singola istituzione scolastica, o in rete con le altre scuole, attivando percorsi richiesti dalle famiglie, utilizzando la dotazione organica corrispondente all’attuale solo per il prossimo anno. Si può far ricorso a prestazione d’opera esterna.

Anche per il tempo mensa solo per il prossimo anno è garantita l’assistenza dei docenti.

- il terzo anno diventa orientativo,

- per il passaggio all’anno successivo bisogna aver frequentato almeno i 3/4 del monte ore annuo, sia obbligatorio che opzionale. "Si può, in modo motivato, non ammettere alla classe intermedia",

- la condotta rientra nella valutazione,

La logica fondante di tutto questo impianto, peraltro caotico e farraginoso, è l’abolizione del percorso formativo unico e l’introduzione di nuove tipologie di percorsi formativi, vale a dire di diversi piani di studio con relativo monte-ore che viaggiano su due binari, un percorso obbligatorio e uno facoltativo.

Il percorso obbligatorio: struttura un’area curricolare forte, separata da un’esperienza di laboratorio, operatività ed espressività proponendo un aumento spropositato dei contenuti in relazione alla contrazione dell’orario; non ci vuole molto a capire che l’insegnante sarà sempre più pressato dall’inseguire il programma portandosi dietro i pochi che ci riescono (e che comunque avranno una preparazione più superficiale) e lasciando gli altri al proprio destino! Che ne è della scuola che dovrebbe tendere all’uguaglianza delle competenze, delle abilità, delle opportunità da dare a tutte le alunne e gli alunni? E dell’handicap, dove hanno già abbondantemente tagliato risorse ed opportunità?

E dove sono gli strumenti, i luoghi, le risorse per ridurre lo svantaggio? Qui lo svantaggio si alimenta e si persegue scientemente.

Analizzando gli obiettivi specifici di apprendimento allegati al decreto legislativo si intuisce l’ipotesi di uno studente "modello" e astratto, quello già socialmente selezionato nell’ottica di un servizio di "eccellenza competitiva", come chiedeva Bertagna.

Tutta l’area espressiva e più fortemente relazionale viene rimandata alla scelta, e quindi considerata in qualche modo non importante e relegata in un ambito solo facoltativo, da gestire al di fuori del gruppo classe e della relazione alunno/insegnante e demandata alla rete di scuole, ad imprecisati educatori e, in prospettiva, ad agenzie del territorio.

Il percorso facoltativo sostituisce il tempo prolungato?

Abbiamo ripetuto a gran voce in questi mesi che 27+6+7 non è uguale a tempo prolungato. La somma di questi numeri è un tempo scuola appiccicato e scisso tra didattica tradizionale e parcheggio doposcuola. Affidato a chi poi? A dei formatori intermittenti, di cui non si specificano le competenze, che agiscono al di fuori di un progetto educativo condiviso dal CdC.

L’attuale TP si basa su un modello didattico-pedagogico pensato, studiato voluto ed estorto per aprire la scuola ad una educazione più completa delle ragazze e dei ragazzi grazie ad un tempo lungo, disteso, che risponda ad una esigenza di crescita che non può e non deve inseguire il ritmo frenetico del consumare e produrre. Un modello in cui si possano usare altri strumenti e metodologie, oltre alla lezione frontale, utili e necessari per la formazione della persona e che diano spazio alla socialità, al gioco, alla interdisciplinarietà, a laboratori che non insistano solo sull’intelligenza linguistica, ma che sviluppino tutte le altre forme di intelligenza.

Una scuola in cui tutte le discipline abbiano pari dignità, perché tutte concorrono alla formazione di una personalità più armonica.

Il senso della compresenza non è un escamotage per accrescere i posti di lavoro, come si è più volte insinuato.

Compresenza significa interdisciplinarietà ma anche individualizzazione dell’insegnamento, perché solo con gruppi di alunni meno numerosi si può essere attenti al bisogno di ciascuno e si può procedere con un percorso comune che tenga conto delle differenze.

Individualizzare significa dare attenzione, tempi e spazio perché il disagio (cognitivo, sociale, psichico) possa essere, se non eliminato, ridotto. Significa prendere per mano chi meno ce la fa ed accompagnarlo al livello del gruppo, significa "integrazione", parola assolutamente assente dal vocabolario della ministra.

Significa in pratica omogeneizzare il gruppo classe perché tutti possano avere delle capacità culturali e relazionali che permettano loro di essere "cittadini" consapevoli e in grado di sviluppare un sapere critico. Qui il gruppo classe viene invece disarticolato contraddicendo la più elementare esigenza che vede nella classe l’ambito di riferimento essenziale per lo sviluppo dei ragazzi.

In poche parole, per "insegnamento individualizzato" si intende l’esatto contrario di "insegnamento personalizzato"

"Personalizzazione", nel nostro modo di vedere significa invece differenziazione e discriminazione: vuol dire che alcuni possano accedere a determinate attività altri no: ciò va contro il diritto all’istruzione garantito dalla costituzione, contro ogni dettame della moderna scienza psicopedagogica (che prevede, secondo le diverse capacità degli alunni, approcci diversi allo stesso sapere e non approcci a saperi "superiori" ed "inferiori") e, cosa ancora più scandalosa, istituzionalizza la scuola di classe poiché, in percorsi personalizzati, le differenze socioculturali preesistenti tendono ad accentuarsi.

La rilevanza data alla personalizzazione fa inoltre perdere alla scuola i suoi caratteri tradizionali di educazione alla cooperazione e alla solidarietà.

La "personalizzazione" è quindi una scelta individualistica in cui, per i motivi più disparati ed estemporanei ognuno va per la sua strada: comoda e piena di opportunità per i ragazzi che hanno alle spalle famiglie piene di opportunità, culturali ed economiche; scomoda e con nessuna opportunità per i ragazzi che hanno situazioni ambientali difficili e/o deprivati culturalmente e/o economicamente (e che sono la maggioranza).

E qui non è casuale l’introduzione del nuovo strumento di valutazione, il portfolio "documento essenziale e significativo dell’esperienza formativa dell’alunno …che offra indicazioni di orientamento e valutazione"che, in quanto strumento valutativo-orientativo schederà non solo le capacità dei ragazzi, fissate una volta per tutte, contro ogni concezione dinamica ed evolutiva della personalità e della preparazione, ma cristallizzerà il suo futuro scolastico : verso l’addestramento o verso il liceo.

Cosa farà un ragazzo che con la sua ora e mezza di inglese e i suoi pochi minuti di informatica non conoscerà né uno né l’altra?

Se avrà le possibilità frequenterà tanti corsi esterni e, visto che il portfolio registrerà tutte le esperienze formative dei ragazzi, quindi anche quelle erogate dalle famose "agenzie esterne (come gli attuali crediti delle superiori) avrà tanti bei bollini, controfirmati da insegnanti della scuola diventati ormai burocrati.

Se non potrà permetterselo avrà un portfolio/portafoglio vuoto e sarà orientato di conseguenza.

Perché il portfolio, più che un registro di valutazione si prefigura come un contenitore di bollini.

Proporre un terzo anno orientativo toglie molto spazio all’attività educativo-formativa delle allieve e degli allievi; considerare orientativo anche il portfolio significa congelare il circolo vizioso - allievo capace/incapace - e farlo diventare futuro attualizzandolo nella nefanda canalizzazione precoce che è il doppio canale delle superiori.

Ribadiamo che il terzo anno della scuola media è esplicitamente orientativo: ciò significa che insisterà sulla personalizzazione e sulla canalizzazione a soli tredici anni!

