Quando si parla di tecnologia della comunicazione, di capitalismo delle reti, 
  di società della conoscenza si intendono diverse realtà, spesso 
  usate a sproposito e spessi fra loro frammischiate.
  Quando si parla di sapere, formazione, competenze, conoscenze, si fa riferimento 
  a concetti che qualche volta rimandono ad analogie (sinonimi) altre volte presentano 
  sfaccettature differenziate.
L’assunto di partenza è che a più di un quarto di secolo dalla crisi del paradigma taylorista-fordista-keynesiano e dopo un decennio di studi e di analisi sulle nuove forme della produzione e dell’organizzazione sociale, è possibile mettere in luce alcuni elementi portanti che caratterizzano in modo strutturale ed irreversibile il nuovo paradigma produttivo, organizzativo e sociale che opera nel nord-capitalistico del pianeta e che chiamiamo “dell’accumulazione flessibile” (meglio) o “post-fordista” (peggio) e anche “capitalismo cognitivo”.
? La produzione di ricchezza non più è fondata solo ed esclusivamente sulla produzione materiale ma si basa sempre più su elementi di immaterialità, vale su “merci” intangibili, difficilmente misurabili e quantificabili, che discendono direttamente dall’utilizzo delle facoltà relazioni, sentimentali e cerebrali degli esseri umani;
? La produzione di ricchezza non è più fondata su uno schema omogeneo e standardizzato di organizzazione del lavoro, a prescindere dal tipo di bene prodotto. L’attività di produzione si attua in diverse modalità organizzative, caratterizzate da una struttura a rete, grazie allo sviluppo delle tecnologie di comunicazione linguistica e di trasporto. Ne consegue uno scompagimento della tradizionale forma gerarchica unilaterale interna alla fabbrica che viene sostituita da strutture gerarchiche che si attuano sul territorio lungo filiere produttive di subfornitura, caratterizzate da cooperazione e/o comando;
? La prestazione lavorativa si modifica sia quantitativamente che qualitativamente. Riguardo le condizioni di lavoro (l’aspetto quantitativo), si assiste ad un aumento degli orari di lavoro e, spesso ad un cumulo di mansioni lavorative, al venir meno della separazione tra tempo di lavoro e tempo di vita, ad una maggior individualizzazione dei rapporto di lavoro. Inoltre la prestazione lavorativa acquista sempre più elementi di immaterialità: l’attività relazionale, di comunicazione e cerebrale diventano sempre più compresenti e importanti. Tali attività richiedono formazione, competenze e attenzione: la separazione tra mente e braccia, tipica della prestazione taylorista, si riduce sino a sviluppare un connubio di routines e di intensa partecipazione attiva al ciclo produttivo. Alla divisione tradizionale del lavoro per mansioni si aggiunge la divisione dei saperi e delle competenze, aumentando il grado di assoggettamento del/la lavoratore/trice ai tempi del processo produttivo. Tale assoggettamento non è più imposto in modo disciplinare da un comando diretto, il più delle volte viene introiettato e sviluppato tramite forme di condizionamento e di controllo sociale. L’individualismo contrattuale che ne consegue rappresenta la cornice istituzionale giuridica, al cui interno il processo di emulazione e di competizione individuale tende a diventare la linea-guida del comportamento lavorativo.
Ciò che cui preme sottolineare all’interno di questo abbozzo di 
  quadro analitico, è il ruolo assunto dalla conoscenza e dai saperi e, 
  di conseguenza, dai processi formativi.
  Il primo punto è che la conoscenza oggi è un fattore produttivo 
  centrale, soprattutto nelle aree del mondo dove si sviluppano le funzioni di 
  controllo tecnologico, finanziario e organizzativo della produzione materiale, 
  che sempre più viene dislocata ed esternalizzata, secondo filiere produttive, 
  le più disparate, nel Sud del mondo. C’è una catena di subordinazione 
  gerarchica permessa dal fortissimo sviluppo avuto negli ultimi anni dalle tecnologie 
  del linguaggio e della comunicazione da un lato, e le tecnologie del trasporto 
  virtuale e materiale dall’altro. Viviamo in una realtà dove alle 
  autostrade che trasportano merci si sono aggiunte autostrade che trasmettono 
  i flussi di informazione e conoscenze. E il controllo a distanza tramite le 
  tecnologie della conoscenza e del linguaggio consente ai paesi ricchi del mondo 
  di controllare i processi produttivi fatti a migliaia di chilometri di distanza, 
  e di mantenerli sotto quello stesso livello della subalternità e del 
  comando che è insito in un’organizzazione capitalistica, dove il 
  rapporto capitale-lavoro, pur modificandosi nelle sue forme, rimane in un rapporto 
  discriminante e impari, a vantaggio del capitale e a danno delle diverse condizioni 
  lavorative. 