Così, infatti, recitano le articolazioni del profilo che accompagnano gli obiettivi specifici di apprendimento: "A conclusione del Primo Ciclo di istruzione, il ragazzo è in grado di pensare al proprio futuro, dal punto di vista umano, sociale e professionale. Per questo, elabora, esprime ed argomenta il proprio progetto di vita…collabora responsabilmente con la scuola e con la famiglia nella preparazione del Portfolio della competenze…interagisce con le organizzazioni sociali e territoriali…dimostra disponibilità a verificare con costanza l’adeguatezza delle decisioni sul proprio futuro scolastico e professionale".

Ma sono mai entrati in una classe gli estensori di questo documento?

Questa controriforma si inventa alunni inesistenti e distrugge un modello didattico-pedagogico che mira all’unità della conoscenza grazie all’unitarietà dell’insegnamento proposto e attuato da un consiglio di classe che presuppone collaborazione e lavoro di équipe tra pari che lavorino con e su discipline che hanno pari dignità, pensando e centrando tale attività su un gruppo classe. I percorsi differenziati sono invece gestiti dall’insegnante tutor che "in costante rapporto con le famiglie e con il territorio (a tale proposito si parla anche di "scelte condivise con le comunità religiose"), svolge funzioni di orientamento nella scelta delle attività.., di tutorato degli alunni, di coordinamento delle attività educative e didattiche, di cura delle relazioni con le famiglie e di cura della documentazione del percorso formativo compiuto dall’allievo, con l’apporto degli altri docenti".

E’ questa nuova figura, peraltro non prevista dall’attuale ordinamento legislativo, che orienta i percorsi personalizzati, tiene i rapporti con le famiglie e compila il portfolio, lasciando agli altri docenti un potere meramente consultivo.

Il consiglio di classe viene definitivamente esautorato.

Così anche la gerarchia dei docenti è fatta.: docente tutor- docenti di materie obbligatorie- docenti di materie opzionali.

Passiamo ora ad una breve disamina degli obiettivi specifici di apprendimento; sembra esserci tutto lo scibile umano condensato in un triennio: i programmi sembrano calibrati su quelli del liceo, si elimina tutta la Storia antica, spariscono come d’incanto la rivoluzione russa, quella cinese e la decolonizzazione, si riusa la tesi storiografica dei "totalitarismi" per equiparare nazismo e comunismo…Sparisce dai programmi "l’evoluzione degli esseri viventi", per sostenere evidentemente l’attualità del creazionismo, come già parte della destra americana sta facendo. E’ un altro regalo alla Chiesa o è un autonomo ritorno all’oscurantismo dell’Ottocento?

Il tutto all’insegna dell’ideologia e dell’ignoranza di ciò che avviene realmente in una classe.

E in quanto alla scuola laica? Dalle "articolazioni del profilo": "Il ragazzo ha consapevolezza delle radici storico-giuridiche, linguistico-letterarie e artistiche che ci legano al mondo classico e giudaico-cristiano, e dell’identità spirituale e materiale dell’Italia e dell’Europa; colloca, in questo contesto, la riflessione sulla dimensione religiosa dell’esperienza umana e l’insegnamento della religione cattolica…" Quanto più sano sarebbe stato proporre una storia dell’ateismo come educazione alla tolleranza!

L’impianto di tutta questa controriforma ideologica risulta così organico e funzionale ad un disegno preciso (cambia, cambia, altro che non cambia niente!):

In questo modo lo stato è sgravato dall’ingrato compito assegnatogli dalla Costituzione: garantire il diritto all’istruzione, laica, obbligatoria ed uguale per tutte e tutti.


Piero Castello
L’alunno diventa "apprendista". L’Emilia Romagna anticipa la formazione integrata prevista dalla riforma Moratti

L’attuazione della Controriforma Moratti nella parte relativa alla "formazione integrata" avrà pesanti ricadute su un dato fondamentale ed ineludibile: nell’anno scolastico 2001/02 il 99,3 dei ragazzi licenziati alla scuola media si sono iscritti alla scuola superiore. Il rapporto Isfol 2002 spiega con chiarezza il processo sotteso a questo risultato: "Già negli anni scolastici precedenti questo indicatore aveva segnalato un accesso alla scuola secondaria superiore sempre più consistente in termini percentuali .tanto da risultare sopra il 90 almeno a partire dal 1992/93 e continuando a crescere ininterrottamente nelle annualità seguenti ... Nel 200/01 il tasso di passaggio era salito al 97,0 con un incremento del 12 rispetto a 10 anni prima".

Non vi dovrebbero, quindi, essere dubbi che l’aspirazione e la scelta dei genitori e dei ragazzi era ormai non equivocarle: scuola superiore per il conseguimento di un diploma o della maturità, trascurando e lasciando ai margini una formazione professionale regionale di primo livello deludente, screditata ed inutile.

Questo dato non contestabile porta a valutare la riforma Moratti in materia come un tentativo antipopolare di discriminazione e polarizzazione dei giovani che nel nostro paese era in via di superamento e che comunque vedeva la scuola come strumento di mobilità sociale e promozione democratica. A questa va aggiunta la precocità imposta dalla legge Moratti alla scelta tra scuola e formazione professionale (12 anni), l’abbassamento e/o cancellazione dell’obbligo scolastico, la cancellazione del valore legale dei titoli di studio conseguibili al termine del percorso scolastico negli istituti tecnici e professionali di stato.

Alla luce di questi dati la legge della Regione Emilia e Romagna, relativamente a questo aspetto, suscita il dubbio che non sia altro che un escamotage, un trucco, per trasferire, convogliare i giovani dalla scuola ai Corsi di Formazione Professionale per trasformarli da studenti in allievi. Gli articoli dal 27 al 30 di questa legge regionale, che istituiscono il "Biennio integrato dell’obbligo formativo", le "Finalità" della formazione professionale, le ‘Tipologie", (‘"Accesso alla formazione professionale iniziale" rafforzano il dubbio che il marchingegno serva a traghettare i giovani che si iscrivono agli istituti tecnici e professionali alla formazione professionale.

Ma a leggere i dati relativi alla formazione professionale della regione ci assale un ulteriore e più grave dubbio: la Regione non sta soltanto attuando in maniera soft la legge Moratti ma sta realizzando un percorso che aveva già iniziato in attuazione, forse, della legge Berlinguer.

I dati che alimentano questo dubbio sono i seguenti: nell’anno scolastico 96/97 gli allievi della formazione professionale regionale di primo livello erano 2.056 in 125 corsi, nel 97/98 gli allievi si riducono, nel 99/2000 gli allievi balzano a 15.726 in 360 corsi, nel 2000/01 (ultimo dato disponibile ISFOLO) il numero degli allievi esplode 45.678 in 593 corsi.

Sono numeri che lasciano di stucco, i 45.678 allievi della regione sono un terzo di tutti gli allievi di primo livello in Italia, non c’è nessuna congruenza tra aumento degli allievi ed aumento del numero dei corsi, in 5 anni si passa da 2.500 allievi a 45.000!

Ma dove avviene tutto ciò? In quali strutture, quali edifici, quali aule, quali laboratori, con quale personale, quali insegnanti e docenti? Resta forte il dubbio che il traghettamento, più o meno coatto, più o meno esplicito degli studenti alla formazione professionale in Emilia e Romagna sia cominciato da tempo. Eppure ci sono altri obiettivi che una regione - anche soltanto progressista e pur nel nuovo assetto costituzionale e normativo - potrebbe tentare di darsi invece dì continuare in questa insensata e retriva competizione tra scuola e formazione professionale. Nell’ottica dell’innalzamento a 18 anni dell’obbligo scolastico le Regioni potrebbero istituire nell’ambito delle loro competenze, il presalario per gli studenti degli ultimi anni della scuola superiore, impegnarsi nella realizzazione di residenze studentesche per gli studenti pendolari per rendere effettiva la libertà di scelta negli studi e il diritto alla studio. Organizzare una riflessione e delle sperimentazioni sull’asse o gli assi culturali di ipotizzabili licei professionali. Restituire alla formazione professionale il posto e il ruolo che le dava la nostra Costituzione originari, soltanto successiva all’obbligo scolastico. È proprio nella formazione professionale degli adulti, dei lavoratori, dei lavoratori a rischio, nell’apprendistato dei maggiorenni che la formazione professionale è cresciuta anziché diminuire come la formazione di primo livello.

La prima cosa a mio avviso necessaria è quella di convincersi che non vi è alternativa a conseguire, in modo diretto o indiretto, più o meno graduale, il nuovo obbligo scolastico a 18 anni. L’alternativa è la discriminazione classista, la candidatura di consistenti fasce di giovani all’esclusione e formazione di drop aut nella nostra società.


Pino Patroncini
LEGGE 53: IL DECLINO ANNUNCIATO DELL’ISTRUZIONE PROFESSIONALE TRASCINERA’ ANCHE L’ISTRUZIONE TECNICA?

C’è un grande banco di nebbia, questa volta non in Valle Padana, bensì sul territorio che delimita l’istruzione tecnica nell’ambito della legge 53.
Quest’ultima, storicamente posta in mezzo tra l’istruzione professionale e quella liceale, corrisponderebbe alla prima in quanto alla sue finalità di sbocco sul mercato del lavoro. E’ una scuola da cui si esce con un mestiere, come si diceva una volta: perito, ragioniere, geometra, tanto per indicare le professioni più note. E l’istruzione professionale è andata via via assomigliando a quella tecnica dopo la riforma del 1992, anche se con caratteristiche di intreccio con la formazione professionale, di cui ben poco si è tenuto conto nel formulare le nuove proposte.
Se non che l’istruzione tecnica ha sempre avuto l’ambizione di creare specializzazioni talmente elevate da poter costituire un solido credito anche per lanciarsi in studi universitari, per lo meno in quelli legati ai settori di specializzazione. Vale la pena di ricordare che gli istituti tecnici storici sono anzi nati da una particolare attenzione in questo senso: basta ricordare il Feltrinelli di Milano, filiazione del Politecnico e della più alta scuola di ingegneria italiana, basta entrare al Galilei di Roma, dove, oltre alla maestosità archeoindustriale degli ambienti, nell’angolo dell’isolato c’è ancora semiabbandonata l’abitazione del preside, quasi fosse quella di un rettore destinato a vivere in simbiosi con la sua scuola, basta chiedersi perché Bologna o Firenze vantano istituti tecnici storici non statali ma ancora comunali.

Istruzione tecnica, dunque, anche preuniversitaria, ben prima che la pressione sociale degli anni sessanta e i movimenti che ne nacquero rompessero gli argini delle canalizzazioni precoci e travolgessero le dighe sul percorso della crescita sociale e civile del paese. L’istruzione tecnica andrà dunque a finire nell’istruzione professionale seguendo la propria finalità di dare un mestiere? Oppure finirà in quella liceale inseguendo la sua vocazione più elevata?

Nella morsa del sistema duale.
La differenza non è da poco e non solo perché siamo di fronte a due sistemi separati ma perché è anche evidente la differenza di valore tra i due: uno è astratto e teorico, preuniversitario, l’altro è rivolto all’avviamento al lavoro; uno è quinquennale, l’altro quadriennale; uno si conclude con un esame di stato, l’altro con una qualifica lavorativa; uno avrà una struttura omogenea di tempo spazio e luogo, l’altro potrà essere omogeneo o disomogeneo, "istruttivo" o "formativo", a tempo pieno o a tempo parziale; uno sarà statale, l’altro regionale. In una parola uno sarà di serie A e uno di serie B.
Di uno si sa già quale sarà il profilo perché il Ministero ha a suo tempo convocato i capi di istituto in una riunione nazionale dando loro un documento che lo traccia.
I dirigenti degli istituti professionali invece non sono stati ammessi "al ballo a corte". Loro si dovranno accontentare di discutere regione per regione con i direttori regionali e gli ispettori periferici i termini della transizione. Per loro dunque niente orientamento nazionale: "arrangiarsi", questa è la parola d’ordine, nella più schietta tradizione "ottosettembrina"! E se il buon giorno si vede dal mattino...! C’è stata l’occasione di mettersi alla prova in quell’improvvisato "male minore" dei corsi messi in piedi con l’accordo stato-regioni per far fronte ai guasti provocati dall’arretramento voluto e perseguito dell’obbligo scolastico. Ebbene: tot capita, tot sententiae! 20 regioni e 21 modi diversi di affrontare il problema!
Chi ha insistito sulla titolarità della scuola, chi su quella della formazione professionale, chi metà e metà, chi con gradazioni diverse, e chi, tanto per primeggiare, ha pensato bene di invadere anche il campo della scuola media.

Le 10 aree dell’istruzione professionale
Ma il fatto che non ci siano indicazioni nazionali, non vuole dire che non ci siano intenzioni nazionali. Basta sapere dove trovarle. Ma non perdano tempo i docenti a cercarle in atti ministeriali, che se ci sono non sono pubblici. Ci sono riviste che parlano più chiaro di qualsiasi circolare. Riviste pedagogiche? Nemmeno per sogno! Meglio le riviste di moda, soprattutto se pubblicate da case editrici di proprietà del Presidente del Consiglio. E non si tratta dello scoop estorto all’usciere del ministero, che ha saputo dal commesso al piano del ministro, il quale a sua volta ha guardato nel buco della serratura ecc.ecc. No! Si tratta di affermazioni virgolettate e mai smentite di sottosegretari e consiglieri del Ministro, tanto loquaci coi giornalisti, quanto taciturni con i docenti.

Così da Donna Moderna abbiamo potuto sapere che le aree dell’istruzione professionale saranno dieci e anche belle e definite:
* agricolo-ambientale
* tessile-moda
* meccanica
* chimico-biologica
* grafico-multimediale
* elettrico-elettronico-informatica
* edile e del territorio
* turistico-alberghiera
* aziendale-amministrativa
* sociale-sanitaria
Come si vede, tutto l’arco dell’attuale istruzione tecnica è lì coperto. Grosso modo si tratta delle stesse aree di indirizzo in cui nella precedente riforma Berlinguer si voleva suddividere il liceo tecnico-tecnologico, con una differenza, non da poco: che in quella riforma queste aree di studio sarebbero rimaste statali, a carico del Ministero con un profilo omogeneo agli altri indirizzi liceali, mentre ora diventano regionali con un profilo di avviamento al lavoro.
E d’altra parte il documento sui licei, l’unico che delimiti un quadro omogeneo e nazionale, almeno per quel pezzo di istruzione, pur non parlando dell’istruzione tecnica e men che meno di quella professionale, ci consente di vedere come su un negativo di pellicola ciò che sta di qua e ciò che sta di là. E siccome il liceo vi viene descritto come scuola della teoria e del sapere astratto, tutto ciò che non ricade sotto questa buona stella sta dall’altra parte. E’ evidente.

Cosi chi pensava che il liceo tecnologico e quello economico fossero l’Itis e l’Itc con altro nome è costretto a rimanere deluso.