  Si sviluppa così una nuova divisione internazionale del lavoro che a 
  quella tradizionale delle mansioni e qualifiche di origine taylorista aggiunge 
  anche quella generata dalla divisione spaziale della conoscenza e della comunicazione. 
  E’ questa la nuova divisione internazionale dei processi di accumulazione 
  che sta alla base delle dinamiche spaziali globali. La geografia della comunicazione 
  e della conoscenza è anche geografia dell’esclusione. A livello 
  internazionale, siamo di fronte ad un mondo a pelle di leopardo in cui le zone 
  ipertecnologizzate e connesse in rete sono circondate dai mondi della fame e 
  della sete, che comprendono buona parte del pianeta. Quello che è comunemente 
  chiamato il digital divide non è altro che il fattore strutturale che 
  sta alla base dell’accumulazione globale postfordista, senza il quale 
  le leve del comando neoliberista non riuscirebbero ad imporsi. Le gerarchie 
  geoeconomiche che ne derivano sono il frutto di tale divisione iperspaziale 
  della conoscenza e del saper “far rete” o “saper comunicare”..
  Questo avviene grazie al fatto che si è sviluppato un mercato della conoscenza, 
  un mercato in cui c’è scambio di informazioni, scambio di competenze, 
  di saperi. In generale lo scambio di conoscenze, anche se il mercato della conoscenza 
  è molto segmentato al suo interno, si basa sul fatto che la conoscenza 
  sia una merce. La questione è la seguente: la conoscenza (e di conseguenza, 
  da un lato, il processo di trasmissione della conoscenza, ovvero la formazione 
  scolastica, e, dall’altro, il processo di generazione della conoscenza, 
  ovvero l’attività di ricerca scientifica) può essere effettivamente 
  considerata una merce, alla stregua di un qualsiasi fattore produttivo? Sappiamo 
  che, in un’ottica capitalistica neoliberista, diventa merce tutto ciò 
  a cui è possibile associare un valore positivo (prezzo) sulla base del 
  principio della scarsità. La teoria del valore che giustifica il libero 
  mercato è, infatti, il principio della scarsità. Più un 
  bene è abbondante, più il suo prezzo sarà basso, più 
  il bene è scarso, più il suo prezzo sarà alto. E questo 
  spiega perché c’è diversità di prezzi e diversità 
  di redditi; viene presentato, in modo fittizio, come un’equilibrio quasi 
  naturale. La condizione ulteriore che giustifica lo scambio economico è 
  che, contemporaneamente, lo scambio economico sancisce un passaggio di diritti 
  di proprietà. Quando compro un qualunque bene, di fatto compro il diritto 
  di proprietà esclusiva su quel bene: una volta acquistato, infatti, posso 
  fare quello che voglio (anche distruggerlo, invece di usarlo o consumarlo) senza 
  incorrere in nessun reato penale. Lo scambio economico è quindi di fatto, 
  per tutte le merci, un passaggio di diritti di proprietà. Più 
  problematico diventa l’analisi di quei mercati e quelle merci che in qualche 
  modo hanno a che fare o con la natura o con l’essere umano. Per esempio 
  il lavoro. Spesso il lavoro viene considerato, in termini economici, una merce 
  (forza lavoro, merce lavoro). Quello che viene scambiato non è l’essere 
  umano (questo capitava nelle realtà schiavistiche, e, in parte, perdura 
  ancora oggi). Ciò che viene scambiato è la disponibilità 
  lavorativa in termini di ore di tempo di vita, in cambio di un salario che dovrebbe 
  rappresentare il prezzo della disponibilità oraria a lavorare. C’è 
  una separazione tra disponibilità lavorativa ed essere umano in carne 
  ed ossa che ha questa disponibilità (spesso necessità). E questo 
  comporta problemi di alienazione, segmentazione, separazione, tutta una serie 
  di problemi che hanno caratterizzato l’evoluzione del mercato del lavoro 
  capitalistico a seconda dei contesti produttivi. Nelle produzioni fordiste, 
  meccaniche e ripetitive, la separazione tra tempo di lavoro e tempo di vita, 
  cioè tra disponibilità lavorativa ed essere umano, era molto netta. 