Il basso profilo del settore tecnico-professionale
Dietro a queste faccende che per il cittadino comune possono sembrare di una istituzionale lana caprina ci sta in realtà il profilo che si vuole dare all’insegnamento nel cosiddetto settore dell’istruzione e della formazione professionale, il quale a questo punto comprende anche quella che finora abbiamo chiamato istruzione tecnica. E il profilo è basso, con buona pace dei governanti che si sforzano di dimostrare che i due settori avranno pari dignità, ma con buona pace anche dei buonsensisti che vaneggiano di un sistema di istruzione professionale proiettato verso chissà quali vette del sapere tecnologico e della preparazione professionale, sempre che sia finanziato. Staremo a vedere quali saranno gli standard fissati e di lì capiremo anche quale sarà lo standard omogeneo da cui, già secondo la legge delega, sarà possibile passare dal sistema di serie B a quello di serie A. Ma se tanto ci dà tanto, il tanto tempo perso finora - troppo, nonostante si potesse partire dal punto di riferimento di una istruzione professionale statale omogenea nazionale - lascia intendere che avremo uno standard a posteriori che sarà la risultante media delle disponibilità regionali.
Per capirci: prendete i 20-21 progetti generati dall’accordo stato regioni, tirate una linea mediana ed il gioco è fatto. A giorni dovremmo sapere questa cosa. Le scommesse sono aperte!
L’istruzione tecnica, così come l’abbiamo conosciuta finora, è dunque destinata a ricadere in questa sorta di buco nero. E questo spiega qualche allarme in casa Confindustria, la quale, dopo aver sposato a Parma tesi di minimaliste, teme ora di dover vendere i gioielli di famiglia.

Gli effetti sull’utenza.
Ma quali saranno gli effetti di un simile profilo? Sull’utenza prima di tutto. Mettetevi nei panni di un ragazzo che vuol fare il ragioniere. Dovrà optare per un liceo economico che gli insegnerà la storia economica e le teorie economiche ma che gli darà niente o poche competenze di contabilità oppure dovrà scegliere un corso di contabilità a cui aggiungerà via via moduli di economia e quant’altro. I suoi genitori sapranno che il primo è nazionale, strutturato, sicuro, proiettato verso l’alto, mentre il secondo è di risulta, di seconda scelta e magari anche un pò accidentato, soprattutto se uno poi dovesse cambiare di regione.
Secondo voi cosa sceglieranno? A meno che uno non sia proprio il più demotivato e svogliato della classe, non vi saranno dubbi: magari con una mano al cuore e l’altra al portafoglio, la scelta cadrà sul liceo. Semmai l’altra scuola servirà nel caso lì dovesse andare male.

Orbene ciò configura una migrazione verso i licei che accentuerà una tendenza già implicita verso gli studi più generalisti, che a sua volta si è già vivacizzata alle prime notizie su queste ipotesi. Oggi circa due terzi dell’utenza stazionano nell’istruzione tecnica e professionale e un terzo in quella liceale. C’ è il rischio che queste quote vengano decisamente sovvertite.
E’ d’altra parte il destino dei sistemi scolastici che adottano un dualismo spinto nella secondaria superiore. Lo dimostra la Spagna dove il rapporto è 60% nei licei 40% nella formazione professionale.
Non lo dimostra la Germania, ma solo perché lì l’accesso ai licei è legato non alla libera scelta di alunni e famiglie ma al raggiungimento di certi risultati già nella scuola primaria. Infatti per ovviare al problema la Spagna si è affrettata ad imitare: in base ai risultati i ragazzi saranno indirizzati a 11 anni in tre direzioni: liceo, fp, lavoro, mediante la frequenza già a quell’età di classi e corsi diversi.
Ma se vogliamo avere un assaggio basta guardare a casa nostra, nell’autonomo Trentino, dove non esiste l’istruzione professionale statale ma solo la formazione professionale regionale, una buona formazione professionale a cui si accede anche dopo regolari concorsi: l’accesso a questa ultima è solo del 14% mentre a livello nazionale nella sola istruzione professionale di stato è al 24%.

Gli effetti sul personale.
Ora se tanto mi da tanto a tre quarti dell’utenza corrispondono tre quarti del personale docente. Forse anche di più, dati gli orari più pesanti - 35 o 40 ore - di questi settori. All’interno di questo ci sono i docenti di tecnica professionale non solo pratica ( gli Itp, diplomati), ma anche teorica (i laureati: ingegneri, architetti, chimici, agronomi ecc.). Oggi sono circa 120.000 su 258.000 docenti della secondaria superiore, "organizzati" nella maggior parte delle oltre 100 classi di concorso con cui l’ordinamento raccoglie le discipline insegnate.

Si tratta di un organico su cui pesa già la spada di Damocle di un passaggio alle regioni e quindi di un eventuale cambiamento del rapporto di lavoro. A ciò si aggiunge il rischio delle disponibilità occupazionali dovute alla riduzione di un anno di corso e a quella degli orari ( 25- 28 ore nei licei). Ma se il flusso degli alunni sarà quello che qui si ipotizza a ciò si aggiungerà il tracollo drastico delle disponibilità: laddove i docenti di tecnica potrebbero servire mancheranno gli alunni, laddove si concentreranno gli alunni di loro non servirà che un piccolo manipolo per una manciata di ore di tecnologia generale.
A poco perciò servono, da questo punto di vista, i ragionamenti fatti scuola per scuola di chi pensa a salvare sé stesso anticipando la riforma con la sperimentazione scientifico tecnologica o certificando la propria qualità per evitare di precipitare nel "regionale". Forse questo tornerà utile ai dirigenti scolastici e magari a docenti delle discipline umanistiche e scientifiche, sempre che la massa studentesca si licealizzi. Ma per docenti di tecnica le chances non sembrano essere molte in ogni caso.
C’è chi pensa che le dimensioni bibliche di una simile operazione ne scoraggeranno di fatto l’attuazione. Ma se biblica è l’operazione, biblico è anche il risparmio che ne deriverebbe a uno stato, che a quel punto gestirebbe solo una quota dell’istruzione superiore, lasciando il resto alla casualità della domanda e ad altri soggetti in grado di arrangiarsi in qualche modo.


Angelo Zaccaria
ISTRUZIONE TECNICA E MONDO DEL LAVORO: QUALE RAPPORTO E’ POSSIBILE? 

I rapporti tra il sistema educativo di istruzione e di formazione e il mondo del lavoro viene citato nella legge 53 all’art. 2, quando fa riferimento all’obbligo formativo introdotto dall’art. 68 della legge 17 maggio 1999 dove dice " è progressivamente istituito, a decorrere dall'anno 1999-2000, l'obbligo di frequenza di attività formative fino al compimento del diciottesimo anno di età. Tale obbligo può essere assolto in percorsi anche integrati di istruzione e formazione:

a) nel sistema di istruzione scolastica;

b) nel sistema della formazione professionale di competenza regionale;

c) nell'esercizio dell'apprendistato."

Più avanti al punto " g " si dice: "il secondo ciclo è costituito dal sistema dei licei e dal sistema dell'istruzione e della formazione professionale; dal compimento del quindicesimo anno di età i diplomi e le qualifiche si possono conseguire in alternanza scuola-lavoro o attraverso l'apprendistato".

L’art. 4, che richiama tra l’altro l’art. 18 della legge 196/97, sull’alternanza scuola – lavoro chiarisce, senza ambiguità, i rapporti che si intendono trattenere con il mondo del lavoro: "al fine di assicurare agli studenti che hanno compiuto il quindicesimo anno di età la possibilità di realizzare i corsi del secondo ciclo in alternanza scuola-lavoro, come modalità di realizzazione del percorso formativo progettata, attuata e valutata dall'istituzione scolastica e formativa in collaborazione con le imprese, con le rispettive associazioni di rappresentanza e con le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, che assicuri ai giovani, oltre alla conoscenza di base, l'acquisizione di competenze spendibili nel mercato del lavoro….. nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi: a) svolgere l'intera formazione dai 15 ai 18 anni, attraverso l'alternanza di periodi di studio e di lavoro, sotto la responsabilità dell'istituzione scolastica o formativa, sulla base di convenzioni con imprese o con le rispettive associazioni di rappresentanza o con le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, o con enti pubblici e privati ivi inclusi quelli del terzo settore, disponibili ad accogliere gli studenti per periodi di tirocinio che non costituiscono rapporto individuale di lavoro b) fornire indicazioni generali per il reperimento e l'assegnazione delle risorse finanziarie…, ivi compresi gli incentivi per le imprese, la valorizzazione delle imprese come luogo formativo e l'assistenza tutoriale….

La Confindustria, forte di questo articolo della riforma ripropone il concetto che l’alternanza non è un nuovo ordinamento scolastico; è invece una " modalità di realizzazione dell’autonomia didattica ", distingue tra l’alternanza lavorativa che coincide con l’apprendistato ( è una alternanza su base contrattuale, l’apprendista è un lavoratore ) e l’alternanza formativa, dove l’utente è giuridicamente uno studente…. " l’alternanza è un metodo per realizzare il progressivo avvicinamento verso la professionalità terminale " .

Non più apprendistato quindi ( è un rapporto di lavoro ) ma alternanza e più avanti stages e tirocinio ( ovviamente non pagati ).

Tra gli obiettivi formativi in particolare la Confindustria individua: obiettivi finalizzati ad aiutare il giovane ad acquisire una conoscenza del mondo del lavoro (ritmi, logiche, stili dell’impresa) e finalizzati all’acquisizione di alcune competenze professionali di base spendibili nel mondo del lavoro e propone tre possibili moduli: iniziale ( per introdurre alla cultura di impresa ), intermedio (che si innesta lungo tutto il ciclo e va quindi sostituire una ben definita quota del programma scolastico ), finale ( si configura come una esperienza di tirocinio ).

Per poter fare questo è necessario:

" 1) Individuare le figure aggregate più richieste dalle imprese e le relative competenze professionali

2) Raccogliere le disponibilità ad offrire posti stage (le imprese devono possedere caratteristiche tali da assicurare la qualità dell’esperienza in azienda)

3) Raccogliere le disponibilità delle scuole e segnalare i posti disponibili

4) Programmare e organizzare i percorsi di alternanza

5) Fornire supporto tecnico per la progettazione e realizzazione dei percorsi

6) Monitorare l’andamento dell’attività. 

Rispetto a queste operazioni, Regione, Direzione scolastica regionale e Parti sociali stabiliscono le opportune intese per definire le adeguate modalità organizzative a livello regionale e/o di singoli territori. "

Nella Regione Veneto le " opportune intese " sono state stabilite con un accordo, presenti tra l’altro le organizzazioni sindacali e le associazioni industriali, il 31 luglio 2003.

Bisogna però stimolare le aziende con ipotesi di incentivi quindi: " E’ opportuno reperire risorse finanziarie per la realizzazione delle attività richieste dal modello formativo proposto (realizzazione di un sistema di accompagnamento/tutoraggio efficace ed efficiente, formazione formatori, incentivazione allievi/imprese, sicurezza allievi nelle imprese, ecc...)."

Cioè "…la formazione realizzata in alternanza deve rappresentare una risposta coerente a un effettivo interesse delle imprese…".

Le certificazioni dell’alternanza entrerebbero nel portfolio delle competenze.

Nel frattempo, però, in attesa dei decreti applicativi anche per il secondo ciclo ( cioè le scuole superiori) si stabiliscono dei Protocolli con le Regioni che intervengono, attraverso percorsi triennali di Formazione Professionale ( della cui qualità qualche dubbio è lecito ), per realizzare l’obbligo formativo.

A questo punto si presentano due problemi che separo per semplicità.

1) il mondo del lavoro si presenta molto articolato: piccole, medie e grandi aziende, imprese artigiane, imprese pubbliche etc. con caratteristiche spesso diverse nell’organizzazione, nel rispetto delle norme, nell’applicazione della l. 626, talune sono anche imprese di copertura, colluse con la criminalità, talaltre assumono in nero o non versano i contributi, e chi più ne ha più ne metta.

Certo è che non può infrangersi la nostra educazione al rispetto della legalità con una realtà che spesso va in direzione opposta. Senza contare la qualità: le nostre aziende non sono sempre in grado di assicurarla, sono necessari criteri certi e non tutte sono in grado di offrirle.

Inoltre i vantaggi che si offrirebbero alle imprese sarebbero quelli di avere manodopera gratuita, per periodi di tempo anche lunghi, e questo nonostante che tutti neghino che ciò avvenga, senza contare gli incentivi ( fiscali? applicazione legge 626 ? etc. ).

2) Ma in tutto questo dove va a finire l’attuale Istruzione Tecnica? I due canali proposti non tengono assolutamente conto della realtà della scuola attuale. L’attuale sistema è diviso in Istituti Tecnici e in Istituti Professionali con acquisizioni di competenze riconosciute anche dalla Confindustria che dice:

" Le soluzioni prevedibili per il futuro dei diversi indirizzi degli attuali istituti tecnici (venire "liceizzati" cioè privati della loro specificità professionalizzante o passare integralmente alle Regioni) non sembrano soddisfacenti.

Sono evidenti in entrambe le soluzioni i rischi di depauperamento di quella che è universalmente considerata una delle "perle" della scuola italiana. "

Questa situazione che preoccupa particolarmente la Confindustria ha ritardato l’uscita dei decreti attuativi per il secondo ciclo a cominciare da quello sull’alternanza scuola – lavoro probabilmente considerato troppo oneroso per le imprese. Ma anche perché gli Istituti Tecnici e gli Istituti Professionali sono fornitissimi di materiale didattico, spesso di avanguardia, che viene usato per la formazione degli studenti, ma anche per la organizzazione di corsi di specializzazione post diploma. Spesso nei rapporti tra singole scuole e singole aziende si verifica che le aziende utilizzino le strutture scolastiche per i propri corsi di aggiornamento.

Certo che uno dei problemi più grossi, al di là dei proclami, è la scarsissima disponibilità delle aziende a rapportarsi con il mondo della scuola, visto come " perdita di tempo ": il sistema delle imprese e del mondo del lavoro è poco propenso ad investire in ricerca, formazione e qualità.

A questo punto ci troviamo di fronte a scelte che non ci piacciono: o lottare per tenerci questo tipo di scuole così come sono ( alcune cose andrebbero messe in discussione ) o per buona pace di tutti finire alla Formazione Professionale ( 4 anni anziché 5 ) di competenza regionale – abbiamo 21 Regioni e quindi 21 sistemi diversi - o finire liceizzati (quali sarebbero in questo caso i moduli orari relativi, le discipline, gli organici necessari, etc… ).

Ed inoltre la proposta di polo di eccellenza della Confindustria ci può interessare ?

" Il futuro dell’istruzione tecnica professionalizzante sta nel costituire una sorta di aristocrazia della "filiera professionale" del sistema educativo italiano.