  Nel contesto attuale, invece, l’evoluzione delle forme capitalistiche 
  di produzione e la necessità di allargare i termini consentiti dallo 
  sfruttamento delle risorse naturali e umane, hanno portato sempre più 
  ad inserire in un contesto lavorativo tutta una serie di fattori, attività 
  e facoltà umane, che in passato non erano mercificabili: i sentimenti, 
  le relazioni, l’apprendimento, l’esperienza di vita maturata nel 
  corso della propria esistenza. Così come non basta più il processo 
  di controllo della natura e delle risorse naturali, ma si cerca di passare al 
  controllo delle trasformazioni genetiche di queste risorse naturali, un ulteriore 
  processo che incrementa l’intensità dello sfruttamento delle basi 
  stesse della nostra vita, di noi come esseri animali, la natura e tutto il resto. 
  E da questo punto di vista il sistema capitalistico diventa molto più 
  feroce, molto più pervasivo, molto più intensivo. Non produce 
  più solo quantità di merce ma produce anche qualcosa che va al 
  di là della pura e semplice merce. E’ un processo bioeconomico, 
  ma non nel senso di quell’ecologismo radicale degli anni Settanta, esemplificato 
  dagli scritti di Georgescu-Roegen che parlavano di bioeconomica in termini di 
  sfruttamento della natura. Oggi siamo in un contesto bioeconomico non solo perché 
  si sfrutta intensamente la natura, ma si sfrutta soprattutto la vita nel senso 
  di bios. E la conoscenza è l’elemento centrale di questo sfruttamento.
  Lo scambio di conoscenza è, infatti, scambio di emozioni, di vita, di 
  esperienze. Ma la conoscenza non è completamente separabile dall’essere 
  umano. Mentre la capacità lavorativa è in qualche modo separabile 
  e si può scindere dall’essere umano (tanto più il lavoro 
  è alienante), la conoscenza, e l’attività cognitiva fanno 
  parte integrante dell’essere umano. Scambiare conoscenza vuol dire scambiare 
  attività cerebrali-cognitive (il cervello). E’ possibile che tale 
  scambio implichi passaggio di diritti di proprietà? Ovviamente no, perché 
  ogni trasmissione (scambio) di informazione e conoscenza, quando avviene, ha 
  come risultato effettivo la diffusione di tale informazione o conoscenza tra 
  un numero sempre più vasto di individui.. In altre parole, lo scambio 
  di informazioni e conoscenze non implica alienazione del bene venduto da parte 
  di chi vende, come avviene per tutti i beni materiali ed i servizi, per i quali 
  si matura un certo valore e un certo prezzo in base alla loro scarsità. 
  La conoscenza non è scarsa, non potrà mai essere un bene scarso; 
  è un bene che man mano che la conoscenza aumenta produce processi di 
  cumulazione delle conoscenze, e diventa sempre più abbondante. Paradossalmente, 
  più si consuma informazione e conoscenza, invece di diminuire, quest’ultime 
  tendono a diffondersi e a divenire “abbondanti”.E da questo punto 
  di vista, secondo la teoria liberista classica, come i padri dell’equilibrio 
  economico generale hanno scritto, il prezzo della conoscenza dovrebbe essere 
  zero. Il che significa che in un’ottica puramente capitalistica non è 
  possibile esercitare diritti di proprietà sulla conoscenza. Per l’ideologia 
  del libero scambio, si tratta di una contraddizione insanabile: perché 
  la conoscenza abbia un prezzo positivo e diventi quindi merce di scambio, è 
  necessario imporre la struttura della proprietà intellettuale dei brevetti, 
  cioè un sistema artificioso che consenta di imporre un valore a un bene 
  che da un punto di vista capitalistico non dovrebbe averne e dovrebbe liberamente 
  circolare. 