In questo senso Licei tecnologici a indirizzo fortemente professionalizzante da un lato rassicurerebbero giovani e famiglie sulla qualità del percorso formativo scelto.

Questo tipo di Istituti potrebbe essere direttamente collegato ad un’offerta formativa più ampia e modulare che preveda nella stessa sede:

L’insieme di questa offerta formativa da realizzarsi nell’ambito delle competenze delle Regioni potrebbe favorire la percezione che il sistema di istruzione e formazione professionale è "plurale" e assicura ai giovani una varietà di offerte corrispondenti a diverse tipologie e a diverse domande.

Qui la Confindustria considera già scontato il passaggio alla competenza regionale ( anche dei Licei Tecnologici? qui c’è poca chiarezza )

La stabilizzazione all’interno di una stessa sede di offerte che vanno dai corsi brevi di formazione ai Licei Tecnologici potrebbe tra l’altro assicurare agli studenti una effettiva possibilità di "passerelle" assistita dai docenti in un ambiente formativo dove istruzione e formazione professionale comunicano e dove è valorizzata la collaborazione con l’industria per stages e forme di alternanza ".

In sostanza ci si rende conto che le " passerelle " sono pura propaganda, teoricamente possibili, ma nella pratica irrealizzabili salvo abbassare anche di molto il profilo per permettere i passaggi.

Personalmente ritengo, e alla luce delle molte aggregazioni avvenute nel passato tra istituti tecnici e istituti professionali, dove la qualità finisce per attestarsi sul profilo più basso, che i poli di eccellenza finirebbero per creare al proprio interno tensioni non indifferenti nei collegi docenti date le diverse modalità e i diversi obiettivi didattici che i vari percorsi si propongono.

Senza contare che sul numero degli alunni spesso ci si gioca il posto di lavoro, i codici delle scuole sarebbero diversi, gli organici divisi a seconda del tipo di offerta formativa: troppo complicato ( però resta sempre il detto: dividi et impera! ).

Il confronto tra il mondo del lavoro e la scuola è un percorso ad ostacoli, soprattutto di fronte ad una " invasione di campo ": i rapporti con il territorio ed il mondo produttivo, anche attraverso esperienze dirette degli allievi, devono essere inseriti in un progetto educativo deciso dal collegio docenti, anche se le proposte riferite ai tutor, sia aziendali che scolastici, tenderebbero a delegittimare il ruolo del collegio docenti e dei consigli di classe.

Le cose già scritte per il primo ciclo con riferimento al tutor varrebbero ancora di più nel secondo ciclo: l’uso del portfolio delle competenze e i relativi orientamenti sarebbero molto più caratterizzanti. Il problema è ovviamente legato alla canalizzazione precoce del primo ciclo che precondiziona le scelte successive, ma anche alla presenza nel territorio di offerta di lavoro troppo specializzato ( il polo chimico ha chiesto nel passato i diplomati Periti Chimici, salvo poi non richiederli più a fronte della crisi di mercato ).

Rapporti difficili quindi dove a soffrirne è la preparazione ai cittadini di domani visti non come soggetti sociali attivi ma come addestrati esecutori acritici. Staremo a vedere.


Gianluca GAbrielli
Tempo Pieno: una scuola per il futuro

Il primo tentativo di cancellazione

Il titolo sembra una contraddizione in termini, quando ci troviamo a riflettere sotto la minaccia della cancellazione. Eppure siamo qui a riflettere sulla coerenza di un modello rispetto ad una società, sulla sua funzionalità in relazione ai bisogni dei bambini, alle richieste sociali, alla capacità di lasciar crescere relazioni e saperi. Inoltre la forza distruttrice di questo ministero non è riuscita a tacitare la protesta nè a scoraggiare le richieste, il che ci lascia forti ambizioni di poter attraversare con perdite limitate questi periodi di attacco

La storia del Tempo Pieno d'altronde non vive questo tentativo di cancellazione come nuovo. Per le lotte che stiamo conducento da oltre un anno possiamo parlare di secondo tentativo di abolizione. Il primo tentativo è cresciuto al termine degli anni Ottanta ed è culminato con l'approvazione della legge 148/90 che bloccava il numero di sezioni di tempo pieno (considerandolo quindi modello residuale e ad esaurimento) e tentava di condurre anche le sezioni esistenti a modularizzare l'organizzazione, cioè a moltiplicare gli insegnanti (si passava da due a quattro) e la segmentazione dei tempi.

In generale questo tentativo faceva parte di una riorganizzazione generale della scuola elementare che, attraverso il "modulo", esaltava il cognitivismo come matrice pedagogica cui sottomettere didattica e tempi. Ecco così crescere la segmentazione dei tempi distesi, ecco l'introduzione di momenti di didattica differenziata come l'inglese, ecco comparire le prime sperimentazioni di test di misurazione degli apprendimenti a risposte chiuse e unitari per interclasse e circolo.

In questo contesto di trasformazioni il primo tentativo di cancellazione del Tempo Pieno aveva una logica complessiva.

Nella gestione delle iscrizione segreterie e direttori spesso scoraggiavano i genitori che chiedevano il modello, introiettando anch'essi l'imposizione di un'ottica residuale.

Nel corso di questi dieci anni però i comitati genitori insegnanti, che già avevano sventato la cancellazione totale minacciata con la prima versione della 148, hanno combattuto in molte realtà questa residualità del modello e, forti di una richiesta crescente che proveniva dalla società e di una coesione interna del modello che in gran parte non si è dissolto nella modularizzazione, hanno ripreso a vincere e a far crescere di nuovo il numero di sezioni attive (seppure molte nuove e vecchie sezioni subivano stravolgimenti importanti, si pensi al modello del "Tempo Lungo" che in alcune città propone un tempo scuola allungato a spese delle compresenza)

Dunque il primo tentativo di cancellazione ha avuto risultati importanti (modularizzazioni, tempi lunghi, segmentazioni eccessive) ed ha patito il contesto generale di contrazioni di spese nel settore pubblico e privatizzazioni (mense, edilizia, servizi di appoggio) e in molte realtà italiane questi tagli invece di ridurre la qualità hanno reso impossibile la crescita e l'attivazione del modello (Sud, cittadine di piccole dimensioni)

Oggi però sappiamo che questo tentativo non ha prodotto neppure una vittoria nell'ordine simbolico: cioè non ha mutato in maniera irreversibile le coscienze e le domande dei genitori italiani. Dati pervenuti da numerosi Uffici scolastici regionali ci anticipano che le domande di tempo pieno sono cresciute, che le richieste dei genitori hanno ripreso a crescere in modo non paragonabile all'anno scorso. Sicuramente le iniziative di quest'anno hanno contribuito a far percepire come realistica questa richiesta, e non solo. Sicuramente chi ha richiesto questo modello riconosce in esso alcune caratteristiche che lo fanno ritenere utile a soddisfare alcune richieste ed esigenze.

A cosa risponde il Tempo Pieno?

Quali sono queste esigenze? Quale percezione è diffusa ad avvalorare l'utilità di scegliere e di difendere il TP piuttosto che altri modelli?

Coscienti che in questo elenco percezioni, realtà, potenzialità e desideri si tengono e si scambiano continuamente, proviamo a sondarne un provvisorio elenco.

1) Il TP è riconosciuto come spazio per permettere ai bambini una crescita sociale, costruita socialmente in una comunità che intreccia momenti di istruzione, di gioco, di cura del corpo... La trasformazione delle città negli ultimi decenni ha modificato la vita cittadina secondo dimensioni che sempre più escludono la partecipazione diretta e autonoma dei bambini. La riduzione del tempo scuola ha come effetto il potenziamento e l'irrigidimento dei momenti di istruzione individuale e l'extrascuola propone un ampio catalogo di attività sportive e culturali che difficilmente risponde anche ai bisogni di uno scambio libero e gratuito di esperienze e relazioni socializzanti. Così il TP propone in controtendenza momenti di gioco libero collettivo, percorsi di didattica di gruppo, momenti di vita collettiva che accompagnano la crescita personale dei bambini e delle bambine.

2) Il TP risponde alle esigenze sociali originate dal combinato di emancipazione delle donne, di accesso al lavoro, di restringimento dei nuclei familiari. Queste esigenze erano già fortissime ai tempi della nascita del TP e tutt'oggi sono in crescita sia per il progressivo impoverimento del valore d'acquisto dei salari che per la progressiva precarizzazione del lavoro che, lungi dal promuovere una libera flessibilità delle scelte e dei tempi familiari, flette i tempi e le risorse delle persone (le loro vite) secondo la volontà volubile del mercato.

3) Il sentimento dell'infanzia è una costruzione storica. Il diritto ad avere momenti di gioco libero e "progettato" ne costituisce un corollario che si fa più forte in relazione allo sviluppo di questo sentimento. Grande nemico di questo sentimento è l'idea che il tempo scolastico debba produrre sempre un risultato misurabile, quantificabile, "spendibile" nel mercato dei saperi. Il TP è organizzazione scolastica che presuppone tempo di gioco, che riconosce nella esperienza scolastica del bambino il tempo per vivere la propria infanzia.

4) Ma non è solo il tempo di gioco a poter essere progettato, nel tempo pieno è tutta la giornata a poter essere progettata producendo, ove funziona, una comunità educativa che offre una risposta notevole e simbolica ad una comunità sociale disaggregata e frammentata. Le scuole a TP possono proporre ...

5) Il tempo pieno è una struttura organizzativa elastica, il che significa esattamente l'opposto di quella flessibilità organizzativa che da alcuni anni tutti i "riformatori" esaltano al solo fine di ridurre le spese e gli organici. Infatti la contitolarità di due insegnanti e 4 ore di compresenza permettono quei percorsi di ricerca, di operatività (il tanto esaltato "saper fare"), di integrazione, di recupero che in strutture orarie rigide diventano impossibili o votati a risultati minimi. In termini generali questa elasticità permette un apprendimento di tipo euristico altrimenti difficilmente proponibile. Inoltre la contitolarità spesso produce sinergie tra gli insegnanti che spesso sono sufficiente ad ovviare a quei fenomeni derivati dalla messa in crisi del ruolo adulto e la cui risposta istituzionale, repressiva e inutile è rappresentata dalla reintroduzione del voto di condotta. Il riconoscimento sulla classe e sulla corresponsabilità dà sicurezza sia agli allievi che agli insegnanti.

Il secondo tentativo di cancellazione

Oggi il tentativo di cancellazione contro cui ci stiamo battendo ha caratteristiche in gran parte diverse. Prima di tutto un secco ragionamento contabile guida la mano dei "legislatori" che non vedono l'ora di tagliare circa 50.000 lavoratori dal già tartassato welfare italiano. A questa secca esigenza si accompagna il richiamo (mistificatorio e pressapochista, vedi le uscite pubbliche del ministro) alla famiglia come luogo privilegiato cui restituire i tempi "rubati" oggi dalla scuola e cui ridare le scelte oggi prerogativa della progettazione degli insegnanti.

A questo rilancio di pretta marca conservatrice (famiglia) e liberista (ore opzionali) si associano il tentativo di incaricare la scuola del compito di trasmettere valori ("distinguere il bene dal male") e di fornire armi per la lotta per l'esistenza nella giungla del lavoro (informatica, inglese, impresa).

Un terzo fattore da non trascurare è costituito dalla continuità del funzionariato ministeriale, quello stesso che è cresciuto negli anni del Primo tentativo di cancellazione e che ora, ben introiettati quei principi, non vede con grosso scandalo la nuova articolazione più secca e conservatrice ma la considera un necessario pedaggio per la realizzazione di grandi snellimenti e flessibilizzazioni.

Eppure le iscrizioni al TP crescono, la fiducia e la richiesta sociale di questo modello è enorme. Inoltre, se queste brevi riflessioni preparate nell'intervallo tra una iniziativa e l'altra hanno qualche fondamento, le motivazioni sociali per chiedere e difendere il TP sono molte e in crescita. Questi presupposti non significano vittoria, ma solo condizioni per vincere. Non può vincere da solo il TP, Non possono vincere da soli i genitori e gli insegnanti.

Occorre ancora crescere con la consapevolezza e l'informazione di cosa significa la riforma, occorre dare continuità e respiro di medio periodo alle mille iniziative che crescono da mille piazze e scuole. Occorre che associazioni, sindacati e partiti si spendano chiaramente anche con i fatti.


SCHEDA: RIFORMA MORATTI. ISTRUZIONE TECNICA/LICEI TECNOLOGICI: IL PUNTO DI VISTA DELLE IMPRESE

Convegno di Fiuggi, Aprile 2003 AREA IMPRESA - FORMAZIONE E SCUOLA della Confindustria

I Licei Tecnologici nella Riforma Moratti

Le soluzioni prevedibili per il futuro dei diversi indirizzi degli attuali istituti tecnici (venire "liceizzati" cioè privati della loro specificità professionalizzante o passare integralmente alle Regioni) non sembrano soddisfacenti.

Sono evidenti in entrambe le soluzioni i rischi di depauperamento di quella che è universalmente considerata una delle "perle" della scuola italiana.

Appare possibile e doverosa una terza interpretazione che punta con decisione a ricomprendere nel secondo ciclo di istruzione anche percorsi che abbiano carattere liceale quanto a spessore culturale ed attitudine a sviluppare autonome capacità di giudizio ed esercizio della responsabilità, ancorché riferiti ad assi portanti di tipo non generalista, quali l’artistico, il tecnologico, l’economico.

E’ soprattutto l’asse culturale di ciascun liceo ad accentuarne o attenuarne le valenze professionalizzanti: oggettivamente deboli nei licei generalisti che fanno riferimento ad ambiti di ricerca non immediatamente traducibili al termine della scuola in posizioni di lavoro, ben più forti invece nei licei riferiti ad ambiti – anch’essi culturalmente significativi – in cui gli aspetti operativi sono parte imprescindibile della cultura assunta come asse portante.

Il generico "saper fare" può e deve diventare "professionalità", immediatamente spendibile al termine della scuola secondaria superiore.

Ciò può avvenire attraverso la impostazione di piani di studio, programmi e pratiche didattiche che sappiano intrecciare aspetti teorici ed approcci operativi.

I licei tecnologici potrebbero dunque a buon diritto ereditare le attuali filiere dell’istruzione tecnica industriale ed agraria, intrecciando elevati livelli di formazione scientifica, tecnica e tecnologica in modo da dare luogo a profili professionalizzanti.

Due importanti risultati:

  1. la salvaguardia di una collaudata tipologia di formazione da una rischiosa operazione di omogeneizzazione (ai licei tradizionali o alla formazione regionale),
  2. la riflessione critica sulle cause dei processi di deprofessionalizzazione della istruzione tecnica.
  3. Cause riconducibili

    1. ad una insufficiente consapevolezza degli effettivi contenuti delle professionalità di settore, e quindi ad una approssimativa impostazione dei piani di studio
    2. alla calante attitudine dei docenti, sempre meno esperti del mondo del lavoro, ad adottare didattiche operative e sempre più identificati in saperi prettamente teorici.