Abbiamo argomentato che la conoscenza non può essere una merce nel senso 
  capitalistico del termine, non è una quindi una merce privata, su cui 
  poter esercitare dei diritti di proprietà, a meno che non si considerino 
  degli interventi ad hoc (brevetti, copyright, diritti di esclusiva, ecc.). 
  Ne consegue che la conoscenza è un bene “comune”, nel senso 
  che è frutto dell’interazione collettiva dell’agire umano 
  e sociale. 
  Anche la trasmissione(formazione scolastica) e la generazione della conoscenza 
  (attività di ricerca) è per forza un attività comune e 
  pubblica. Non è necessario partire da premesse ideologiche anticapitalistiche 
  per arrivare a questa conclusione: anche in un’ottica capitalistica si 
  arriverebbe a tale conclusione se si applicasse una teoria rigorosamente liberista. 
Tuttavia, non è così. E la ragione è chiara. Nel moderno 
  capitalismo cognitivo, la conoscenza diventa una variabile di comando e di dominio 
  che differenzia tra loro gli uomini, un nuovo fattore di gerarchia e segmentazione 
  nel lavoro.
  Siamo in un contesto in cui la differenza tra lavoro manuale e lavoro intellettuale 
  si sta tendenzialmente rimodellando. Oggi la pervasività della conoscenza 
  e la mercificazione imposta alla conoscenza fanno sì che la differenza 
  tra lavoro manuale e lavoro intellettuale stia di fatto venendo meno. Ci sono 
  lavori cosiddetti manuali che richiedono l’accesso ad informazioni, conoscenze 
  e pratiche linguistiche, magari standardizzate e proceduralizzate mediante il 
  linguaggio della macchina informatica, e quindi ripetitive, ma che comunque 
  abbisognano di saperi, copmpetenze, in/formazione. Così come molto lavoro 
  intellettuale, grazie proprio alle tecnologie informatiche, si sta in un certo 
  senso taylorizzando. Non c’è più creatività nel lavoro, 
  creatività in senso “artistico” Il cervello diventa fattore 
  produttivo esattamente come il braccio. Non c’è più separazione 
  tra braccio e cervello, c’è una commistione delle due componenti 
  principali dell’agire umano, il corpo e la mente. E questo, oltre a essere 
  un sintomo del ruolo della conoscenza nei processi produttivi, pone anche il 
  problema di come controllare la prestazione lavorativa. 
  Finché si deve controllare il corpo ci sono organismi disciplinari che 
  consentono di raggiungere lo scopo, ma controllare la mente è un qualcosa 
  più complesso. Lo strumento centrale per raggiungere questo obiettivo 
  è il controllo e la manipolazione del processo di trasmissione della 
  conoscenza. In tal modo si possono ottenere contemporaneamente più risultatio. 
  Da un lato, si selezionano le nozioni di sapere che possono essere diffuse su 
  larga scala, dall’altro, si inducono processi di specializzazione delle 
  competenze sulla base delle esigenze di profittatilità del processo di 
  accumulazione.
  Credo che la riforma universitaria in Italia (quella dei “tre anni più 
  due”), sul modello anglosassone, sia molto esplicativa da questo punto 
  di vista. I primi tre anni di università si chiamano “laurea professionalizzante”, 
  gli ultimi due anni si chiamano “laurea specialistica”. 
  La laurea professionalizzante è finalizzata a insegnare una professione, 
  cioè a fornire una specializzazione in un qualsiasi settore, in un tempo 
  relativamente breve, considerando che c’è un ammasso di conoscenze 
  in continuo accumulo, e quindi comporta necessariamente un processo di specializzazione 
  e selezione tecnocratica rispetto alle finalità operative e lavorative, 
  e quindi innesca il controllo. 
  La laurea specialistica è quella che, a un livello più alto, dovrebbe 
  consentire la formazione di competenze non immediatamente diffondibili. Quando 
  uno studente ha finito i primi tre anni di università è in grado 
  di produrre competenze codificate all’interno dei processi lavorativi, 
  che le macchine informatiche consentono di diffondere. Chi detiene quelle competenze 
  può essere “usato e gettato”, perché c’è 
  sempre qualcun altro che può adoperare quelle stesse competenze, dato 
  che sono competenze interscambiabili. Chi invece va avanti col processo di selezione 
  entra in possesso di conoscenze “tacite”, cioè conoscenze 
  che non sono immediatamente scambiabili attraverso mezzi meccanici e autostrade 
  informatiche, e che invece per essere utilizzabili richiedono la presenza del 
  lavoratore. Il lavoratore ha così un potere contrattuale. 
  Quindi abbiamo una divisione dei saperi con forme di controllo differenziate 
  sui processi di educazione che implicano processi di controllo delle menti, 
  dei cervelli, e quindi in un certo senso processi di controllo sociale. La disciplina 
  della fabbrica viene poco a poco sostituita da meccanismi di controllo sociale 
  che si basano sul controllo della diffusione di informazioni, sapere, conoscenze, 
  in una parola, dei processi formativi in corso. 
  In conclusione, credo sia necessario iniziare a discutere della formazione professionale 
  partendo dai seguenti punti:
1. Il concetto di sapere non è univoco ed omogeneo, così come 
  si presentava all’inizio del ciclo di lotte degli anni ’60 e ’70. 
  In quanto nuova frontiera della divisione del lavoro, il sapere è definibile 
  almeno a tre livelli: 
  ? sapere come formazione tecnica, specializzata e professionale codificata, 
  standardizzata e diffusa; è il livello di base, necessario per l’inserimento 
  nella produzione materiale e immateriale; in quanto sapere diffuso deve essere 
  garantito da centri di istruzione istituzionale (siano essi pubblici o privati), 
  in quanto sapere professionale, la sua diffusione deve essere controllata dal 
  mondo della produzione (il che implica che l’attività di produzione 
  coordina e controlla la distribuzione e i contenuti della formazione professionale 
  ? riproposizione della segmentazione sociale fondata sul sapere e della presunta 
  neutralità della conoscenza).
  ? sapere come competenza e conoscenza tacita, non codificabile, non trasmettibile, 
  esclusiva e individuale; rappresenta la forma di sapere più produttrice 
  di valore aggiunto, pertanto nevralgica per attività produttive competitive, 
  la più “coccolata” soprattutto nell’ambito delle nuove 
  tecnologie e nella risoluzione di problemi logistici; chi detiene tale sapere 
  ha di solito un buon potere contrattuale a livello individuale con elevato turn-over 
  lavorativo ed una flessibilità attiva non subita e, spesso, tende ad 
  omologarsi con la visione imprenditoriale.
  ? sapere come cultura in grado di sviluppare capacità critica e analitica 
  autonoma, in grado di contestualizzare le varie situazioni. E’ la forma 
  di sapere più libera e meno condizionabile dall’apparato produttivo, 
  quindi la più pericolosa e sovversiva. In un contesto di società 
  di controllo e sorveglianza, deve essere negato. E’ il tipo di sapere 
  che rischia l’estinzione. 
2. Si assiste oggi ad un controllo crescente del sapere e dell’informazione, in quanto fattori cruciali di produzione. Ma controllare il sapere, in tutte le sue forme, è comunque qualcosa di complesso e difficile in quanto il sapere è per sua natura sapere individuale, dell’individuo. In ciò sta una potenziale contraddizione. Il controllo del sapere avviene tramite processi forzati diretti e processi indiretti di controllo della coscienza individuale. Un esempio del primo caso è costituito dalla proposta di formazione professionale obbligatoria sino a 18 anni. Un esempio del secondo caso è la costruzione del senso comune dominante relativo alla necessità di dotarsi di saperi professionali per avere più chanches di migliorare la propria capacità lavorativa, senza avere gli strumenti o senza rendersi conto che si tratta di saperi professionali standardizzati e trasmettibili.
3. Il risultato è che più aumenta la formazione professionale più aumenta il livello di “ignoranza”, dove per ignoranza si intende l’incapacità di contestualizzare e di sviluppare un pensiero critico.
4. Si tratta di una contraddizione in fieri su cui è necessario operare.