Gli indirizzi del Liceo Tecnologico possono trovare riferimento nei settori operativi che caratterizzano le realtà produttive e dei servizi tecnologici così schematizzabili:

I Licei economici

Nel futuro Liceo economico possono confluire gli attuali istituti tecnici commerciali, con le loro molteplici articolazioni, ovviamente ripensati alla luce del nuovo ordinamento. È perciò proponibile l’istituzione di indirizzi di Liceo economico che propongano percorsi didattici ispirati ai criteri del sapere, del fare, dell’agire, del riflettere criticamente con riferimento ad attività di tipo economico in modo da dare luogo a saperi e figure professionali secondo diversi indirizzi:

Il raccordo tra Licei tecnologici ed economici, alternanza scuola-lavoro, formazione professionale: la convergenza verso Poli di eccellenza.

Combinando le nuove tipologie del Liceo Tecnologico e del Liceo Economico con i percorsi di alternanza scuola – lavoro, si potrebbe aprire una nuova frontiera educativa che attui l’obiettivo di continuità tra i livelli scolastici, eviti separazioni brusche tra Licei e formazione professionale e consenta allo studente percorsi personalizzati e recuperi di scelte fatte in momenti in cui non si disponeva di tutte le informazioni utili per decidere della propria vita professionale.

Questa soluzione risponderebbe alle esigenze di quelle famiglie che temono di far percorrere ai propri figli strade educative di seconda qualità quando non si sceglie la via dei Licei tradizionali.

Il futuro dell’istruzione tecnica professionalizzante sta nel costituire una sorta di aristocrazia della "filiera professionale" del sistema educativo italiano.

In questo senso Licei tecnologici a indirizzo fortemente professionalizzante da un lato rassicurerebbero giovani e famiglie sulla qualità del percorso formativo scelto.

Questo tipo di Istituti potrebbe essere direttamente collegato ad un’offerta formativa più ampia e modulare che preveda nella stessa sede:

L’insieme di questa offerta formativa da realizzarsi nell’ambito delle competenze delle Regioni potrebbe favorire la percezione che il sistema di istruzione e formazione professionale è "plurale" e assicura ai giovani una varietà di offerte corrispondenti a diverse tipologie e a diverse domande.

La stabilizzazione all’interno di una stessa sede di offerte che vanno dai corsi brevi di formazione ai Licei Tecnologici potrebbe tra l’altro assicurare agli studenti una effettiva possibilità di "passerelle" assistita dai docenti in un ambiente formativo dove istruzione e formazione professionale comunicano e dove è valorizzata la collaborazione con l’industria per stage e forme di alternanza.

Istituti d’eccellenza di questa natura ci consentirebbero di essere esportatori di saperi, invertendo una tendenza che vede i nostri giovani costretti a recarsi all’estero per avere gli strumenti di conoscenza necessari per lo sviluppo professionale. E questo costituirebbe il miglior coronamento di una riforma educativa che punti agli obiettivi del miglioramento della qualità dell’offerta, dell’inclusione sociale e della competitività delle imprese.

Le condizioni necessarie

I caratteri peculiari appaiono traducibili in realtà ad alcune condizioni, in parte presenti nella legge e da esplicitare nei decreti, ed in parte da integrare nella manovra.

a) in vista dei passaggi tra indirizzi e tra licei e formazione professionale, b) in uscita verso il mondo del lavoro; c) per il riconoscimento di titoli di studio e qualifiche.

ALLEGATO

ISTRUZIONE TECNICA E IMPRESE

  1. Fisionomia tradizionale ed evoluzione dell’istruzione tecnica
  2. Lo sviluppo delle tecnologie produttive ed il rapido evolversi delle conoscenze hanno suscitato nella società e nel modo stesso di lavorare una domanda di istruzione sempre più complessa esigendo che i programmi scolastici, a tutti i livelli, fornissero una migliore preparazione di base e, soprattutto, una elevata capacita' di adattamento e aggiornamento lungo tutto l’arco della vita attiva.

    In assenza di una ricerca didattica e curricolare capace di interpretare correttamente la nuova richiesta delle imprese (più conoscenze teoriche per dominare le nuove tecnologie) la scuola si è orientata verso l’abbandono progressivo della funzione più professionalizzante, a favore di un generalismo di polivalenza bisognoso di ulteriori percorsi formativi postsecondari a carattere più specialistico.

    L’istruzione tecnica conta attualmente una popolazione di circa 900 mila studenti, e registra un trend non positivo di iscrizioni negli ultimi cinque anni: infatti gli iscritti sono passati dal 42,42% al 39, 59% dell’intera Istruzione secondaria. Probabilmente il calo di iscrizioni è dovuto ad un’attenuazione dell’identità dell’istruzione tecnica, da alcuni anni in bilico tra addestramento e liceizzazione.

  3. Caratteri salienti dell’istruzione tecnica alle soglie della riforma
  4. Gli istituti tecnici comprendono due differenti tipologie:

    1. costituita dagli indirizzi che necessitano di un’ulteriore formazione post-diploma per raggiungere una effettiva professionalizzazione,
    2. costituita dagli indirizzi (meccanico, chimico, tessile, etc.) che consentono agli studenti di conseguire con il diploma la preparazione richiesta dalle imprese, a condizione tuttavia che si potenzino i collegamenti con le imprese e si valorizzino le attività di laboratorio e l'apprendimento esperienziale.

La riforma dovrebbe porsi:

1) Obiettivo di un consistente snellimento del numero di discipline e dell'orario di insegnamento che in molti casi ha raggiunto le 40 ore settimanali, con modalità di apprendimento basate sul saper fare e su un modo di insegnare e di apprendere che relazioni contenuto delle discipline con situazioni del mondo reale e motivi gli studenti a collegare le conoscenze e le loro applicazioni.

2) Valorizzazione dell’autonomia scolastica, occorrerebbe rafforzare il raccordo con le imprese mettendo a fuoco le specificita’ di ciascun indirizzo per agevolare il conseguimento di una preparazione culturale solida che abbia come asse portante la professionalità di settore. La cultura di base deve avere anche l'attitudine a rendere operative le conoscenze acquisite. Tra cultura e professionalità non c’è un rapporto di "aut aut" ma di "et et".

Ne consegue che la richiesta del mondo industriale di maggiore cultura generale per i giovani che escono dalla scuola secondaria superiore non può essere confusa con una rinuncia alle competenze di settore, necessarie per entrare nel mondo del lavoro e concorrere attivamente allo sviluppo delle imprese. Ma non può neppure confondersi con percorsi finalizzati al conseguimento di qualifiche.

  1. Istruzione tecnica e imprese

Una recente indagine svolta da Confindustria nel sistema associativo ha tuttavia posto in luce l'insoddisfazione delle imprese per la sempre più scarsa competenza professionale posseduta dai giovani che escono dagli istituti tecnici.

In breve, l'impresa italiana oggi chiede di riprofessionalizzare l'istruzione tecnica, di dare più peso alle attività di laboratorio e all'apprendimento esperienziale rafforzando la specificità degli istituti tecnici e del loro patrimonio di risorse umane e di capacità professionali.

E' importante che l’attuazione della riforma garantisca l'articolazione dell'offerta formativa professionalizzante e la pluralità dei percorsi e dei soggetti. E’ auspicabile che ci si muova lungo tre direttrici:

  1. Cosa suggeriscono le imprese

Confindustria segnala che il processo di "liceizzazione" ha snaturato la preparazione tecnica. Le imprese suggeriscono di:

Le imprese chiedono inoltre di: