Quaderni CESP BOLOGNA, n. 2 - Gennaio 2003

Suppl. a "Fuori Registro" giornale dei Cobas dell’Emilia-Romagna, n. 3, dic. 2002

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I fantasmi dell’ "altro"

Atti della giornata di aggiornamento CESP sul razzismo

e

interventi in occasione del Giorno della memoria 2003

A cura di CESP, Bologna / COBAS   Emilia-Romagna

Indice

Redazione Cesp, Le vetrine di Auschwitz

Legge 20 luglio 2000, "Giorno della Memoria"

Redazione Cesp, La censura dei libri di storia

Alberto Burgio, Sulla logica del discorso razzista

Adel Jabbar, Identità plurale dello straniero

Mario Marcuz, Fratelli minori. La difficile pratica dei diritti per i migranti

Rossella Ropa, Storia e memoria dei lager nazisti: il racconto di Nella Baroncini

Gianluca Gabrielli, Insegnare il razzismo. Docenti e presidi di fronte al razzismo di Stato fascista

Daniela Antoni (a cura di), Trieste: frontiera della memoria. Intervista allo storico Giovanni Miccoli

Cristiana Fiamingo, Tra storia e memoria: l’esperienza sudafricana della commissione per la verità e la riconciliazione

Mario Zamponi, Memorie smarrite. Lumumba, chi era costui

Gli autori dei testi

 

Le vetrine di Auschwitz

"Le vetrine di Auschwitz sono giustamente mute a chi non le investe di una partecipazione presente". Franco Fortini, 1993.

I fantasmi dell’"Altro" è il secondo Quaderno che la sede di Bologna del CESP – Centro Studi per la Scuola Pubblica – riesce a produrre. Dopo La scuola: prove di resistenza, la raccolta di interventi sulle parole chiave della vecchia e nuova scuola, non era scontato che si riuscisse a dare continuità al lavoro. Invece mentre esce questo nuovo opuscolo diviene attivo anche lo spazio web dell’associazione, grazie alla rete Iperbole. Per i prossimi mesi sono in preparazione almeno altri tre quaderni; la nostra speranza è che questa associazione assuma sempre più la funzione di libero luogo di incontro-confronto tra individui che operano nella scuola e considerano questo operare un aspetto cruciale della lotta per la democrazia e l’uguaglianza. Continuiamo il cammino...

Come CESP Bologna avevamo iniziato il percorso sul razzismo e sulla memoria con la giornata di aggiornamento per insegnanti dell’aprile scorso. L’iniziativa cadeva quando ancora il Centro di Permanenza Temporanea di Bologna non funzionava e la legge razzista sull’immigrazione denominata Bossi-Fini non era stata approvata in via definitiva. Oggi, a meno di un anno da allora, tutto è peggiorato in maniera drammatica. Ci troviamo a vivere in una nazione in cui vigono norme razziste che infrangono i dettami costituzionali disconoscendo importanti diritti civili e sociali ai cittadini definiti extracomunitari. Contro tutto ciò siamo scesi più volte in piazza e continueremo a farlo. Ma non basta. Consapevoli che la lotta al razzismo richiede il nostro impegno giorno per giorno, abbiamo creduto importante riprendere la parola anche a livello culturale, convinti che il dibattito delle idee costituisca un’azione fondamentale, un aspetto importantissimo della lotta per la costruzione dell’uguaglianza e la liberazione delle differenze.

Questo Quaderno, che mantiene il titolo dell’iniziativa di un anno fa, è il risultato di tale scelta: insieme al contributo degli studiosi che parteciparono alla giornata, sono qui raccolti numerosi altri testi di insegnanti e ricercatori che hanno accettato di arricchire il dibattito sollecitati anche dalla imminente ricorrenza della giornata della memoria.

Alberto Burgio propone una riflessione sul razzismo storico al fine di trarne elementi per una rinnovata teoria: un "razzismo" che non rimanga confinato ai casi in cui emerge esplicito il riferimento al lemma "razza", ma che ne colga la portata più ampia, in stretta connessione con nuovi e vecchi processi di gerarchizzazione e naturalizzazione delle differenze.

Il sociologo Adel Jabbar mostra, a partire da una narrazione autobiografica, il dedalo di percorsi cui l’immigrato è costretto per essere riconosciuto (e riconoscersi) nella propria identità e nei propri diritti.

Mario Marcuz affronta lo stesso argomento partendo dall’esperienza accumulata da avvocato che ha operato la scelta - militante - di essere a fianco dei soggetti meno tutelati e più esposti ai corto circuiti del pregiudizio e della criminalizzazione.

Sul versante storiografico Rossella Ropa riflette sull’esperienza della deportazione femminile a partire della memoria orale di Nella, deportata politica nel campo di Ravensbrück durante il secondo conflitto mondiale. Coglie poi l’occasione per fare il punto sulle grandi potenzialità della storia orale e sulle avvertenze metodologiche che occorre rispettare nella messa in pratica.

Gianluca Gabrielli affronta il nodo del rapporto tra razzismo di Stato fascista e mestiere d’insegnante, a partire dalle tracce d’archivio di una progettata ma mai realizzata Mostra della Razza del 1940.

Daniela Antoni, insegnante a Trieste, riflette insieme allo storico triestino Giovanni Miccoli sui processi di revisionismo storico e della memoria pubblica che si vanno dispiegando in questa città di frontiera.

Infine due ricercatori specialisti dell’area africana e redattori della rivista "Afriche e Orienti" accompagnano il nostro sguardo su zone spesso dimenticate del pianeta. Cristiana Fiamingo ci aggiorna, con grande competenza, sul particolarissimo processo di rielaborazione pubblica del passato razzista in atto in Sudafrica.

Mario Zamponi sceglie per noi una memoria scomoda, quella di Patrice Lumumba, il cui assassinio giace rimosso nei sottoscala della coscienza sporca dell’occidente che stroncò sul nascere i più promettenti processi di decolonizzazione.

Nel comporre questa raccolta abbiamo cercato, con la preziosa collaborazione di insegnanti e ricercatori, di affrontare le grandi questioni della memoria senza timore di leggere il passato con l’occhio al presente e di indagare il presente con la forza della conoscenza storica. Al lettore il compito di giudicare se il risultato è all’altezza dell’ambiziosa intenzione.

12 genn 2002 – Redazione Quaderni Cesp Bologna

 

Legge 20 luglio 2000, n. 211

Istituzione del Giorno della Memoria

in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico

e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti

Art. 1.

La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.

Art. 2.

In occasione del "Giorno della Memoria" di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere.

La censura dei libri di storia

Da due anni a questa parte il centrodestra sta tentando in tutti i modi di istituire organismi di controllo e censura che intervengano a condizionare la produzione dei testi scolastici di storia. L’ultimo atto è la Risoluzione della VII Commissione della Camera approvata l’11 dicembre 2002.

Questi tentativi mirano a rappresentare "la storia-disciplina […] come un semplice ed opportunistico strumento al servizio del ‘vincitore’ per (ri)fondare il sistema politico-istituzionale e legittimare una nuova élite dirigente" (Luca Baldissara); alla didattica della storia viene attribuita la maschera riduttiva e grottesca della lettura del manuale agli studenti-clienti. Scompare la pratica della disciplina come scelta e lettura critica delle fonti, come tentativo di comprendere il presente attraverso la lettura critica e plurale del passato.

Non possiamo che ribadire la nostra netta opposizione, già manifestata in altri momenti, verso questo ennesimo attacco alla libertà di insegnamento e di apprendimento che vede tra i suoi maggiori artefici un deputato e consigliere comunale bolognese autore, poco più di un anno fa, del famoso "telefono spia".

In questa sede è sufficiente aggiungere alcuni aspetti che non hanno trovato spazio nel dibattito condotto sugli organi di stampa mentre ci paiono di grande importanza per comprendere fino in fondo la questione sollevata:

1) La scelta del libro di testo è collegiale, cioè frutto della competenza disciplinare e didattica degli insegnanti e dell’opinione critica di genitori e studenti eletti nell’ambito degli organi collegiali partecipativi. Censurando i libri quindi si limitano i diritti di questi organi democratici, in tutte le loro diverse componenti.

2) L’insegnante è il mediatore tra allievi e testi. Chi è intervenuto nel dibattito l’ha fatto come se l’insegnamento della storia fosse on-line, senza mediazione didattica. La mediazione didattica significa confronto tra testi, lettura critica, approfondimenti, costruzioni di spazi di autonomia dello studente, … Che tutto ciò sia stato dimenticato è indice del basso livello, spesso solo strumentale, della discussione in atto che esclude chi opera nella scuola: insegnanti e studenti.

3) La produzione dei libri di testo è sottomessa a vincoli fortissimi dalle leggi del mercato. Sono pochi gli autori che possono autonomamente decidere cosa scrivere senza l’intervento degli editori che hanno a cuore la vendita e non la scientificità o l’efficacia didattica. Dimenticare questa dimensione è perlomeno fuorviante.

Redazione Quaderni Cesp Bologna

 Sulla logica del discorso razzista

di Alberto Burgio

[Testo di una relazione presentata al convegno internazionale "Europa" svoltosi a Napoli nel 1993 per iniziativa dell’Ist. Italiano per gli Studi Filosofici, poi pubblicato su A. Burgio, La guerra delle razze, Roma, Manifestolibri, 2001].

 Non racconterò una storia: cercherò di presentare una discussione teorica, che naturalmente dalla storia prende spunto e con la storia cerca di fare i conti - una discussione dell’idea di razzismo e una sorta di tentativo di ridefinire questo termine in una maniera che, appunto, prenda sul serio la storia e i problemi che questa ha via via posto.

Per entrare subito in tema, direi che se dovessi porre una epigrafe ad introdurre questo discorso la trarrei da un classico della psicologia novecentesca, Pensiero e linguaggio di Lev Vygotskij. Vygotskij afferma che un dialogo "richiede sempre che gli interlocutori sappiano di che cosa si tratta", siano al corrente dell’argomento e conoscano già sin dall’inizio soggetto e tema della conversazione1. Ebbene, se noi ipotizzassimo che l’argomento di questo immaginario dialogo sia il razzismo, il presupposto di Vigotskij sarebbe falsificato. Quando ci sono di mezzo il razzismo, la razza e le teorie razziste o "razziali", ciascuno di noi ha in mente cose diverse: ancora oggi, a dispetto del fatto che di questo tema si parla da decenni (e in qualche misura potremmo dire, ma forse già fraintendendoci, da secoli). Beninteso, questo scarto in qualche modo si verifica sempre: però nel caso della razza e dei razzismo davvero noi ci muoviamo nella preistoria di una trattazione scientificamente accettabile. Non vorrei sembrare presuntuoso, dare l’impressione di pensare di essere in possesso di una nuova teoria, finalmente "vera". Ritengo tuttavia che in tema di razza e razzismo siamo alle prese con fondamentali problemi definitori, semantici ancora lontani dall’essere, non dico risolti, ma persino messi a fuoco.

Per avvalorare questa desolante considerazione comincio con una duplice citazione che traggo da uno dei più affidabili strumenti enciclopedici di grande divulgazione, una enciclopedia in un unico volume della Zanichelli, un’opera importante, non tascabile, un attendibile centrifugato, per dir così, del ‘senso comune colto2 (ed è proprio in considerazione di tali pregi chemi sembra corretto assumerla come pietra di paragone in queste riflessioni). Questa citazione riguarda i lemmi razza e razzismo che, come vedremo, sintetizzano con chiarezza quello che tutti noi, in maniera più o meno consapevole, possiamo condividere. Secondo questa enciclopedia la razza è "l’insieme degli individui di una specie animale o vegetale, che si differenziano da altri gruppi della stessa specie, per uno o più caratteri costanti o trasmissibili ai discendenti". Quindi siamo dentro un insieme - la specie - all’interno dei quale la razza si distingue dalle altre componenti in base a elementi che si trasmettono di generazione in generazione. Passando al caso specifico della specie umana, questa definizione continua: "relativamente all’uomo, la razza, è una suddivisione degli abitanti della terra, secondo determinati caratteri fisici, tipici di ogni gruppo: colore della pelle, forma degli occhi e del cranio, statura media".

Fin qui, dicevo, difficilmente potremmo eccepire alcunché. Abbiamo i generi e dentro i generi le specie, cioè le razze, caratterizzate da caratteri fisici trasmissibili. In questo caso chi ha composto i lemmi si rende la vita particolarmente facile facendo riferimento a caratteri fenotipici, cioè visibili, ma si potrebbe estendere la definizione a caratteri non immediatamente visibili:

fin qui non c’è problema. Se però passiamo alla seconda citazione, quella che riguarda il concetto di "razzismo", si pongono immediatamente diversi problemi. Per l’enciclopedia il razzismo è una teoria che "esalta le qualità superiori di una razza umana e afferma la necessità di conservarla pura da ogni commistione con altre razze, respingendo queste o tenendole in uno stato di inferiorità". Che cosa è legittimato a pensare il lettore della enciclopedia Zanichelli?

11 lettore a questo punto penserà che - posti un genere e le sue varietà specifiche, individuate da caratteri ereditari - il razzista sia colui che, data tale base, afferma: "mi vanno talmente bene i caratteri di questa razza che adesso io mi batto per conservarli puri nel tempo". Questa è l’idea che l’enciclopedia suggerisce e non c’è nessun motivo di ritenere che chi ha composto queste voci abbia voluto confonderci le idee, e tantomeno fare opera di fuorviamento a vantaggio delle teorie razziste. Semplicemente ha conferito una forma nitida a un discorso che appare al senso comune fondato. Questi sono i tempi logici del discorso. Cioè prima c’è la razza e dopo il razzismo, che vuole conservare pure le razze che esistono.

Perché ho cominciato col dire che siamo nella preistoria per quello che riguarda una sufficiente chiarezza concettuale in tema di razzismo? Perché credo che le cose stiano esattamente all’opposto rispetto a questa posizione del problema. Cercherò di mostrare come, se si vuole capire che cos’è il razzismo, occorre rovesciare la sequenza e arrivare a dire che le razze non esistono o che, se esistono, in nessun senso sono - questo è un primo paradosso - rilevanti per il discorso razzista; e che, a sua volta, il discorso razzista opera con "razze" che non hanno nulla a che vedere con le razze eventualmente esistenti. In una parola: lungi dall’essere le razze la materia prima su cui il discorso razzista lavora, al contrario le "razze" con cui il discorso razzista lavora sono prodotte (inventate) dal discorso razzista. Come si vede, rispetto al discorso implicito nella catena concettuale dei due lemmi che leggevo, il discorso va ribaltato di 180 gradi. Insomma, saremmo soddisfatti se, invece di leggere che è razzista chi esalta le pretese qualità superiori di una razza, leggessimo - ma nessuno lo ha mai scritto, tanto meno in un’opera divulgativa —che il razzista professa una teoria che costruisce razze, attribuendo a determinati gruppi umani qualità particolarmente brillanti (o particolarmente indecenti). In realtà, il più delle volte particolarmente indecenti, considerato che il razzista non è tanto colui che si "autorazzizza", quanto chi "razzizza" un altro per poi confinarlo in una condizione disagevole o per eliminarlo senza tanti problemi (in questo caso l’autorazzizzazione costituisce una premessa implicita).

 INTERPRETAZIONI DEL TERMINE

Che questo conflitto di interpretazioni o di posizioni non attenga ad uno scontro di opinioni lo dimostra il fatto che, in qualche modo, il conflitto sta dentro il medesimo senso comune. Per un verso il senso comune si rispecchia pacificamente in queste due voci dell’enciclopedia. Nessuno è colpito immediatamente dal fatto che in base a questa interpretazione le cose non funzionano. Il senso comune, in generale, si trova abbastanza bene di fronte a questa definizione. Ma, come osserva Gramsci, il senso comune è il "folclore della filosofia", una sorta di contenitore di frammenti e di pezzi di concezioni del mondo e di visioni filosofiche che hanno provenienze distinte e diverse strutture complessive3. Il senso comune è contraddittorio, è problematico, è il luogo di inconsapevoli conflitti.

Per quanto riguarda il nostro discorso, uno dei conflitti interni al senso comune che impediscono una concettualizzazione coerente del razzismo è testimoniato da un fatto. Per un verso, dicevamo che tenderemmo ad accettare le definizioni della Zanichelli; per l’altro tuttavia usiamo l’idea di razzismo in connessione con fenomeni, con processi, che non hanno nulla a che vedere con l’impostazione che l’enciclopedia dà al problema. Tanto è vero che, per esempio, parliamo di razzismo anche in relazione a vicende come le "pulizie etniche" nella ex-Jugoslavia o in relazione a tipici conflitti nazionali (tra turchi, iracheni e kurdi; tra inglesi e irlandesi; tra israeliani e palestinesi), o, ancora, alle contrapposizioni sorte in seno a singole comunità nel corso della loro nazionalizzazione (o modernizzazione), come nel caso dei nostro paese. Si parla di razzismo a proposito della persecuzione che Turchia e Iraq compiono a danno della minoranza kurda; a proposito del genocidio verificatosi in Rwanda; delle violenze che hanno costellato i rapporti fra il Regno Unito e l’Irlanda e tra la Spagna e il paese basco. Si parla di razzismo nei confronti degli ebrei e certo nessuno se ne stupisce. Si parla di razzismo anti-meridionale nella vicenda italiana: se ne parlò nei primi decenni dei secolo, sulla scia delle polemiche suscitate dalle tesi di Niceforo e Sergi e se ne parla oggi in margine alla difesa aggressiva delle presunte caratteristiche etniche di lombardi e veneti da parte della Lega Nord e della Liga Veneta4.

Qui si pone evidentemente una questione cruciale. Occorre chiedersi se si tratti di un uso metaforico del termine razzismo; o se non si tratti invece di un uso che denota la percezione in tutti questi fenomeni - che, pure, non hanno nulla a che vedere con elementi che l’enciclopedia citata pone a fondamento delle proprie definizione - la percezione, dicevo, di un tema concettuale e di una sequenza logica effettivamente connessi al razzismo. L’enciclopedia dice che esiste la razza quando esistono caratteristiche fisiche trasmissibili; dopo di che il razzismo ci costruisce

sopra la sua mitologia, caricando di valori positivi o negativi questi gruppi umani. Ma in nessuno di questi esempi (e tanti altri se ne potrebbero fare) sono caratteri fisici trasmissibili di generazione in generazione ad indurre tutti noi a parlare in questi altri casi di razzismo, di conflitti tra razze.

Come si vede, qui c’è un problema. Non credo che sarebbe giusto sostenere che quando parliamo di razzismo anti-irlandese, antimeridionale, antisemita, impieghiamo l’idea di razza come una semplice metafora. Penso invece che questo modo di usare l’idea di razzismo, proprio dal punto di vista scientifico, veicoli molta più verità che non il primo modo di ragionare, che sembrava molto più prudente e concreto. Questo perché? Perché in realtà il razzismo non presuppone mai l’esistenza di una "razza". Non è mai un discorso che prende avvio dall’esistenza di razze diverse. Sto facendo delle affermazioni volutamente estreme. Naturalmente se si pensa al razzismo tra bianchi e neri negli Stati Uniti o in Sudafrica, casi tipici delle relazioni razziali violente, si potrebbe dire che ci vuole del coraggio per sostenere che li il razzismo non parta dall’esistenza delle "razze". Al contrario, sostengo che nemmeno in quel caso il razzismo parte dall’esistenza di caratteri fisici diversi. Anticipo qui un argomento sul quale tornerò, perché mi preme essere comprensibile: la mia idea è che in quei casi ci sia solo una coincidenza tra la presenza effettiva di gruppi umani caratterizzati da fenotipi diversi e le ragioni che stanno alla base del razzismo e che - come vedremo subito- non hanno nulla a che fare con l’esistenza di specifici caratteri fisici. Una coincidenza. Ma tralasciamo per il momento questi casi tutto sommato particolari, visto che le cosiddette società multirazziali sono ancora una minoranza.

Se consideriamo le società "monorazziali" - per esempio la maggioranza delle società europee, che solo negli ultimi anni si avviano a diventare società "multirazziali" (il caso francese è un caso a sé, per la vicenda di un colonialismo assimilatorio relativamente eccezionale) è un fatto che queste società hanno conosciuto e conoscono il razzismo. Che cosa penseremmo di chi negasse che l’Europa è stata (ed è) una culla del razzismo? Ma come potremmo giustificare la nostra protesta se muovessimo dalle definizioni contenute nella nostra enciclopedia? Se ci accontentassimo, per prudenza o per una malintesa concretezza, dell’impostazione di quella enciclopedia, dovremmo desumerne che le violenze che in questo secolo hanno visto contrapporsi gruppi umani diversi non sono razziste: o, peggio, ci ritroveremmo m una imbarazzante compagnia con i razzisti, perché - per parlare di razzismo - dovremmo immaginare che li qualche carattere somatico c’entri. Se razzismo c’è stato e dovesse avere ragione l’enciclopedia, dovremmo dire che alla base di persecuzioni e genocidi c’è qualche carattere fisico ereditario. Credo che nessuno di noi abbia intenzione di imbarcarsi nella impresa difficile e per fortuna votata al fallimento degli antropologi fisici che dovevano dimostrare che gli ebrei o gli zingari o gli omosessuali sono fatti diversamente dagli altri: hanno il naso in un certo modo, il cranio di una certa forma, il sangue diversamente composto... poi si scopre che, per fare solo un esempio, PauI Newman ha origini ebraiche e allora si capisce che qualcosa non va in questo discorso!

Si tratta di fare i conti in maniera seria con la storia europea, elaborando concetti capaci di coprire l’intera fenomenologia del processo storico. Insisto su questo riferimento storico. Non sono d’accordo con Foucault che limita questo discorso al Novecento o al tardo Ottocento, né con Mosse che parte dal XVIII secolo; e al tempo stesso dissento da quanti fanno la storia del "razzismo perenne". La dimostrazione risiederebbe nel fatto che sempre la descrizione del popolo diverso si è avvalsa di stereotipi, della caricatura, della costruzione di immagini stilizzate. Così si perde di vista la dinamica funzionale del discorso razziale, la costruzione di stereotipi naturalistici connessi alla legittimazione di una collocazione sociale: più precisamente, alla giustificazione di pratiche o argomentazioni che entrano in conflitto con i principi universalistici fondativi dei moderno. In questo senso il razzismo è tipico della modernità, una sua patologia specifica, se si vuoi dire così.

Cosa cambia nelle società europee attorno al Cinque-Seicento e soprattutto nei secoli successivi? La modernità ha una caratteristica: cambia il ritmo dei mutamenti, cambia la velocità con cui si trasformano le identità e le funzioni sociali, la collocazione nella società dei vari gruppi che la compongono. Da allora la società è sempre più fluida, attraversata da mutamenti sempre più rapidi. L’ipotesi che varrebbe la pena di verificare è se il discorso razzista non si sviluppi proprio perché produttore di identità stabili nel tempo, di stereotipi che, in quanto lavorano con dementi di presunta naturalità, sono fissi e costanti: in definitiva, se non sia il caso di ipotizzare che il discorso razzista nasce nella modernità proprio come reazione al mutamento. Quando ci si accorge che nella società moderna tutto rischia di cambiare, poiché la mobilità sociale rischia di confondere le carte in maniera inquietante, e quello che mi stava ieri sotto rischia di starmi di sopra domani (e magari già questa sera a mio pari), allora il discorso razzista produce ragioni per cui questa mobilità non è possibile. Non si può cambiare di collocazione perché si è diversi per natura.

Viene in mente Montesquieu, quando rimprovera una eccessiva radicalità alla tradizione storica degli aristocratici. Che cosa dicevano questi ultimi? Sostenevano che quella parte - borghese - della società francese che veniva reclamando la nobilitazione non poteva diventare nobile al pari della vecchia aristocrazia, perché discendeva da un’altra razza. Per sostenere questo argomento si inventarono - in assenza totale di caratteri fisici perché erano tutti francesi - che i non nobili, i borghesi erano discendenti dei gallo-romani mentre i nobili erano discendenti dei germani e dei franchi. Questa mi pare la più inconfutabile dimostrazione che il discorso razzista non ha alcun bisogno di caratteri fisici, ma crea identità razziali per bloccare il mutamento della società.

Dunque si tratta di fare i conti con la nostra storia moderna e di elaborare una interpretazione del razzismo in grado di rendere conto dell’intera gamma di processi di inferiorizzazione che la modernità presenta. Giacché se i concetti ci costringono a continui rappezzamenti successivi, allora vuoi dire che abbiamo sbagliato chiave di interpretazione. Sono convinto che il discorso che sto facendo e che, a dispetto della complessità della faccenda, spero non sia troppo arruffato e confuso, copra l’intera gamma dei fenomeni. Lo ripeto: dobbiamo rovesciare di 180 gradi la prospettiva interpretativa suggerita dalla catena concettuale dei due lemmi dai quali siamo partiti. Non è vero che esiste la razza e poi c’è il razzismo: molto più semplicemente, le "razze" esistono in quanto c’è il discorso razzista. Le "razze" di cui il razzista parla sono interamente invenzioni, costruzioni del discorso razzista. Questa è la mia tesi, ed evidentemente non solo la mia, se è vero che per troncare ogni discussione con chi gli rinfacciava le sue amicizie ebraiche un tipo come Karl Lueger, sindaco antisemita di Vienna a cavallo tra il secolo scorso e il nostro, usava replicare che era lui a decidere chi fosse o non fosse ebreo5. In base a questa tesi è possibile definire la razza di cui parla il razzista, la razza di cui si tratta nelle teorie razziste nei termini di una costruzione simbolica: una invenzione utile (vedremo presto in che senso) nel contesto della lotta ideologica e politica o del dibattito culturale.

 IL CASO EUROPEO: UN "RAZZISMO SENZA RAZZE"

Tutto ciò sembrerà plausibile in relazione al caso europeo, a proposito del quale si suole parlare infatti di razzismo senza razze. Sembrerà molto meno calzante nei riguardi delle società che definiamo multirazziali, nelle quali, come si diceva in apertura, il senso comune si ritrova a proprio agio nell’attribuire al razzista un "cattivo uso" della differenza razziale data. Se consideriamo queste società, formate da gruppi umani fenotipicamente diversi, sembra assurdo, a prima vista, affermare che il razzismo prescinde da tali differenze, ne è indipendente: parrebbe evidente che, almeno in questo caso, il razzismo sorga sulla base delle differenze naturali, come loro perversa valorizzazione. D’altra parte, il fatto che le relazioni tra gruppi fenotipicamente diversi - tra bianchi e neri o tra bianchi e pellerossa - costituiscono il caso paradigmatico di razzismo assolverebbe la impostazione del problema suggerita dalla nostra enciclopedia. Al contrario, anche in questo caso a me pare che tale impostazione rovesci la realtà, istituendo un rapporto tra cause ed effetti che Marx definirebbe feticistico.

Qual è la differenza quando invece di essere in gioco un prete, un calzolaio, un sapiente, un politico sono in gioco un bianco, un nero, un rosso un giallo? In che senso le cose sono - come sembrerebbe - veramente diverse? Sostengo che la sola differenza sta in ciò, che nel secondo caso (quando sono coinvolti gruppi umani fenotipicamente diversi) la costruzione di stereotipi caratterizzati da talune qualità psicologiche, culturali, morali ecc. (cioè la costruzione delle "razze" di cui parla il razzista) sfrutta (nel senso che segue gli stessi confini che separano i diversi gruppi) la esistenza di differenze fisiche visibili. Sfrutta queste differenze approfittando di circostanze (vedremo presto di quale genere) che dobbiamo avere la spregiudicatezza e il coraggio intellettuale di definire casuali (accidentalmente date): non essere razzisti implica insomma comprendere che la enorme sovrastruttura ideologica costruita sui colori della pelle (l’idea, per fare solo l’esempio più ovvio, che nella pelle nera si rifletta una maledizione) sia secondaria ad altre ragioni che di per sé non hanno bisogno della pelle o di altri caratteri fisici e che di tali caratteri fisici si limitano a sfruttare l’eventuale presenza. In questo senso è un caso che il razzismo contro gli schiavi sia anche un razzismo contro i neri. E in questo senso, mentre tutti i non-razzisti sanno bene che - a dispetto di Voltaire - non è vero che si sia schiavi perché neri, bisogna anche sapere dire con chiarezza che si è neri (cioè: si è visti come neri, individuati in quanto neri) perché si è schiavi. Dobbiamo stare molto attenti a non scambiare ciò che viene prima da ciò che viene dopo, perché altrimenti facciamo un discorso squisitamente razzista. A non incorrere in questo errore ci aiutano per fortuna anche i protagonisti della storia del razzismo. Non è una boutade quella di Malcolm X quando diceva di non sapere se si è poveri perché neri o neri perché poveri. La stesso connessione costitutiva tra posizione sociale e appartenenza a una razza è affermata a chiare lettere in una sentenza emessa da una corte della Carolina del Sud nel 1835, dove si afferma testualmente che la "reputazione" costituisce il solo "criterio" per "definire negro un individuo"6.

Il razzista bianco dirà che se quell’individuo è nero, alla sua pelle nera si accompagnano determinate qualità morali: per il razzista non c’è nessuno scarto tra il suo essere fisico e il suo essere morale. Dunque l’unica critica al discorso razzista è stabilire una netta divaricazione tra la qualità morale e la qualità fisica, negare che esista alcun nesso. Di conseguenza, se noi neghiamo l’esistenza di questo nesso, dobbiamo rinunciare a istituire alcuna differenza tra la stereotipizzazione del nero e la stereotipizzazione del calzolaio, tra la stereotipizzazione dello zingaro e la stereotipizzazione del giallo o del pellerossa. Non ci sono vie di mezzo: o i caratteri fisici sono presenti in maniera assolutamente accidentale nella definizione di uno stereotipo, allora diremo che prima c’è lo stereotipo e poi, là dove ci sono, si risale ai caratteri fisici, mentre se non ci sono basta una stella gialla. Non possiamo dire che nei confronti del nero il carattere fisico è tra le fonti del razzismo, altrimenti ci contraddiciamo e facciamo involontariamente un discorso razzista, che regala al razzista anche un elemento di oggettività. La logica del discorso razzista non ha alcun bisogno dell’elemento fisico. Se ne serve, perché è chiaro che è utile avere dei contrassegni nel momento in cui si vogliono produrre effetti materiali, quali la segregazione, la discriminazione, la violenza. Se l’oggetto di tali processi non ha la pelle nera o il suo equivalente fisico? Non importa: la pelle gliela invento e gliela cucio addosso. Creo dei distintivi che possono essere la lingua, una stella gialla, il lavoro, il credo politico. Il carattere di questi contrassegni non ha alcuna rilevanza ai fini della operatività del dispositivo. Il quale ha un unico essenziale elemento costitutivo: la naturalizzazione delle identità (vere o presunte), cioè il fatto che talune caratteristiche (reali o immaginarie) assumono dentro il discorso razzista la qualità di entità naturali. Divengono caratteri intimamente connessi al soggetto nella sua ontologia, radicati, trasmissibili: per cui tutti coloro i quali sono portatori di quel carattere, sono irrimediabilmente vincolati a quella funzione, a quella azione e a quella discriminazione.

COME SI COSTRUISCE LA "RAZZA" CHE NON C E?

Giunti a questo punto e per rendere comprensibile la logica di questo discorso, la domanda alla quale è necessario rispondere proprio per rendere sensata questa ipotesi è la seguente: ammesso che la razza di cui parla il razzista sia inventata, costruita, prodotta sul terreno simbolico dal discorso razzista, quali sono le materie prime con cui viene costruita; il che subito comporta un secondo interrogativo: a quale istanza, a quale interesse obbedisce questa impresa simbolica? Se il razzista si dà pena di costruire questa rappresentazione simbolica, se costruisce la razza che non c’è e che incomincia a vivere a partire dal suo discorso, come la costruisce e perché? Se non sono i caratteri fisici, se non è la

natura, se non sono quegli elementi trasmessi di generazione in generazione come l’ipotesi di partenza suggeriva, allora di che cosa si serve il razzista, con quali mattoni lavora e perché con quelli piuttosto che con altri?

C’è una ipotesi (che a me pare l’unica pertinente) in grado di coprire l’intera fenomenologia dei processi, di spiegare perché tutti quei conflitti ai quali ho fatto riferimento si strutturino sulla base di argomenti di tipo razzista (i baschi, i kurdi, gli ebrei, i meridionali e - perché no? - gli omosessuali, le donne, gli zingari, i sovversivi, visto che c’è anche questo). L’ipotesi è che l’unico vero denominatore comune di tutti i discorsi razzisti (anche di quelli in cui in apparenza sono in questione razze esistenti) è che la fonte costitutiva del discorso razzista siano le dinamiche storico-sociali; e che la scelta della razza dipenda dal fatto che essa consente di ancorare dinamiche sociali e caratteristiche dipendenti dai processi storici a un terreno "naturale" e quindi assolutamente immutabile. L’idea è, insomma, che il discorso razzista consente di tradurre in termini naturalistici (rendendole immutabili) le qualità dei soggetti che esso coinvolge e che in realtà hanno a che fare con i processi storico-sociali (dove quest’ultimo concetto non deve essere declinato in termini riduttivamente economicistici: non è in questione esclusivamente la funzione produttiva dei soggetti, perché altrimenti non spiegheremmo, per esempio, la razzizzazione del nemico politico). Dobbiamo quindi fare riferimento alla funzione che il soggetto (o il gruppo) svolge dentro la società e alla sua collocazione rispetto all’intera articolazione del conflitto sociale-politico. Muovendoci su questo terreno siamo in grado di coprire in maniera pertinente l’intera fenomenologia del razzismo.

Cominciamo proprio dal razzismo classico, quello che sorge storicamente nel quadro delle relazioni tra bianchi e neri. In molte società vi è stata, per ragioni storiche evidenti, una tragica coincidenza tra caratteri fisici e caratteri sociali. Questo è il punto difficile da individuare e da distinguere. Ad esempio nelle società schiaviste moderne gli schiavi sono stati il più delle volte altri popoli con altre caratteristiche fisiche. E allora il razzista ha avuto buon gioco a dire che questi sono schiavi in quanto sono neri. Per questo, se vogliamo capire in fondo il discorso dobbiamo prendere sul serio quella battuta che facevo prima. Gli schiavi sono neri in quanto sono schiavi. E’ l’essere impiegato come schiavo che ha costruito, nel corso del tempo, l’immagine del nero. Se i neri non fossero stati schiavi non si sarebbe costruito un discorso sul nero: ad esempio, non si sarebbe costruita quell’antropologia che ha fatto del nero l’essere inferiore che sappiamo7. Tanto è vero che prima della schiavitù, quelle popolazioni non erano neppure viste come nere: abbiamo una cospicua serie di testimonianze dell’incontro tra l’europeo bianco e gli africani ove il colore della pelle non è citato mai. Quasi non se ne accorgessero nemmeno, così come nessuno di noi oggi qui in questa sala penserebbe di dividerci tra biondi e bruni.

Non è che non vediamo che alcuni di noi sono biondi ed altri sono bruni, altri calvi e altri castani: è che nessuna tra queste distinzioni corrisponde ai diversi ruoli svolti dai membri di questa micro-comunità. Ma ove ci trovassimo distinti in base alle funzioni che svolgiamo, allora potremmo trovare utile (allo scopo, per es., di confermare questa distinzione) sostenere che le diverse componenti del nostro gruppo presentano diverse caratteristiche morali (e qui sorge il razzismo); dopodiché avremmo la preoccupazione di rendere visibili queste caratteristiche, appoggiandoci sui caratteri fisici esistenti (se, per caso, i conti dovessero tornare, perché i biondi svolgono effettivamente una funzione diversa da quella svolta dai bruni), oppure inventandoceli ad hoc.

 IL SESSISMO

Ora consideriamo un caso che con grande difficoltà si suole inserire nel quadro analitico del discorso sui razzismo. Poc’anzi, per dimostrare come l’ipotesi della trasmissione dei caratteri fisici non funzioni, ho fatto l’esempio di alcuni conflitti interetnici, come il conflitto israelo-palestinese. Dicevo: il senso comune ha ragione a suggerire che li c’è una dinamica di tipo razzista. Ha ragione, ma naturalmente non ce lo si spiega se si parte dai caratteri fisici. Lì c’è un problema che ha a che fare col conflitto sociale e con il conflitto bellico - che con il conflitto sociale ha sempre una stretta connessione. Il punto è che spesso la dinamica di tipo razzista interviene costitutivamente nella costruzione di identità e di stereotipi che non hanno nulla a che vedere nemmeno col conflitto "etnico": per esempio il razzismo nei confronti delle donne. Che cosa è la costruzione dello stereotipo sessista con il

quale spesso abbiamo a che fare e che consideriamo frequentemente, e secondo me giustamente, alla stregua di un razzismo? Che cosa si è detto tradizionalmente della donna? Che la donna ha una capacità intellettiva inferiore. Questo non si dice soltanto nei classici della filosofia. È noto che Aristotele tripartisce l’insieme del genere umano. Al sommo della scala ci sono gli individui liberi che sono gli adulti maschi della stirpe. All’ultimo gradino troviamo gli schiavi per natura, che non si sa bene se siano uomini o meno: sono uomini-non-uomini che hanno una capacità debole di volere, una capacità indebolita di elaborare volontà, per cui non sono autonomi nella definizione delle finalità e quindi sono per natura destinati a eseguire, a funzioni di tipo esecutivo. In mezzo c’è una fascia della popolazione che è costituita dai bambini e dalle donne, dove naturalmente i bambini maschi sono destinati a evolvere quindi ad emanciparsi da questa condizione di inferiorità, mentre le bambine no, perché comunque diventano donne e rimangono nella medesima fascia: le donne appunto in questa fascia subalterna stanno e rimangono perché sono dotate di un’anima inferiore rispetto a quella dei maschi. Superiore rispetto a quella degli schiavi ed inferiore rispetto a quella dei maschi. Questo è un modello potentissimo, che sfida i secoli e che non ha, secondo me, soltanto a che vedere con i cascami arcaici di un senso comune reazionario. E in fondo qualche cosa che ha abitato l’antropologia e la psicologia sociale: non voglio dire che questo tuttora continua, ma certamente le ha abitate fino a tutta la prima metà di questo secolo.

Dunque il sessismo: ma pensiamo anche alla razzizzazione delle malattie e della devianza in genere, pensiamo alla razzizzazione degli alcolisti (molti ancora oggi sostengono che l’alcolismo è ereditario), pensiamo alla razzizzazione dell’omosessualità. Ci sono molte ipotesi secondo cui c’è la famosa storia del cromosoma in più o in meno, onde la ricerca affannosa di un radicamento fisico e biologico di differenze che sono evidentemente di ordine culturale, psicologico, che attengono alla libera scelta degli individui in massima parte, o a dinamiche di tipo sociale per ciò che attiene alla devianza e a quella particolare patologia sociale che riguarda le tossicodipendenze.

Come ce la caviamo quando abbiamo a che fare con la costruzione di stereotipi in tutto e per tutto identici al razzismo? "Lo zingaro è ladro". Questo noi lo sentiamo dire sempre, e non si tratta ovviamente di giudizi relativi a singoli individui. Non ci accontentiamo assolutamente di dire che quello zingaro è un ladro, perché questo non ci serve a niente. Anche Pinco Pallino italianissimo può essere un ladro, ma certo noi non arriviamo a dire che l’italiano è ladro. L’argomento diventa forte, produttivo di spiegazioni, perché implica che lo zingaro è ladro in quanto zingaro. Tutti gli zingari sono ladri in quanto zingari sono destinati fin dalla nascita ad essere ladri. Anche qui - badiamo - abbiamo a che fare con la trasmissione ereditaria: ma il punto è che - al contrario di quello che il senso comune crede - il razzismo crea una trasmissione ereditaria di caratteristiche, positive o il più delle volte negative, attribuite a un gruppo.

Vale la pena, a questo riguardo, di soffermarsi brevemente su un piccolo documento, un breve passo della "Prefazione generale" della Comédie humaine di Balzac" una citazione di seconda mano (più precisamente di terza), ma ogni tanto fare delle citazioni di seconda mano è ancora più prestigioso perché la mediazione è altrettanto importante della fonte primaria. In questo caso la fonte sono ancora i Quaderni del carcere. Gramsci era un ammiratore di Balzac, così come lo stesso Marx lo era. Entrambi riconoscevano a Balzac una straordinaria sensibilità sociologica e in particolare il merito di avere compreso (questo e, nella lettura che Marx e Gramsci ne forniscono, il senso della Comédie humaine) la potenza costitutiva che l’ambiente sociale ha nei confronti della personalità.

Tuttavia, dice Gramsci, Balzac è anche un sociologo "positivista", e proprio la pagina che egli cita e che sto per leggere gli pare dimostrano. Che cosa dice dunque Balzac in questa pagina di straordinario interesse, che lo stesso Gramsci cita da un articolo di Paul Bourget, nel quale si tentava di enudeare la teoria politica e sociale che informava la Comédie? Leggiamo:

l’animale è un principio che prende la propria forma esteriore, o meglio le differenze della propria forma, dall’ambiente in cui è chiamato a svilupparsi. Le specie zoologiche risultano da queste differenze. Conquistato da questo sistema, io vedo che la società rassomiglia alla natura.

 Ecco il punto delicato e cruciale, dove Gramsci coglie il tipico slittamento social-darwinistico: esiste la natura, luogo delle diverse specie che lottano per la sopravvivenza; sull’esempio della natura cerchiamo di capire che cosa succede nella società. Balzac prosegue:

Non fa forse essa, natura, dell’uomo seguendo nei diversi ambienti nei quali la sua azione, della natura, si dispiega, non crea altrettanti uomini diversi quante sono le diverse varietà zoologiche? Sono sempre dunque esistite ed esisteranno sempre specie sociali diverse come vi sono specie zoologiche diverse. Le differenze tra un soldato, un operaio, un amministratore, un ozioso [e Gramsci qui mette due punti esclamativi], un sapiente, un uomo di Stato, un commerciante, un marinaio, un poeta, un povero [nuovi punti esclamativi di Gramsci], un prete, sono altrettanto rilevanti quanto quelli che distinguono il lupo, il leone, l’asino, il corvo ed altri animali.

 Questo schema di argomentazione è certo metaforico, ma proprio per questo, badate, costituisce uno schema potentissimo, che ha orientato per molto tempo il pensiero sociologico e politico8. Esso conferisce al soggetto sociale, a dispetto della sua evidente nondiversità razziale, una carattenizzazione naturalistica; opera, per dir così, una radicalizzazione dell’identità sociale, facendo di questa un carattere non meno rilevante e trasmissibile di generazione in generazione di quella che distingue i gruppi umani fenotipicamente distinti. In conclusione, possiamo dire che il social-darwinismo è la "verità" del razzismo (e dice la verità sul suo conto), nel senso che ne rivela i meccanismi costitutivi, il passaggio dall’ordine sociale e dal conflitto politico-storico alla (pretesa) natura.

 PER LA CRITICA DELL’OTTICA RAZZISTA

Per concludere. A me sembra evidente: zingari, devianti, poveri, sovversivi, ecc. per un verso; donne, servi o schiavi per un altro; nazionalisti irlandesi o baschi, palestinesi o kurdi, ecc. per un altro ancora; e infine gli ebrei: tutti questi soggetti sono trasformati in razze ("razzizzati") per ragioni che attengono al conflitto sociale-politico: i primi in quanto pericolosi; i secondi perché subordinati; i terzi perché nemici; e gli ebrei per tutte queste ragioni insieme e per altre ancora (ad esempio perché si pretende eccellano nelle attività finanziarie e intellettuali, e li si accusa di servirsi di tale presunto talento per i propri disegni di potere): ed è evidente che proprio questa funzione di jolly svolta dagli ebrei fa dell’antisemitismo il paradigma del razzismo contemporaneo, sempre in agguato.

Rimane da fare, a modo di sommario finale, un’ultima considerazione. Quando si sostiene che è corretto parlare di razzismo in relazione alla (più o meno esplicitata) stereotipizzazione inferiorizzante di gruppi umani che non hanno nulla di fisicamente identificante si incontra una diffidenza sintetizzabile nel seguente duplice interrogativo: espandendo in maniera indiscriminata il concetto non si rischia di "fare confusione" e persino di rendere in qualche modo meno efficace la lotta contro il razzismo vero, quello che si abbatte sulle razze "indiscutibilmente esistenti"? Ebbene, a me pare che questo interrogativo, a prima vista molto ragionevole e comunque dettato da una preoccupazione condivisibile, implichi un modo di pensare sbagliato (si immagina che il razzismo sarebbe sorto, in un primo momento, in relazione alla persecuzione di determinati soggetti ii le razze "indiscutibilmente esistenti", appunto - e che i suoi dispositivi discorsivi siano stati estesi in un secondo momento ad altri soggetti non "razzialmente distinti") e generi un effetto paradossale e anche imbarazzante.

Quando si ragiona così, non solo ci si impedisce di individuare le dinamiche razziste che generate in tutta l’ampiezza del terreno sociale, ma - a guardar bene - si nega a tante vittime del razzismo il diritto di difendersene. All’irlandese e allo zingaro, ad esempio, si dirà che possono avere tutte le loro buone ragioni ma, per favore, si rassegnino all’evidenza che il loro problema èdi politico o religioso o culturale e quindi non implica dinamiche di tipo razzista. E qui sta il paradosso: che si pretende che i soggetti che affermano di essere oggetto di discriminazione razzista esibiscano proprio quei famosi caratteri trasmissibili! Ovvero, si fa un esame razzista in nome del conflitto contro il razzismo, visto che per essere considerati vittime del vero razzismo bisogna essere... razze, soggetti classificabili in termini razzisti! In altri termini, sfugge che per contrastare una ideologia è necessario ricostruirne la logica, individuare il punto di vista di chi la professa; e che a questo scopo non basta contrapporre i propri concetti (che si ritengono ben fondati e immuni da vizi ideologici) al vocabolario del razzista, nel quale si riflette il suo perverso modo di vedere. La critica del razzismo deve fare i conti con il concetto razzista di razza. Solo dopo averne smontato le pretese può impiegare il concetto corretto, scevro da implicazioni razziste. Un modo diverso di procedere, dettato dal pur comprensibile rifiuto di maneggiare materiali ideologici così ripugnanti, dalla paura di venirne contaminati, sarebbe precipitoso e impedirebbe di colpire il bersaglio.

Per quello che concerne il timore che la prospettiva analitica qui suggerita possa ingenerare confusione espandendo eccessivamente l’area semantica del concetto di razzismo, pare a me che tale preoccupazione non sia fondata e che parta da un presupposto erroneo. Affermare, come ho fatto, che il razzismo insorge ogni qual volta si costruisca uno stereotipo riconducendo alla natura del soggetto in causa i suoi presunti caratteri identificanti non significa ampliare a dismisura l’area di riferimenti del problema. Significa, al contrario, stabilire con chiarezza i confini dell’area problematica. Si può, evidentemente non concordare con questa impostazione. Ma una critica non può assumere nulla come ovvio. In base a quale criterio si afferma che questa interpretazione del problema condurrebbe a una dilatazione eccessiva del termine? Evidentemente si ritiene di sapere qua! è la misura giusta e quindi quale sia il vero termine di riferimento del problema: qual è? Per parte mia, mi limito ad osservare che l’unica confutazione della prospettiva analitica che ho cercato di argomentare sarebbe la individuazione di un caso in cui non si dia razzismo pur in presenza della costruzione di uno stereotipo naturalistico inferiorizzante.

NOTE

1L. VYGOTSKY, Pensiero e linguaggio (1934), Laterza, Roma-Bari 1990, p. 370.

2Enciclopedia Zanichelli, Zanichelli, Bologna 1996.

3A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi 1975, p. 2271 (q. 24, S 4).

4Cfr. al riguardo V. Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, manifestolibri, Roma 1993; A. BURGIO, Note sul razzismo della Lega nord, in A. BONOMI - P.P. POGGIO (a cura di), Ethnos e Demos. Dal leghismo al neopopulismo, Mirnesis, Milano 1996, pp. 215-26.

‘Cfr. A. BURGIO, L’invenzione delle razze. Studi su razzismo e revisionismo storico, manifestolibri, Roma 1998, p. 22.

‘Ivi, p. 140; per il riferimento a Malcolm X, cfr. ivi, p. 21.

6In questa direzione sembra muoversi una osservazione di D. HARVEY (La cnn della modernità [1290], il Saggiatore, Milano 1993, p. 133) che sottolinea come il razzismo sorga dalla "combinazione dello sfruttamento di classe" con le caratteristiche di "coloro (donne, neri, popoli colonizzati, minoranze di ogni tipo) che possono essere prontamente concettualizzati come diversi".

‘A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit., pp. 1697-9 (q. 14, S 41), ove si cita un saggio di P. BOURGET (Les idées politiques et sociales de Balzac, in "Nouvelles Littéraires", 8 agosto 1931; la traduzione del passo di Balzac ivi riportato, che Gramsci mantiene nell’originale francese, è nostra).

Identità plurale dello straniero

di Adel Jabbar*

[*sociologo immigrazione e relazioni interculturali, Università Ca' Foscari di Venezia, Res - Ricerca e Studio, 0461-820627; studiores@tin.it]

Tu lascerai ogne cosa diletta

Più caramente; e questo è quello strale

che l'arco de lo essilio pria saetta.

Tu proverai sì come sa di sale

Lo pane altrui, e come è duro calle

Lo scendere e 'l salir per l'altrui scale.

(Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, XVII)

La perdita di luoghi, di volti, di abitudini. E l'inizio di un percorso nuovo, di ricognizione ed esplorazione, per ricollocare un intero vissuto dentro l'ignoto, dove lo sguardo e la mente spaziano alla ricerca di simboli, suoni, profumi, sapori, gesti, immagini, che siano in qualche modo riconoscibili.

Ma cosa del mio vissuto posso riporre nel nuovo, e dove? Il rapporto con la nuova realtà spesso inizia con questi interrogativi, e con gli imbarazzi, le esitazioni, le scappatoie, che nascono dalla ricerca necessaria e continua di contatti e di conoscenza.

Un episodio, reale, può raccontare e spiegare questo vissuto, forse più di qualsiasi considerazione intellettuale.

Dopo essere arrivato in Italia, senza nessuna conoscenza della lingua, riesco con non pochi intoppi a iscrivermi al corso universitario di italiano per stranieri. Là mi informo, in un rudimentale inglese, sul vitto, dopodiché mi consegnano un foglio con l'indirizzo di una mensa. Con questo foglio in mano mi incammino, fermando i passanti e chiedendo indicazioni. Ad una fermata dell'autobus, un giovane, visto il foglio che ho in mano, si porta una mano alla fronte esibendosi in una parola di cui ben presto avrei compreso il significato, ma che in quel momento mi suona del tutto oscura: "c…!", a sottolineare la sua difficoltà nel rispondermi. Lì per lì, mi appello al contesto in cui mi trovo per cercare di capire cosa mi sta dicendo: una linea di percorso, un numero dell'autobus, un altro mezzo di trasporto? Per fortuna dopo, a gesti, mi fa capire che non sa dove indirizzarmi. In qualche modo arrivo alla mensa, per trovarmi di fronte subito a nuovi dettagli da affrontare. Mi trovo nella situazione definita come dilemma dell'ottico: guardi l'insieme e vedi una cosa, ma per poterla capire devi cogliere anche i particolari, che ad una prima visione ti sfuggono. Il primo dettaglio nel caso in questione è la fila, una lunga coda che esce sulla strada, una condizione che non ho mai sperimentato se associata al cibo. Per capire, mi distacco, attraverso la strada e guardo la fila da lontano, per cogliere quei particolari che mi indichino chi siano le persone che compongono questa fila. Deduco (dall'età, dall'abbigliamento) che sì, potrebbero essere studenti e quindi mi rimetto in fila. Anche l'edificio mensa mi sconcerta: si tratta di una sorta di capannone che nei cassetti della mia mente trovo associato più a magazzini, a depositi che non a luoghi in cui si mangia. Decido comunque di sospendere temporaneamente la ricerca di significati e aspetto il mio turno. Finalmente, una volta entrato nel capannone, fra odore di fritto e di detersivi che già mi danno conferme, vedo un lungo bancone e dietro persone che distribuiscono il cibo. Ma adesso cosa mangio? Quali nomi hanno quelle pietanza che vedo nei piatti che mi precedono? Lo scoraggiamento quasi mi suggerisce di lasciar perdere, ma, oltre a ad aver superato ormai tutto un percorso ostico, so che quello è solo l'inizio e decido di andare avanti, concentrandomi sui gesti e le parole di chi mi precede nella fila, badando soprattutto a ciò che mi appare foneticamente più facile da riprodurre. Mi accorgo che una frase, in particolare, viene riferita frequentemente, accompagnata da un gesto indicativo della mano e allora penso che se in tanti chiedono quel cibo, male non farà. Il cibo in questione, o meglio la frase è: "lo stesso", che alcuni prima di me hanno ripetuto per chiedere la pietanza richiesta da un collega (ma questo l'ho capito soltanto più avanti). Allora, arrivato finalmente il mio turno, faccio anch'io la mia richiesta: "Lo stesso". Per i due mesi seguenti, pur avendo ormai capito che mangiavo le stesse cose di chi mi precedeva, per non sbagliare e pregando che il mio compagno scegliesse bene, ho continuato a chiedere "lo stesso". Piccolo particolare: "lo stesso", sul dizionario, ovviamente, non esiste, e quindi la ricostruzione grammaticale di questo significato, così poco immediato, mi ha richiesto molto tempo.

Lo straniero, che si trova a dover rispondere a bisogni primari comuni, non possedendo gli strumenti immediati per farvi fronte è spesso costretto a ridurre la complessità della situazione in cui si trova, adeguandola secondo ordini di priorità. Non è importante, tanto per riferirsi all'aneddoto di cui sopra, "cosa" mangia, o almeno non lo è subito: ciò che conta è prima di tutto poter mangiare, quindi va bene "lo stesso". Anche in altre sfere della vita lo straniero finisce per trovare degli interstizi, dei margini di significato, cui riferirsi per interpretare la realtà e per poterla gestire. Il continuo collocarsi in situazioni "al margine", dà luogo ad una visione se vogliamo distaccata del contesto, estranea alle relazioni più interne, ai vincoli più stretti, e dunque genera una condizione di solitudine. Questo non significa che con il passare del tempo la realtà non possa venire compresa e interpretata nella sua complessità; certo però questa sorta di "training", di imprinting iniziale, di solitudine acquisita, segna il vissuto dello straniero, e lo segna nei termini di un dilemma, fra un'estraneità "appresa" e l'essere, il vivere, dentro. Una condizione che può essere di profondo disagio, ma anche di potenziale libertà, se non altro intima e morale, proprio perché svincolata da schemi precostituiti e fissi.

Dopo aver sinteticamente inquadrato gli aspetti e le dinamiche che investono l'esperienza dello straniero, può essere utile e interessante un approfondimento sullo straniero musulmano, quale sono, anche come bisogno di contribuire alla conoscenza della sua realtà di origine e a superare una visione spesso semplificata e stereotipata.

La complessità dell’Islam

I musulmani spesso vengono visti e presentati dai mezzi di informazione tramite un filtro. Una società complessa per condizioni storiche, geografiche, culturali, economiche, statuali, viene ridotta ad una visione dottrinale nella quale il musulmano viene interpretato soprattutto attraverso letture che risalgono ad un periodo ormai molto lontano, il periodo medioevale. Quindi sui giornali troviamo spesso i "massimi esperti", molto gettonati, che parlano dell'Islam per quello che è stato scritto soprattutto nei libri antichi sacri e non. Invece c'è quasi una totale assenza di informazioni su che cosa sia oggi una società musulmana e che cosa significhi oggi essere musulmano.

Quella che oggi è la realtà musulmana, geograficamente molto estesa, dove vivono popolazioni appartenenti a continenti diversi, dal '500 in poi è stata gradualmente inglobata e inclusa, in condizioni subalterne, dentro quel sistema che oggi chiamiamo "Occidente". Non a caso, quasi tutti i territori dell'Islam sono stati colonizzati.

Questo è un dato importante, perché quando si parla di Islam, lo si presenta sempre come religione e non come società dove sono passate potenze coloniali francesi, inglesi, olandesi, portoghesi, spagnole, italiane, russe, cinesi, ognuna delle quali ha "segnato" la popolazione musulmana; infatti oggi in nessun paese musulmano si usa una lingua soltanto, ma spesso due, tre lingue.

Il mondo islamico quindi oggi è un mondo fortemente periferico, ma dentro il sistema occidente, per struttura politico-istituzionale, per modello economico e per sistemi educativi, seppure con tante contraddizioni.

Tutto questo nei mass media, nel mondo dell'informazione in generale, ma anche negli spazi di approfondimento, viene a malapena sfiorato, in modo marginale, quando invece è un aspetto determinante. Esiste un'astratta concezione del musulmano come homo islamicus: un'essenza virtuale che non si capisce dove abbia inizio e dove sia diretto. Quando si parla dei musulmani gli strumenti delle scienze sociali spesso declinano, ed è molto raro incontrare analisi che si avvalgono di indicatori socioeconomici, demografici, politici. Si trascurano quindi sia gli aspetti storico-sociali, sia le contiguità sviluppatesi nelle varie sfere del sapere e dell'agire umano a seguito degli intrecci continui fra mondo musulmano e altri sistemi o culture.

Come interpretare dunque il mondo islamico nella sua complessità? E’ importante considerare i seguenti fattori:

1) Contesto socio-economico. La realtà concreta della società islamica, come di qualsiasi altra società, va vista come sintesi dell'operato di attori sociali che interagiscono secondo determinate condizioni storico-materiali; dunque l'agire sociale non può essere letto unicamente alla luce di una dimensione spirituale-religiosa, come spesso si fa in maniera superficiale e riduttiva. Le popolazioni dell'area islamica non rivendicano una specificità religiosa più di quanto non faccia qualsiasi altra popolazione, né ambiscono a contrapporsi a società di diversa religione. Semplicemente, uomini e donne arabi e musulmani aspirano, come chiunque altro, a migliorare le proprie condizioni di vita. Le società musulmane, come altre società, nutrono al loro interno istanze tese a realizzare la giustizia sociale, un pluralismo politico, un modello di sviluppo locale/mondiale più corrispondente alle esigenze di larghe fasce di popolazione, ad accorciare il divario fra classi sociali. Poiché, non dimentichiamolo, buona parte di questa area islamica fa parte del cosiddetto Sud del mondo, nel quale paesi come la Colombia cattolica, il Bangladesh musulmano, il Myanmar (ex Birmania) e lo Sri Lanka buddisti, sono accomunati da situazioni concretamente simili: situazioni di povertà, di sperequazioni economiche, di instabilità e di violenza politica, che vanno ricondotte non certo alla religione d'appartenenza, ma a ben precise condizioni materiali. D'altra parte, non è ben chiaro il motivo per cui la violenza politica presente in alcuni paesi musulmani venga considerata una componente insita nella religione islamica. Tale equazione non viene postulata per altre società attraversate a loro volta da attività terroristiche, come ad esempio lo stato italiano oppure i Paesi Baschi o l'Irlanda. Anche in quest'ultimo caso, sebbene si faccia riferimento a tensioni di natura religiosa, queste vengono comunque e giustamente inquadrate nel contesto sociale, storico, politico. Se la violenza politica fosse una prerogativa dell'Islam, non dovrebbe allora tale genere di conflitto risultare estraneo a realtà non islamiche.

2) Eterogeneità. Quando si considera l'area islamica, si dovrebbero tenere sempre ben presenti le diverse connotazioni culturali, le caratteristiche territoriali, nonché le varie entità geografiche e statuali, in gran parte delineatesi, del resto, a seguito del colonialismo europeo, che in molte aree non ha certo favorito una crescita democratica, bensì ha piuttosto rappresentato un ostacolo al pluralismo.

3) Forme di governo. Fra gli oltre cinquanta stati che fanno parte della Conferenza Islamica mondiale, soltanto sei dichiarano la loro costituzione fondata sulla sharia (corpus giuridico islamico): Arabia Saudita, Afghanistan, Iran, Pakistan, Mauritania, Sudan. Anche fra questi cinque paesi, tuttavia, si riscontrano sostanziali differenze nell'applicazione della Sharia. In ogni caso, in molti paesi arabi e musulmani il governo è in mano ad élite secolarizzate, e non costituisce quindi un'espressione della religione.

4) Modelli di sviluppo. Come altre realtà del sud del mondo, anche questi paesi negli anni cinquanta furono attraversati da istanze anticoloniali, abbracciando non raramente idee socialiste e lo stesso comunismo. Attualmente, nell'era della globalizzazione, in buona parte di queste aree si assiste all'introduzione di processi di privatizzazione e di modelli di mercato neoliberalista.

5) Prassi quotidiana. Infine, la stessa prassi sociale e la vita quotidiana non si ispirano soltanto alla religione, bensì anche alla tradizione, alle consuetudini, nonché a mode intrecciate con stili di vita e di consumo importati dall'esterno.

Fratelli minori

La difficile pratica dei diritti per i migranti

di Mario Marcuz

La recente legge Bossi - Fini imponendo nuove regole in tema di immigrazione, dietro un preteso obiettivo di controllo del territorio dello Stato e di repressione dell’immigrazione clandestina, ha inciso con modalità incostituzionali sui diritti fondamentali della persona (libertà personale, diritto di difesa, diritto d’asilo, diritti familiari e del lavoro) che spettano anche allo straniero, venendo a corollare un clima politico culturale che da anni assume a parametro negativo chi è "diverso o altro" dall’ordinario cittadino.

Né possono fungere da adeguata contropartita sanatorie che lasciano uno strascico di ingiustizie e disparità di trattamenti.

Anche il compito di chi esercita con impegno la professione forense, nella società "globalizzata" appare assumere un ruolo multidimensionale a fronte dell’arrivo di cittadini stranieri e appartenenti a paesi extracomunitari.

Oltre quella dimensione strettamente processuale che involge il rapporto difensore - assistito in relazione a un processo, esiste un ulteriore peculiare dimensione che riguarda il rapporto tra difensore e coloro i quali si trovano a far valere i propri diritti di lavoratori o subiscono una restrizione della libertà personale attraverso la detenzione carceraria.

Appare, a chi scrive, evidente la delicatezza del ruolo di chi assume la difesa nel processo civile o penale qualora si instauri un rapporto con persone o collettività appartenenti a un contesto linguistico e culturale diverso e lontano, non solo geograficamente.

Se nell’aula processuale una funzione mediatrice viene svolta dall’interprete chiamato di volta in volta a fungere da tecnico ausiliatore degli attori del processo (accusa, difesa, giudicante), tale ausilio trova maggiore difficoltà di applicazione nel rapporto tra difensore e assistito.

La difficoltà non è solo quelle di tradurre letteralmente le parole dette nella lingua diversa dall’italiano, ma di far pervenire la portata semantica di concetti a chi proviene da culture che di quei concetti non dispongono nemmeno di un termine, di una locuzione che li definisce.

A volte non è nemmeno sufficiente infatti la presenza di un traduttore capace che, pur traducendo fedelmente la lingua italiana, non ha purtroppo spesso quelle conoscenze giuridiche di base per potere, anche con immagini o metafore, far comprendere allo straniero ciò che sta accadendo alla sua persona.

E’ stata notizia diffusa a livello nazionale la vicenda relativa ai quattro ragazzi di nazionalità marocchina residenti nel padovano accusati alcuni mesi fa di aver in progetto un attentato alla Basilica di S. Petronio a Bologna.

Incomprensioni linguistiche e culturali rischiavano infatti di costringere a un lungo periodo di detenzione cautelare persone che si trovavano in Italia unicamente per lavorare e che non sapevano nemmeno ove si trovasse la moschea più vicina a casa.

Molte volte è capitato che, di fronte alla precisa domanda alla persona straniera detenuta se aveva capito quanto stavo spiegando, questa facesse cenno affermativo, salvo due minuti dopo accorgersi che in effetti si era ancora in alto mare quanto a detta comprensione.

Trovo che a fronte di una necessaria ed auspicabile sensibilità degli operatori del diritto di fronte a tali problematiche debba peraltro corrispondere una adeguata presa di coscienza da parte di chi dovrebbe organizzare le strutture e formare le persone operanti in questo ambito.

La stessa dimensione di istruzione che i lavoratori migranti hanno a disposizione nel paese che li accoglie risulta insufficiente. E penso in particolare poi alla alfabetizzazione dei detenuti nelle carceri, vista la scarsità dei mezzi impiegati.

La scolarizzazione avrebbe innanzitutto lo scopo mirare a formare una coscienza civile negli individui, uno strumento stabile e generalizzato in grado di sollecitare nel lavoratore una presa di coscienza della realtà socio economica nella quale è maturata la sua esperienza personale e collettiva: anche attraverso questo processo il lavoratori migranti potranno sfuggire alla ghigliottina del sempre più diffuso "lavoro nero"

Trovo singolare che la società italiana sia stata colta impreparata a questi eventi che in altri paesi assumono una dimensione temporale pluridecennale.

L’impatto tra la società italiana e il notevole afflusso di immigrati dai "cosiddetti terzo e quarto mondo" ha prodotto più disorientamento che ricchezza, più emergenzialità che processi di integrazione culturale.

Analisi di studiosi, soprattutto del mondo anglosassone, sulle problematiche accennate risalgono ormai ad alcuni decenni or sono, ma di queste tuttavia a livello istituzionale non se ne è tenuto affatto conto.

E’ evidente che la velocità dei processi economico sociali è superiore a quella di adattamento delle istituzioni chiamate a gestirli e pure a quella degli operatori che ne sono coinvolti, ma ritengo che tale approccio al rallentatore nasconda delle responsabilità colpevoli frutto di scarsa o nulla sensibilità a fenomeni di massa quale è quello dell’immigrazione.

Basti un esempio pratico.

Uno dei fattori che spesso determinano la reclusione carceraria è quello tipico della difficoltà dello straniero a provare la disponibilità di un lavoro, a fronte del già accennato fenomeno del mercato sommerso, fiorente non soltanto nelle grandi metropoli italiane, a danno dei cittadini stranieri, fascia di debole forze contrattuale.

La mancanza della prova suddetta può essere condizione ostativa alla concessione di misure alternative alla custodia cautelare carceraria o, in sede di passaggio in giudicato della sentenza di condanna, alla detenzione carceraria.

Storia e memoria dei lager nazisti:

il racconto di Nella Baroncini

di Rossella Ropa

"In nessun luogo la drammaticità dell’essere soggetto femminile è così forte e toccante come nelle narrazioni che testimoniano condizioni estreme, di reclusione fisica e morale"1

Parole, memorie, silenzi, delle donne

Diversi sono gli aspetti che si potrebbero mettere in luce sulla esperienza concentrazionaria, ma qui viene proposto quello che si ritiene essere un nodo tematico meno conosciuto, non sufficientemente indagato in ambito storiografico: la deportazione femminile nei lager nazisti. Avvenimento, questo, che ha conosciuto una sorta di rimozione: la ricerca non si è preoccupata di trovare delle categorie capaci di analizzare le esperienze delle deportate, che hanno invece caratteri propri, distinti da quelli maschili. La violenza subita dalle donne, infatti, si è tradotta in una sofferenza specifica, di una qualità diversa da quella patita dagli uomini.

Innanzitutto, nei campi di concentramento non c’è posto per le donne se non come massa indifferenziata di "schiave da lavoro", l'identità femminile è del tutto irrilevante, caso mai fastidiosa, tanto che gli interventi sul corpo messi in atto dai nazisti - dalla rasatura al denudamento, dalle visite alle operazioni sull’apparato riproduttivo - tendono piuttosto a farne oggetti neutri o animali da laboratorio.

La perdita della identità femminile inizia immediatamente, al momento dell’arresto, quando le partigiane vengono sradicate dal proprio ambiente per essere gettate in un mondo incomprensibile, e continua fino al ritorno a casa, quando le ex deportate vengono accolte con noncuranza, scarsa attenzione, una accoglienza accompagnata anche da una totale assenza di riconoscimenti da parte delle istituzioni. Una forma di violenza "morale" questa che va ad aggiungersi alle molteplici subite nei campi di concentramento.

Naturalmente la vita in Lager è perfettamente congegnata dai nazisti per degradare ogni individuo - uomo o donna - alla pura percezione sensoriale del corpo, ai bisogni vitali, agli stimoli della fame, della sete, del caldo, del freddo, disgregando così ogni aspetto morale o spirituale. I bisogni primari, strazianti, che il corpo prova e sopporta sono poi condizionati dalla paura: paura nei confronti dei nazisti, paura nei confronti dei Kapò, dei compagni stessi, paura di non farcela, paura di morire.

Ora, rispetto a questo contesto, le privazioni e le sofferenze patite dalle deportate sono ancora più laceranti, particolari, perché vanno a colpire il corpo femminile, il luogo in cui si intrecciano i valori sociali dei quali la donna è depositaria, mettendo in atto quella che è stata definita dalle stesse testimoni "la spoliazione dell’identità femminile".

L’attacco che le donne subiscono è terribile. La profanazione, la perdita della integrità passano attraverso vari momenti: esporre a sguardi sprezzanti ed indagatori il proprio corpo, abituato dal costume di allora a un pudore rigoroso; non potersi più riconoscere nella propria immagine fisica, oltraggiata da rasature e costretta in divise o abiti assurdi. Patire una vita promiscua di cui non si ha alcuna esperienza, perdendo ogni intimità, ogni riferimento spazio-temporale. Assistere alla scomparsa delle mestruazioni e vivere questo fatto come un sintomo del "male" che è giunto ad intaccare le radici stesse della femminilità. Subire esperimenti che ledono la propria forza riproduttiva. Dover condividere questo martirio con le persone care, le madri, le sorelle, i propri figli, e assistere impotenti allo strazio delle loro morti. Vivere la maternità propria e altrui, affannandosi per nutrire un figlio che verrà spesso ucciso. Scoprire nelle donne, e sovente anche in se stesse, la violenza e l'insensibilità a cui la vita nei campi induce. In questo contesto è quasi impossibile restare quel che si era e non scoprirsi fredde e indifferenti al dolore e alla morte altrui.

Però permangono, nella vita in Lager, nella brutale quotidianità, intelligenze ed energie capaci di opporsi all’apparato nazista in tante forme, dalle più deliberate come il sabotaggio alla produzione di guerra e la resistenza clandestina, fino ad arrivare all’infinità di iniziative grazie alle quali le donne perseverano in quell’atto comunque sovversivo che è sfuggire alla morte.

Esistono, dunque, strategie di sopravvivenza, un insieme frammentario di opportunità e decisioni che mostrano il tentativo di mantenere la propria identità, la continuità con ciò che si è state, la tutela della propria immagine: sarà allora il ricordare la figlia, rivendicare con orgoglio la propria appartenenza politica, cercare di mantenersi pulite, o il raccogliere un pezzetto di carta da portare alla compagna perché possa documentare l’inferno del Lager. Non esclusa l’ostinazione a sopravvivere quando tutto è organizzato per il suo contrario: chi non muore nel tempo previsto dalle statistiche concentrazionarie è già una cattiva prigioniera.

Uno dei motivi che hanno portato al silenzio della storiografia su queste esperienze risiede nel fatto che questi gesti, questi sforzi non sono mai stati considerati come una forma di opposizione al nazifascismo, non potendo essere assimilati alla lotta armata, categoria con la quale è stata indagata per lo più la Resistenza.

La deportazione femminile quindi venne considerata un evento eccezionale o peggio un accidente della guerra nonostante molte antifasciste e partigiane combattenti, proprio in quanto tali, siano state inviate in Lager.

Continuare ad essere donne, nonostante e contro le regole imposte in Lager, costituisce invece una forma di lotta antinazista, naturalmente condotta in forme all’apparenza minimali, come quelle descritte sopra, e non immediatamente "politiche" se non in sporadici casi. Una forma di "resistenza civile", una resistenza senz’armi2.

Già Anna Bravo3 rivendicava l'esigenza di affermare un nuovo paradigma di cittadinanza, non più legato al diritto-dovere di portare le armi, il che rende gli inermi - le donne, i deportati, i prigionieri - cittadini di seconda classe, fondato invece su virtù civiche che da tutti possano essere pienamente condivise ed esercitate.

Solo così è possibile riconoscere e dare piena legittimità, accanto all'aspetto armato della lotta antifascista, anche alla opposizione non armata, alle forme di vera e propria "resistenza senza armi" che ci sono state, perfino in luoghi estremi come i Lager.

L’applicazione di questa nuova categoria storiografica - la "resistenza civile" - può consentire, dunque, di risalire a moventi, altrimenti inesplicabili, dell’agire individuale e collettivo: gesti, comportamenti, strategie di difesa, tutti fattori che presi in considerazione danno conto della ricchezza delle esperienze, non solo patite ma spesso agite, delle deportate.

E' in questo senso che viene qui proposta la memoria di Nella Baroncini, militante antifascista che per la sua partecipazione alla Resistenza è stata, appunto, deportata4.

Dalla memoria alla storia: le fonti orali

Ci si avvicina con forte interesse, ma anche con ansia, a queste memorie, documenti estremamente significativi per la storia contemporanea e di alto valore etico per la società civile.

Spesso si prova una sorta di impotenza interpretativa; si avvertono i propri strumenti critici come invasivi e inopportuni, nonché spesso inefficaci. Scomporre criticamente una testimonianza pregna di dolore diventa una operazione che mette a disagio ed il cui risultato non è sempre sicuro.

Il problema principale è rappresentato soprattutto dalla trasmissione fedele di una esperienza così complessa: come rapportarsi con le testimoni, come chiedere senza esercitare forzature e pressioni, come far emergere le grandi potenzialità di queste memorie, esplicitando comunque che sono sollecitate da una estranea e quindi non completamente gestite da chi ricorda.

"Se il rischio dello storico è sempre quello di farsi prigioniero delle fonti, a noi il problema si poneva, e ancora si pone, con speciale intensità: perché le nostre fonti non sono testi e documenti, ma persone, e, soprattutto, persone al cui discorso la tragicità dell’esperienza dà una qualità umana e sociale particolare. Il racconto del sopravvissuto, di chi ha visto la morte e parla anche per i morti, ha una forza assertiva alla quale è difficile, forse ingiusto, sottrarsi; può innescare movimenti profondi di identificazione, o, all’opposto, spinte di fuga. E in chi ascolta cresce il timore di non saper comprendere questa parola, di tenersi aggrappato ai propri schemi di riferimento come ad una barriera difensiva, magari in nome di un’autonomia critica che è necessaria, ma che diventa ostacolo alla comprensione, quando non venga a sua volta analizzata"5.

E' necessario avere consapevolezza di queste difficoltà e fare i conti con esse. Il primo problema mette in campo il ruolo dell’intervistatrice6 - argomento di cui spesso si è discusso in linea generale, ma che si ritiene vada definito di volta in volta all’interno della ricerca specifica - colei che suscita, sollecita e orienta il racconto. Piuttosto che garantire una imparzialità - praticamente impossibile - cercando di eliminare o camuffare l’influenza di chi ascolta e poi trascrive, è preferibile tenerla in considerazione usando alcuni accorgimenti, quali, ad esempio, quello di mantenere nella trascrizione le domande fatte durante le interviste, evitando, di "ricucire" le risposte in un racconto continuo, perché così facendo si trasforma un’informazione intermittente, sollecitata, a volte contraddetta o interrotta in un flusso narrativo continuo, che, inoltre, può sembrare provenire intenzionalmente dalle testimoni7. In questo modo è poi possibile fare un’analisi, seppur minima, del rapporto che intercorre e dell’interazione che si viene a creare tra i soggetti del colloquio.

"Al di là dei contenuti del racconto, il fatto che si racconti - in un dato clima generale, in certe condizioni specifiche, a certe persone - è di per sé un evento storico e politico su cui è importante riflettere"8.

Un’altra strategia adottata per meglio garantire la conservazione del punto di vista delle donne intervistate può essere quella di raccogliere storie di vita. Una scelta motivata anche dal desiderio di non considerare le donne solo come ex deportate, ma come individui con una loro esperienza complessiva, offrendo così la possibilità di collocare se stesse rispetto alla esperienza del Lager, e quella esperienza nel corso della loro vita. Ciò permette, dunque, di allargare la ricerca anche e soprattutto agli elementi della formazione culturale e politica, della vita quotidiana e affettiva precedente, fino a comprendere il momento del ritorno, quali il reinserimento, le difficoltà incontrate, il significato della deportazione nella memoria, gli stati d’animo successivi.

Inoltre: "la richiesta di inserire il racconto del campo nel complesso della biografia precedente e successiva crea le condizioni per cercare le radici delle diverse esperienze, i modi in cui la loro specificità si è determinata e manifestata"9.

Il Lager, infatti, segna in modo indelebile la vita delle donne agendo su identità che risultano, a volte, profondamente modificate, ma non per questo appaiono poi simili. E’ dunque necessario tenere e dare conto non solo delle particolarità della esperienza vissuta, ma anche inserire tale vicenda nell’intera vita delle ex deportate, evitando di interpretarla come esaustiva della personalità e uguale per tutte. Ogni esperienza è unica, proprio perché interagisce con la soggettività di ogni donna.

Per non eliminare importanti parametri soggettivi e per evitare distorsioni interpretative si può scegliere di offrire il testo integrale delle interviste usando il metodo della trascrizione adattata10, vale a dire una riproduzione la più fedele possibile del parlato delle testimoni, mantenendo ripetizioni, esitazioni, silenzi e introducendo solo alcune informazioni esterne al racconto che riguardano soprattutto segni comunicativi non verbali, e traducendo le frasi in dialetto, anche se ciò può causare un affaticamento nella lettura del testo.

Il tentativo di presentare la fonte nella forma più vicina all’originale nasce dall’esigenza di valorizzare, oltre ai contenuti informativi, il contesto soggettivo di chi parla, cercando di mantenere inalterati elementi significativi che segnalano valenze culturali, ideologiche, sociali, consapevoli comunque del fatto che non è mai possibile, per la scrittura, rappresentare realmente quanto raccontato oralmente tramite una semplice operazione di trascrizione e che spesso così facendo non è possibile rendere esplicito ciò che è sottinteso o rilevante nel parlato ma non riproducibile11.

Il questionario, o meglio la griglia, a cui viene sottoposta la testimone deve essere pensato come ausilio al racconto e non certo come rigido strumento di selezione dell’esperienza. Le domande non vengono poste in modo da determinare in modo inflessibile il percorso della narrazione e spesso molti argomenti previsti non sono affrontati. Si devono tenere presenti anche certi limiti, da valutare caso per caso, oltre i quali non si va. E' forse meglio rinunciare ad informazioni o dati piuttosto che forzare le testimoni a raccontare ciò che stimano giusto tacere. Si devono accettare, nel rispetto delle donne che narrano, i silenzi, le reticenze, i vuoti di memoria.

A proposito del racconto di vita, comunque, è possibile riscontrare una maggiore volontà di discorrere sulla esperienza concentrazionaria, piuttosto che sul "prima" e il "dopo". I momenti della vita precedente sono in genere condensati a spiegare i motivi dell’arresto, la scelta fatta contro il regime fascista - aspetto che segnala una preminenza assegnata al versante politico della loro vita rispetto alle altre componenti - mentre gli eventi successivi al ritorno non sempre vengono ritenuti rilevanti per chi ascolta o comunque esiste un certo riserbo sul periodo successivo della vita che viene avvertito come estremamente privato.

Esiste, inoltre, una sorta di incertezza sull’importanza della esperienza vissuta, sull’interesse che la propria storia può suscitare in altri. "Ma è sicura di voler intervistare proprio me?", questo dubbio ha sicuramente radici lontane, dice molto della sottovalutazione a cui sono state esposte le loro vicende al momento del ritorno, suggerisce l’idea di un racconto lasciato senza interlocutori, segnala una esperienza rimasta taciuta. Restituire a queste donne e alle loro vicende una rilevanza può essere allora un atto doveroso seppur tardivo.

L’intervista di Nella oscilla tra intenzione di rendere una testimonianza storica - fornendo dati e all’inizio parlando con il "si" impersonale - e la libera narrazione, con infiltrazioni di accadimenti più personali.

Nella, poi, nel raccontare si preoccupa di precisare il grado di approssimazione delle sue affermazioni - "Non ricordo bene" -; di circoscriverne la portata - "Per quel che ne so io" -; di dichiarare le fonti - "L’ha scritto anche la Rolfi"12, "Questo lo puoi trovare scritto in Lidia Rolfi"-; chiamando in causa il testo scritto a supporto della verità affermata. Questi "intercalari del discorso" sono "indizi che dicono molto sul modo in cui fatti e immagini stanno nella memoria"13.

Un’altra forma narrativa spesso presente nel colloquio - "Allora non era come adesso"- dà il senso di quanto voglia farsi capire da chi l'ascolta, tenendo conto del fatto che l’intervistatrice appartiene a una generazione con riferimenti culturali e sociali diversi dai suoi. Quando parla della vergogna provata nel mostrare il proprio corpo, ad esempio, si preoccupa di spiegare come il costume sia mutato in 60 anni e come, per comprendere il suo profondo disagio, si debba compiere un non piccolo salto temporale.

Anche prestando attenzione a certe caratteristiche del narrare - l’uso di metafore o aneddoti, la presenza di ripetizioni o di soggetti impersonali - è possibile risalire, poi, sia alle identità culturali che alla tradizione specifica di narrazione del Lager. Queste forme narrative, infatti, oltre ad indicare situazioni problematiche, nodi del discorso, sono le forme - non casuali - che le testimoni scelgono come più adeguate per trasmettere la propria esperienza.

L’uso degli aneddoti è particolarmente significativo in quanto esso può essere considerato un "piccolo discorso coerente, sigillato nel passato e relativamente impermeabile alle modificazioni del presente"14. É certo possibile immaginare come alcuni episodi particolarmente traumatici della vita in Lager si siano fissati in memoria e vengano riprodotti, nel parlato, tramite forme aneddotiche: sono così rimaste intatte le immagini, la disperazione provata, le parole dette o sentite., forse sono sfuggiti dati e nomi ma non il resto.

Un altro aspetto da tenere in considerazione è costituito appunto dal trascorrere del tempo: i fatti non sono coevi ai racconti ed è quindi necessario fare i conti con la memoria.

"Sono passati 50 anni e la memoria ha lavorato nel tempo, ponendosi domande, cercando un senso all’accaduto, anche solo individuale, provvisorio, magari negativo. Quanto sia costato questo impegno di sistemazione e interpretazione dell’esperienza si sente in tutti i discorsi, e da molti viene detto: possono essere necessari anni per staccarsi dal passato abbastanza da fare di sé un io che racconta e non solo un io che soffre.

Dove lo sforzo non è riuscito, le parole restano frammentarie, spesso indimenticabili nella loro immediatezza, ma deboli nel restituirci fatti e significati"15.

Ogni esperienza non è mai completamente ricordabile, ogni avvenimento non è mai completamente comunicabile e la trasmissione sarà sempre parziale: questo vale a maggior ragione per la memoria del Lager, una memoria traumatizzata, con la quale faticosamente e dolorosamente le ex deportate si confrontano. In questo senso, allora, è possibile incontrare nel racconto zone di silenzio o "discrepanze tra un contenuto emotivo evidente e lo spazio che gli è concesso, tra la crudezza di un evento e la forma in cui viene narrato"16, e ancora inesattezze, lacune, distorsioni.

"La memoria non è il magazzino del passato, ma l’atto che lo richiama in vita dandogli senso: anche le dimenticanze e le inesattezze sono importanti perché raccontano la storia delle illusioni, delle consolazioni, di quello che poteva essere e non è stato"17.

Riconoscendo però lo sforzo che le donne hanno fatto, sfidando l’indicibilità dell’esperienza vissuta, si può accettare queste parzialità ed elaborarle in modo che le parole e le intenzioni delle testimoni non risultino impoverite.

Spesso poi quello che viene detto oggi deriva da una elaborazione del vissuto che dura ormai da 60 anni: è una interpretazione del passato.

"Chi parla è costruito dalle sue esperienze successive e, proprio per questo, difficilmente riesce a comunicare il senso del suo antico vissuto: alcune parti del passato sono state cancellate, altre sono state metabolizzate nel processo di crescita dell’individuo, talvolta una nuova necessità del presente, sempre mobile, provoca nuovi oblii, mentre quanto si era dimenticato riemerge per costruire quell’esempio di storiografia teleologica, ma in carne ed ossa, che siamo noi in rapporto al nostro passato"18.

Ma proprio il "farsi del discorso" - con le sue ripetizioni, lapsus, salti cronologici, nella fatica di dare forma a quello che si vuole dire - rivela le molteplici stratificazioni della memoria; insieme ai fatti riemergono le antiche interpretazioni di essi e il sistema di valori che al tempo orientava i comportamenti delle testimoni19.

"Il rapporto della memoria con l’evento è per noi prezioso: perché nell’intervista agiscono momenti diversi della memoria, spesso contraddittori: quello in cui si è formata; le sue risistemazioni nel corso dei mutamenti storici e delle vicende personali, in una interazione passato-presente che sembra aver trovato sempre più difficile dare un senso all’esperienza; infine i modi in cui ora si esercita nel dialogo.

Qui, a differenza che sulla pagina, la parola non può tornare indietro a correggersi. Non perché sia negato al testimone, e a noi stessi, il diritto di ‘cancellare’ quel che è stato detto, di formulare diversamente una risposta (e magari una domanda). Ma perché quella cancellazione, mentre elimina la parola, sottolinea un problema, si offre come elemento importante per capire il contesto del racconto, nel duplice senso di orizzonte storico e di luogo di un dialogo. E’ in rapporto a questo contesto, non in astratto, che il discorso rivela i suoi molteplici contenuti di verità: quella della informazione puntuale, che illumina luoghi inesplorati del passato e può imporre la ridiscussione di linee storiografiche esistenti; quella degli scarti e delle distorsioni, che possono dirci molto su come funzionano la memoria e l’immaginazione di fronte a determinati eventi e situazioni"20.

Si sottolinea così il contenuto di autenticità che presentano queste testimonianze, rilasciate proprio dopo 60 anni per una esigenza profonda: contrastare l’oblio, ristabilire la verità di quello che è stato.

Il racconto di Nella

Nella nasce a Bologna il 26 agosto 1925, viene arrestata con tutta la sua famiglia - padre, madre e due sorelle - il 24 febbraio 1944 per attività antifascista.

Viene rinchiusa con la madre Teresa Benini e la sorella maggiore Iole a S. Giovanni in Monte, mentre il padre Adelchi e Lina, che si assume tutta la responsabilità per cercare di discolpare le altre, sono detenuti al comando SS per oltre un mese.

L’intera famiglia si ricongiunge a Fossoli il 6 maggio 1944, dove rimane per tre mesi. Il 2 agosto le donne sono deportate a Ravensbrück, mentre il padre viene portato a Mauthausen e successivamente al Castello di Hartheim, dove troverà la morte presumibilmente nel gennaio del 1945. La madre e la sorella Iole moriranno a Ravensbrück rispettivamente il 26 gennaio e il 4 marzo 1945, mentre Nella verrà liberata il 30 aprile 1945 e riuscirà a tornare a Bologna solo nell’ottobre dello stesso anno, dove ritroverà la sorella Lina dalla quale era stata divisa negli ultimi mesi.

Nella ha già rilasciato interviste21, ed è forse questo il motivo che la spinge ad essere riluttante, in un primo momento, a raccontare nuovamente.

A registratore spento, confessa di essere stanca di essere considerata un "simbolo" della deportazione femminile bolognese, le pesa forse questo "ruolo" di ex deportata. Inoltre è grande il suo rammarico per coloro che sono morti e che nessuno ricorda. Di loro vorrebbe piuttosto narrare:

"Di questi morti non si parla mai, non se ne parla più; ecco a noi dispiace più questo che... preferiremmo che venisse messa in luce questa gente [piuttosto che raccontare la nostra storia]".

Ma le compagne morte a Ravensbrück possono rivivere nel ricordo, attraverso le sue parole, ed è questo argomento che la convince.

Nell’intera testimonianza è segnalata la difficoltà del raccontare l’esperienza estrema, di rendere a chiare lettere la sofferenza patita, soprattutto a chi non l’ha direttamente vissuta:

"Detto così è roba da ridere, ma pensare alle condizioni che ci potevano essere là".

"Raccontare adesso vedi... ormai sembra di raccontare una cosa... sembra quasi assurdo a noi che lo raccontiamo, ti dico la verità, perché raccontato con le emozioni di allora è un conto, raccontato già ‘accomodato’ con le emozioni di oggi naturalmente attutite, è tutta un’altra cosa".

Nella sottovaluta la forza delle sue parole, che offrono invece non solo immagini chiare e immediate ma spesso anche nuove del Lager, soprattutto per la condivisione dell’esperienza con la madre e le sorelle, un aspetto particolare che si trova difficilmente descritto.

La fatica di dare forma a quello che vuole dire - una realtà difficilmente immaginabile e descrivibile, con i suoi movimenti mentali e le sue contraddizioni, con le tracce che Ravensbrück ha impresso nella memoria -, coinvolge profondamente, suscita emozioni forti e indimenticabili.

É percepibile l’accumulo di dolore e il rischio emotivo che implica ricordare e raccontare, anche se Nella cerca di non farlo trasparire, sorridendo spesso e sottolineando certi aspetti e situazioni della vita in Lager con ironia e commenti che servono a sdrammatizzarli. E la rappresentazione che ne emerge corrisponde a quella di una donna che, pur dolorosamente ma anche con estremo coraggio, ha fatto i conti con il proprio traumatico passato, riuscendo a trovare un equilibrio.

Nella si impegna poi ad attualizzare alcuni aspetti della vicenda misurandoli col presente, usa riferimenti a realtà che possono essere note anche a chi appartiene a una generazione diversa dalla sua, per farsi comprendere meglio. Ad esempio, quando racconta della malattia che l’aveva colpita al campo:

"Oggi parlare di TBC e pleurite, oggi è un’altra cosa... ormai ci sono delle medicine... ma allora era il male... era il tumore di oggi, ecco, se non peggio".

A tratti, poi, si avverte una certa diffidenza verso l’invasione della propria soggettività nel racconto: cerca di generalizzare, usa il "si" impersonale, ma poi sembra cedere, quasi ammettendo che la realtà dell’esperienza vissuta è priva di significato senza un coinvolgimento dell’io, allora comincerà a raccontare fatti ed eventi personali.

Colpisce immediatamente il modo in cui rivendica l’autonomia della scelta a partecipare alla lotta antifascista, decisione pagata a caro prezzo.

"Siamo state noi che abbiamo detto: ‘E’ possibile che non possiamo far niente?’, non è che nostro padre ci abbia imposto nulla... invece no, siamo state noi che abbiamo voluto".

Anche se poi sminuisce l’importanza del lavoro politico svolto, nonostante la sua abitazione fosse un centro per la produzione della stampa clandestina.

"Praticamente io mi sento di non aver fatto niente di utile per la Resistenza".

"Vedi i partigiani hanno qualcosa di interessante da raccontare, noi [deportati] abbiamo solo disgrazie!".

Nella, in questo caso, ha fatto suo e riporta il punto di vista da molti condiviso nell’immediato dopoguerra:

"Nelle rappresentazioni ufficiali e nell’immaginario diffuso, partigiano è chi, dopo aver combattuto in montagna, né è sceso nei giorni della liberazione, si è scontrato con gli ultimi fascisti e tedeschi, ha sfilato in corteo nelle città, incarnando anche visivamente l’irrompere del nuovo nelle istituzioni e nella quotidianità. Altra cosa i deportati, meno ‘spettacolari’, meno numerosi, portatori di significati ben più inquietanti - e forse proprio per questo visti semplicemente come vittime di un orrore impreciso e lontano"22.

Dicevamo poi del rapporto con le donne della sua famiglia, sostegno contro la vita infame di Ravensbrück ma anche fonte di profondo dolore.

Esse cercano di rimanere unite, rifiutando persino una sistemazione migliore nel campo esterno di Siemens:

"Noi abbiamo sempre cercato di non separarci... non potevamo andarci [alla Siemens, dove avrebbero potuto lavorare al coperto] o andarci tutte... e per non separarci abbiamo sempre cercato di star lì [a Ravensbrück]".

E ancora, rinunciano ad alcune fette di pane per barattarle con un indumento di lana da regalare alla madre, che cercheranno sempre di proteggere. Certamente la cura verso di essa è servita per conservare una dimensione umana, per difendersi dall’imbarbarimento, ma, allo stesso tempo, ha esposto al pericolo distruttivo dell’abbandono: Nella, infatti, ha assistito impotente ai tormenti e alla sua morte:

"Nostra madre, poveretta, l’abbiamo vista fino all’ultimo; proprio si è finita, finita... sai, la candela che si consuma".

Attraverso le sue parole rivive anche un’altra figura molto amata, quella della sorella maggiore Iole. Nella conserva con cura alcuni messaggi che Iole riuscì a mandarle quando entrambe erano ammalate, ma separate perché rinchiuse in due blocchi diversi.

"Queste letterine per me sono oro... perché in quel periodo mia sorella era pienamente cosciente, faceva coraggio a me, parlava di quando saremo tornate a casa".

Nella per molto tempo non si è rassegnata alla morte della sorella, vittima presumibilmente di una selezione, e forse ancora ne porta il lutto:

"Poi le chiamarono da tutte le infermerie, poi, poi niente... Si seppe, si seppe... ma non ci ho mai creduto a dire la verità, però dopo parecchi anni ho dovuto convincermi che era così".

Rimasta sola - la sorella Lina fu trasferita nel campo di Rechlin nel febbraio del 1945 - stringe amicizia con Julka Deskovic, una partigiana slava arrestata a Parma e morta alcuni giorni dopo la liberazione del campo, con la quale condivide gli ultimi periodi a Ravensbrück. La solidarietà è forte, cercano conforto una nell’altra nei momenti più tragici:

"Era una gran compagna per me".

Il rapporto con Julka assume un significato ancor più rilevante se si pensa all’isolamento a cui erano sottoposte le italiane, espressamente messo in luce da Nella in tutto il racconto, ostracismo che risalta maggiormente se contrapposto al legame che esisteva, e che la testimone sottolinea, tra gli altri gruppi nazionali presenti a Ravensbrück:

"Le francesi erano molte, le polacche erano molte ed erano tutte abbastanza organizzate, noi italiane, poverine, eravamo proprio le ultime... Noi italiane eravamo sempre molto isolate".

Alle italiane toccavano i lavori peggiori, le razioni ridotte, venivano cacciate in malo modo perché considerate sporche:

"Tutte avevano i pidocchi, però ti dicevano che le italiane avevano i pidocchi, era fatto così il mondo del campo, era fatto così, specialmente per noi italiane, non sapevamo una parola, non sapevamo arrangiarci".

"Dovevi metterti in fila e naturalmente noi finivamo sempre per essere le ultime e quando arrivavamo noi c’erano solo le briciole".

La lotta incessante per una sopravvivenza elementare spinge a difendere il poco che si ha. Anche Nella, che in tutto il racconto compare sempre mite ed arrendevole, si ribella e difende il piccolo spazio conquistato faticosamente:

"Avevamo una cuccetta dove c’era un pochino di luce, alla sera quando venivamo a casa da lavorare avevamo questo po' di luce".

Una sera trovano il posto occupato da due francesi:

"Facemmo una gran lite (...) e alla fine l’ho avuta vinta io, siamo rimaste lì (…) Sono riuscita a rimanere nella mia cuccetta dove c’era un po' di luce".

Queste sono, in fondo, le piccole strategie per mantenere il rispetto di sé, gesti concreti di contestazione che l’impotenza di fronte agli avvenimenti non impedisce a volte di riaffermare, come in questo caso il diritto di avere un piccolo angolo privato, un esiguo spazio per sé.

Nella poi sottolinea come i valori morali e sociali dei quali le donne sono portatrici, siano stati messi a dura prova in Lager. Ravensbrück non solo stravolge totalmente l’ordine di quei valori, ma ottunde anche le sensibilità. La donna deportata viene privata da subito della sua dignità, del pudore che circonda il suo corpo, che diventa così un fatto pubblico, mentre il comune senso morale dell’epoca considerava con grande riservatezza. Nella racconta dei primi atti di degradazione subiti, cogliendo anche il progressivo abbrutimento che le rendeva meno sensibili:

"Hanno cominciato a farci spogliare nude, ti puoi immaginare... dopo ormai ci avevamo fatto l’abitudine, ma appena arrivate... Allora eravamo ancora sensibili a queste cose, dopo ce ne fregavamo".

Ma ancor di più pesa la vergogna provata dalla madre: il corpo segnato dall’età ed esposto al pubblico violenta il codice morale che pretende rispetto per la donna anziana:

"Specialmente... specialmente per nostra madre, ti puoi immaginare, vissuta in campagna... ecco, era una cosa che non sopportavamo".

Il corpo delle donne viene deturpato, svilito, brutalizzato. Attraverso il corpo, o meglio attraverso la sua riduzione a continua fonte di sofferenza, le deportate "capiscono" il Lager.

Un altro aspetto strettamente legato al vissuto corporeo è rappresentato dalla cessazione del ciclo mestruale. Nella ha la convinzione molto forte e radicata che le mestruazioni siano state bloccate volontariamente dai nazisti, attraverso la somministrazione di sostanze chimiche nel cibo.

"Era qualcosa che ci mettevano nel mangiare, perché non è possibile che a tutte quante, in 45 che eravamo [nel blocco], ci si fermino le mestruazioni e ci son tornate a due mesi dalla liberazione".

L’idea che possa essere stata una sostanza chimica a interrompere il ciclo garantisce psicologicamente il completo recupero della salute una volta rimossa la causa esterna, una volta riguadagnata la libertà.

Secondo Elemer Gyarmati, docente di clinica ostetrica e ginecologica all’università di Torino, l’amenorrea era "inizialmente di origine psicogena e dipendeva da alterazioni funzionali diencefalo-ipofisarie che potevano portare ad alterazioni anatomiche ovariche ed uterine e alla sospensione duratura e talvolta definitiva delle mestruazioni, con relativa sterilità"23; in poche parole una amenorrea secondaria dovuta alle estreme privazioni. Comunque, l’immagine comunicata è quella ancora una volta della profanazione del corpo della donna, della perdita della sua integrità fisica.

Una costante nel racconto di Nella è il tema del cibo. Quasi ossessivo, questo aspetto presenta più elementi: sfida ironica alla fame, mezzo di comunicazione, ma anche modo per collegarsi al passato - il ricordo del cibo di casa - o immaginarsi il futuro - il pranzo che le aspetta una volta liberate.

"Perché lì si finiva in genere a parlare di mangiare, avevi una fame che non ne potevi fare a meno".

"Dopo un po' ci siamo ritrovate che dicevamo ‘Adesso cosa mangiamo per merenda?’ [naturalmente scherzando]".

Il cibo perseguita Nella anche nei sogni, da cui, però, non trae nessuna soddisfazione:

"Quel sogno lì mi è rimasto impresso per un pezzo, che ci ho pianto sopra: venivo a casa da lavorare in bicicletta, ho fatto tutta via San Vitale, ho portato in casa la bicicletta, e la tavola era tutta imbandita e c’era della minestra brodosa, mi son lavata le mani, mi sono messa a sedere, ho preso il cucchiaio in mano e mi son svegliata... guarda, ti dico che ho pianto, insomma è assurdo ma ho pianto".

Un altro capitolo toccante della storia di Nella è costituito dal ritorno, un momento che avrebbe dovuto essere vissuto felicemente e invece è stato sofferto e lacerante. Dopo un’esperienza come questa tornare a vivere liberamente è estremamente faticoso: richiede una profonda elaborazione delle vicende vissute, un riadattamento lento e graduale.

Nella ne è consapevole da subito:

"Il giorno della liberazione, prima è stata una gran festa... poi ci siamo guardate in faccia con Julka e abbiam detto: ‘E adesso? Anche se torniamo a casa... come sarà?’ Allora lì ho capito tutta la tragedia... tutta la tragedia".

E’ sola, sua madre è morta, non ha più notizie delle altre sorelle e del padre, teme quindi il momento del ritorno:

"Non avevo il coraggio di arrivare fino a Bologna (...) fino a casa, perché non sapevo più niente di nessuno, ero rimasta sola".

A Bologna ritroverà poi la sorella Lina, unica superstite dell’intera famiglia, e gli effetti di Ravensbrück continueranno a farsi sentire per tutta la vita:

"Ho un rammarico, che non posso dire: ‘Se avessi vent’anni di meno, o trent’anni di meno’ perché quaranta anni fa stavo peggio di adesso [sorride]. E quando ci penso mi spiace, perché non posso neanche dire questo. Tutto quello che ricordo è sempre una gran stanchezza, piena di mali, di dolori, piena di acciacchi (...) Le conseguenze me le sono sempre portate dietro".

NOTE

1 Luisa Passerini, Storie di donne e femministe, Torino, Rosenberg & Sellier, 1991, p. 32.

2 Cfr. Dianella Gagliani, Elda Guerra, Laura Mariani, Fiorenza Tarozzi, Il racconto della Resistenza femminile. Tradizione e ricerca, in P. P. D'Attorre, M. Ridolfi, Ravenna e la Padania dalla Resistenza alla Repubblica, Ravenna, Longo Editore, 1996, p. 86.

3 Cfr. Anna Bravo, Donne e uomini nelle guerre mondiali, Roma-Bari, Laterza, 1991.

4 L'intervista - raccolta insieme ad altre, nell'ambito di una ricerca sulla deportazione femminile da Bologna e provincia - è conservata nell'Archivio della memoria delle donne presso il Dipartimento di discipline storiche dell'Università di Bologna.

5 Anna Bravo, Anna Maria Bruzzone, Federico Cereja, Brunello Mantelli, Prime riflessioni sulla raccolta delle storie di vita degli ex deportati residenti in Piemonte, in Consiglio regionale del Piemonte-ANED, Il dovere di testimoniare, Milano, Franco Angeli, 1983, p. 147.

6 "Figura così importante ma così trascurata, colui che alcuni pensano debba sparire, nascondersi il più possibile per non influenzare un campo che, così credono, sarà tanto più ricco di informazioni quanto meno l’intervistatore avrà esibito la sua presenza. Ma colui che, per così dire sdoppiandosi, riappare sotto la forma tutt’altro che negletta di autore che (talvolta) trascrive e (quasi sempre) reinterpreta le interviste trascritte, utilizzandole per scrivere un testo finalmente ‘suo’ ". In Giovanni Contini, Alfredo Martini, Verba Manent. L’uso delle fonti orali per la storia contemporanea, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1993, p. 12.

7 Cfr. Giovanni Contini, Alfredo Martini, op. cit., p. 13.

8 Anna Bravo, Anna Maria Bruzzone, Federico Cereja, Brunello Mantelli, op. cit., p. 148.

9 Anna Bravo, Anna Maria Bruzzone, Federico Cereja, Brunello Mantelli, op. cit., p. 153.

10 Cfr. Giovanni Contini, Alfredo Martini, op. cit., p. 140.

11 Cfr. Giovanni Contini, Alfredo Martini, op. cit., p. 140.

12 Il riferimento è qui al testo, già citato, di Lidia Beccaria Rolfi e Anna Maria Bruzzone, Le donne di Ravensbrück.

13 Anna Bravo, Daniele Jalla (a cura di), La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Milano, Franco Angeli, 1992, p. 37.

14 Giovanni Contini, Alfredo Martini, op. cit., p. 31.

15 Anna Bravo, Daniele Jalla, op. cit., p. 35.

16 Anna Bravo, Anna Maria Bruzzone, Federico Cereja, Brunello Mantelli, op. cit., p. 160.

17 Anna Bravo, Daniele Jalla, op. cit., p. 36.

18 Giovanni Contini, Alfredo Martini, op. cit., pp. 29-30.

19 Cfr. Giovanni Contini, Alfredo Martini, op. cit., p. 30.

20 Anna Bravo, Anna Maria Bruzzone, Federico Cereja, Brunello Mantelli, op. cit., p. 157.

21 La sua testimonianza è apparsa in Lidia Beccaria Rolfi, Anna Maria Bruzzone, Le donne di Ravensbrück. Testimonianze di deportate politiche italiane, Torino, Einaudi, 1978; Alfonso Gatto (a cura di), Il coro della Guerra. Venti storie parlate, raccolte da A. Pacifici e R. Macrelli, Bari, Laterza, 1963 e in Luciano Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, Bologna, Istituto per la storia di Bologna, 1980, vol. V.

22 Anna Bravo, Daniele Jalla (a cura di), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia 1944-1993, Milano, Franco Angeli, 1994, p. 21.

  1. Elemer Gyarmati, Note sulle conseguenze patologiche della deportazione femminile, in "Quaderni del Centro Studi sulla Deportazione e l’Internamento", n. 4, 1967, p. 57.

Insegnare il razzismo.

Docenti e presidi di fronte al razzismo di Stato fascista

di Gianluca Gabrielli

Introduzione

Nel 1936 il regime fascista, al termine della conquista dell’Etiopia, vara le prime norme per separare africani da italiani nelle colonie. Due anni dopo, nell’estate del 1938, entrano in vigore le prime leggi antisemite indirizzate contro gli ebrei stranieri.

Negli ultimi anni numerosi storici si sono posti l’obiettivo di scavare nel retroterra di questi provvedimenti per comprenderne la genesi e i precedenti, con il risultato di indebolire sempre più la vecchia tesi che vedeva il razzismo di Stato fascista come mero strumento di una politica di avvicinamento alla Germania nazista, deciso dall’alto dalle gerarchie fasciste ma, proprio per questo, non radicato nella società del tempo. Oggi, tra gli studiosi, questa tesi è decisamente minoritaria e acquistano invece forza, tra gli altri, quei filoni di indagine che esplorano quello che potremmo definire "razzismo diffuso", eleggendo a campi di studio la storia delle discipline scientifiche, delle comunità educative, la storia sociale delle colonie; fonti sempre più importanti divengono la narrativa di consumo, la pubblicistica didattica o le immagini fotografiche; i parametri temporali classici vengono forzati e le ricerche si spingono spesso a ritroso oltre il Ventennio, negli anni dell’Italia liberale.

Questi nuovi importanti filoni di studio ci permettono, forse per la prima volta, di volgere lo sguardo alla questione della ricezione che la società italiana riservò alla svolta del razzismo di Stato con la concreta possibilità di elaborare descrizioni sufficientemente articolate. Troppe volte rimozioni e negazioni preventive di un’adesione diffusa al fenomeno, magari accompagnate dall’esaltazione del caso esemplare e individuale di rifiuto, hanno svolto il compito di tranquillizzare l’opinione pubblica con una consolante assoluzione generalizzata. Così si è persa di vista la necessità, collegata all’etica e al senso del lavoro storiografico, di comprendere ciò che è accaduto nelle sue articolazioni più sottili.

Questo testo tenta di dare un piccolo contributo a questa ricostruzione in un ambito cruciale della società italiana al tempo delle leggi razziali: quello scolastico.

La mostra della razza

Il 19 febbraio 1940 il ministro Bottai scrisse a tutti i Provveditori agli studi d’Italia per comunicare che, su ordine del duce, il 21 aprile, festa del "Natale di Roma", sarebbe stata inaugurata nella capitale la "Mostra della Razza" e che il Ministero dell’Educazione Nazionale avrebbe partecipato con "materiale atto a documentare la funzione della scuola nella politica razziale"1.

A quel tempo le esposizioni erano una forma di propaganda molto utilizzata a tutti i livelli2. Organizzavano mostre i gruppi fascisti locali e le organizzazioni di commercio, le associazioni di combattenti e i missionari. L’appuntamento di massimo livello, organizzato in pompa magna dal regime per il 1942, doveva essere l’Esposizione Universale di Roma che avrebbe presentato, attraverso un complesso articolato di mostre, la centralità dell’ "esperienza fascista nella civiltà universale". Probabilmente fu proprio in preparazione di questa esposizione, nella quale il settore della "Sanità e della razza" si sarebbe dovuto articolare in ben quattro mostre, che il Ministero dell’Educazione Nazionale ebbe l’incarico di anticipare i tempi per uscire pubblicamente il 21 aprile 19403. I Provveditori dovevano quindi entro breve periodo informare i dirigenti e raccogliere da essi gli elenchi descrittivi del materiale che ogni scuola dipendente avrebbe proposto perché ritenuto adatto a soddisfare la richiesta.

Gli anni precedenti

Per inquadrare questa iniziativa occorre ricordare che siamo alla fine dell’inverno 1939-40, quando le iniziative fasciste sulla scuola in relazione alla campagna razzista si erano già dispiegate in maniera forte. Gabriele Turi faceva notare già anni fa che nell’autunno del 1938 il fascismo intervenne sulla scuola, sull’università e sulla cultura imponendo normative più razziste di quelle coeve in vigore nella Germania nazista. Giuseppe Bottai, già ministro in carica dell’Educazione Nazionale, era stato il più sollecito uomo di regime a prendere provvedimenti antiebraici. Nella scuola fascista le azioni di censimento e di discriminazione iniziarono infatti ancor prima che l’antisemitismo fosse divenuto legge di Stato o direttiva ufficiale del governo. Già il 3 agosto viene vietata l’iscrizione alle scuole di ogni ordine e grado degli ebrei stranieri; il 9 parte il censimento "a fini razziali" di tutto il personale scolastico e successivamente quello degli studenti: lavoratori e studenti ebrei verranno cacciati in base al RDL del 5 settembre Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista. Nell’ottobre del 1938, al Gran Consiglio del Fascismo, Bottai stesso si opporrà in maniera intransigente a qualsiasi attenuazione dei provvedimenti e la campagna antiebraica nella scuola sarà portata avanti in maniera inflessibile anche negli anni successivi.

Lo zelo di Bottai fu particolarmente efficace nell’operare nel "bonificare" il sapere scolastico del tempo da quelle che venivano definite "influenze semite": censure e riscritture dei libri di testo4 e attiva propaganda delle pubblicazioni razziste, a partire dalla rivista "La Difesa della Razza" fino alla stampa e diffusione del Secondo libro del fascista5. Quest’ultimo è una sorta di manuale scolastico specifico sul razzismo per gli alunni delle scuole elementari e medie, che seguiva ad un anno di distanza il Primo libro… dedicato a Mussolini, alla rivoluzione fascista e alle organizzazioni di regime. Il ministero fece ingente opera di propaganda affinché si arrivasse ad una "diffusione possibilmente totalitaria dei due volumi" il cui contenuto era articolato per brevi domande e risposte secondo lo stile dei testi di catechismo di fine Ottocento. Ecco un saggio del contenuto: "D.[domanda] A quale razza appartieni? R.[risposta] Appartengo alla razza ariana. / D. Perché dici di essere di razza ariana? R. Perché la razza italiana è ariana. / […] D. Qual è la missione della razza ariana? R. La razza ariana ha la missione di civilizzare il mondo, e di farne incessantemente progredire la civiltà"; "D. Perché il Regime Fascista ha preso i provvedimenti riguardanti gli ebrei? R. I provvedimenti razziali del Regime sono stati presi per tutelare la purezza del sangue italiano e dello spirito italiano e per difendere lo stato contro le congiure dell’ebraismo internazionale"; "D. Qual è il primo dovere dell’Italiano che vive sui territori dell’Impero? R. Il primo dovere dell’Italiano che vive sui territori dell’Impero è quello di mantenere il prestigio di razza, mostrandone costantemente la superiorità agli indigeni"6.

La cancellazione delle "presenze ebraiche" tra gli educatori, tra i discenti e fin nell’interno dei sussidi didattici era così proceduta in modo spedito creando forti lacerazioni all’interno della società italiana Occorre infatti tenere presente che la scuola è un’istituzione che coinvolge già all’epoca quasi tutta la popolazione italiana in modo diretto – insegnanti, bidelli, studenti – e indiretto –famigliari dei suddetti; per cui l’impatto sulla scuola di provvedimenti simili ha una diffusione superiore di quello che avrebbe in qualsiasi altro settore della società.

Le richieste di Bottai

Torniamo alla Mostra. L’idea che ha Bottai del razzismo-scolastico è particolarmente precisa e dettagliata, dopo oltre un anno e mezzo di solerte azione persecutoria. Rimane invece da capire quali aspetti di questa azione sono ritenuti adatti ad essere mostrati in una esposizione e celebrazione pubblica. Nella medesima circolare che comunica l’organizzazione della Mostra della Razza ne leggiamo una prima sintesi nelle indicazioni su cosa da richiedere nei diversi ordini di scuola per l’esposizione.

Per la "scuola materna" occorre raccogliere materiali che

"dimostrino lo sviluppo dal Risorgimento al Fascismo, i metodi e gli aspetti della vita delle scuole materne.

Per la scuola elementare: lo sviluppo della tecnica didattica, dell’edilizia e dell’arredamento scolastico; attrezzatura ambulatoriale e assistenza igienica, sanitaria, alimentare (scuole all’aperto); sussidi didattici per la formazione della coscienza razzista;

Per la scuola media: Iniziative per la formazione della coscienza razziale; aspetti del lavoro produttivo come contributo alla sanità della razza; aspetti dell’orientamento professionale".

Possiamo con una certa sicurezza sostenere che in queste note è racchiusa una sintesi dell’immagine pubblica del razzismo fascista promossa dalle gerarchie nelle scuole italiane: l’idea ufficiale di razzismo per il ministero dell’educazione e, di riflesso, il razzismo che fino a quel momento era stato promosso nelle aule d’Italia – accanto al "curricolo implicito" che agiva attraverso l’espulsione dei soggetti definiti "non ariani".

Sostanzialmente i filoni argomentativi (le sezioni tematiche della ipotetica mostra) sono tre.

Il primo è quello del razzismo inteso come sostegno assistenziale e formativo alla "razza italiana", cioè "superiore": igiene, salute, alimentazione, edilizia e arredamento costituivano per le gerarchie un sostegno non agli individui ma alla razza, degna di tutela in quanto superiore, legata ai destini della nazione e del fascismo. Lo stesso "sviluppo della tecnica didattica" veniva fatto rientrare in questo filone quasi fosse degno di attenzione solo in quanto ausilio utile allo sviluppo culturale di soggetti che appartengono ad una "razza superiore". Qui l’alunno è "oggetto" dell’attenzione razzista del regime.

Il secondo filone è forse quello che, anche senza conoscere nei dettagli la politica razziale del regime, appare più scontato: sussidi didattici per la formazione della coscienza razziale (o razzista). In pratica la didattica per educare da una parte al senso di superiorità e "prestigio" della propria "razza" (come recitava la legge del 1939 per le colonie); e dall’altra per predisporre e giustificare nelle coscienze la discriminazione, la separazione e la persecuzione dei soggetti definiti e indicati come "inferiori".

Il terzo filone compare solo per la scuola media, cioè per gli studenti in gran parte prossimi all’uscita dal mondo scolastico: orientamento professionale e lavoro produttivo. La promozione del lavoro in un modello di società organicistico e razzista diviene promozione della "razza" rispetto all’individuo e dell’artificiosa armonia dei ruoli sociali interni alla "comunità razziale omogenea" in luogo del conflitto tra classi sociali (sostituito dal conflitto-guerra delle razze e dall’esclusione dei soggetti non omogenei).

Fin qui le aspettative del regime.

Cosa rispondono le scuole alla richiesta di Bottai? Quali materiali hanno da proporre per la Mostra? Le fonti che abbiamo a disposizione per abbozzare una parziale risposta sono di due tipi. Da una parte un opuscolo stampato a Treviso dall’Istituto Tecnico Riccati con i curricoli di "educazione al razzismo" firmati da 21 insegnanti alla fine del 1938. Dall’altra alcuni carteggi, scambiati tra le scuole di Bologna e Modena e i relativi Provveditori, in merito ai materiali da proporre per la Mostra.

La scuola reale: un caso datato 1938.

L’opuscolo dell’Istituto tecnico Riccati di Treviso7 viene stampato il 27 marzo 1940, ma raccoglie testi prodotti in precedenza. Si tratta delle risposte di 21 docenti ad una circolare del preside datata 29 novembre 1938 che chiede "entro quali limiti vi proponete di svolgere nelle rispettive classi la trattazione del problema razziale". Probabilmente la pubblicazione dell’opuscolo fu decisa in tutta fretta all’inizio del 1940 proprio sapendo che di lì a poco si sarebbe tenuta una mostra sul tema. Nella circolare, stampata in apertura dell’opuscolo, lo zelante preside rammenta ai professori la precedente comunicazione ministeriale che auspicava la diffusione e l’uso della rivista "La difesa della razza" nell’attività didattica:

"E’ naturale che il movimento razzista, messo dal Duce all’ordine del giorno della Nazione per integrare quel processo unitario che manterrà il popolo italiano uno di lingua, di religione, di mente, debba non solo essere diffuso nella scuola, ma nella scuola stessa trovare il suo organo più sensibile ed efficace. Nella scuola media il più elevato sviluppo mentale degli adolescenti, già a contatto con la tradizione umanistica attraverso lo studio delle lingue classiche, della storia e della letteratura, consentirà di fissare i capisaldi della dottrina razzista, i suoi fini e i suoi limiti".

Non sappiamo se nella pubblicazione sono raccolte tutte le risposte, oppure – come pare più probabile – se queste 21 sono quelle scelte tra le altre. Comunque, come è facile immaginare, nessuna delle risposte pubblicate osa contraddire le direttive.

L’insegnante di scienze tratta "sia delle grandi razze umane, sia del popolo italiano e degli indigeni dell’Impero africano, sia delle altre popolazioni europee ed extra-europee" senza dimenticare, tra gli argomenti trattati, la "nobiltà razziale del popolo italiano e il suo giusto orgoglio di razza, la cui purezza va gelosamente difesa contro ibridismi e contaminazioni da parte di elementi razziali inferiori"8. Le scienze sono l’unico insegnamento "biologico" dell’istituto e come tale assolvono la funzione di ribadire il carattere "anche biologico" della campagna razzista. Ma, come già notava Michele Sarfatti, il razzismo fascista nella scuola italiana sembra declinarsi secondo le diverse materie, assumendo ora una caratteristica biologica, ora tratti decisamente culturali e riferimenti nazionalisti9. Così l’insegnante di religione ritiene di cogliere lo spirito "essenzialmente italiano" del Manifesto degli scienziati razzisti tanto che gli "pare di dover insistere ancor più che negli anni precedenti sulla storia delle Chiesa, in riferimento particolare all’Italia" aprendo così "un vastissimo campo per trattare di questa gente italica che ha lasciato una indelebile impronta Cristiano-civile nella valutazione e salvaguardia delle energie sane del Romanesimo, nell’incivilire i barbari, nell’espandere la civiltà italiana con i Missionari" concludendo che "è l’Italia, la terra destinata da Dio ad essere Faro di vera Civiltà".

Un vasto campo "culturale" di educazione razzista si apre con gli interventi degli insegnanti di materie letterarie, che non negano ma integrano il concetto biologico di razza. Ecco ad esempio come integra i due campi il prof. Bazzo: "lo svolgimento del programma di Storia del corrente anno scolastico mi offre opportunità di mettere in chiara evidenza la diversità tra razza Semitica ed Ariana, nei loro caratteri spirituali e somatici"10. Gran parte di questi interventi poi si concentrano sugli aspetti dell’eredità storico-classica e letteraria che, da motivi di identità e propaganda risorgimentale, sono via via divenuti anche elementi dell’ideologia nazionalistica e poi fascista: "infonderò [negli studenti] l’orgoglio e la fierezza di essere italiani, discendenti dagli antichi Romani che hanno primeggiato con lo spirito e le opere nel mondo"11, o "La civiltà che fu con Augusto signora del mondo e del tempo suo e che, resa cristiana, procedette coi missionari cattolici ad estendere la coltura le leggi la fede di Roma immortale in tutto il mondo, non può ne deve abbassarsi a contaminazioni ed incroci, ad imbastardimenti e a tolleranze etniche e spirituali, scientifiche e colturali che sarebbero tradimento e falsificazione di se stessa"12. Come si vede non mancano punte di violenta e gratuita istigazione alla discriminazione, indirizzata di volta in volta verso ebrei o verso indigeni delle colonie: "Parlerò pure del massimo dei pericoli per la nostra razza: gli Ebrei e perché oggi si cerchi di segregarli da noi"13.

Chi manifesta dei dubbi li limita alle modalità con cui affrontare gli aspetti "biologici" del problema, per non turbare gli adolescenti, ma non rinuncia al compito:

"mi permetto anzitutto segnalarvi l’estrema delicatezza del compito che ci viene affidato. Non si può infatti, a mio parere, toccare il problema biologico del quesito e intrattenere la scolaresca sulle importantissime questioni del meticciato e dell’incrocio senza accorgimento e prudenza massima per non turbare la suscettibilità morale e religiosa della scolaresca". Oppure "Mi pare quindi più opportuno risolvere degnamente il problema infondendo nei ragazzi l’amore per la ginnastica e la coltura fisica" e ancora "Per l’aspetto morale cercherò […] di mettere in rilievo la superiorità fisica, morale e militare della nostra gente e mostrerò l’enorme contributo artistico, religioso, sociale ed umanistico dato dal nostro popolo in tutte le epoche e in tutte le contrade del mondo alla civiltà delle genti"14.

Tutti i docenti mostrano di comprendere che questa svolta (i testi risultano scritti alla fine del 1938) si può innestare nel normale curricolo didattico senza stravolgerlo, riorganizzando conoscenze e contenuti in gran parte presenti negli insegnamenti del tempo ma inquadrandoli sotto il cappello unificante della campagna razzista. Ecco quindi che le uniche lezioni specifiche sono proposte dall’insegnante di scienze o da quelli di diritto ("le norme per la difesa della razza nel nuovo codice civile"15), mentre tutti gli altri riprendono argomentazioni tipiche delle loro materie salvo infarcirle con riferimenti - assolutamente coerente, dal loro punto di vista - ai proclami di regime o alla lotta contro gli "ibridismi", le "contaminazioni", gli "imbastardimenti". Proprio perciò è facile parlarne "appena se ne presti l’occasione, o provocando io stesso questa occasione"16 o "il sottoscritto […] prenderà lo spunto da qualche lezione di italiano e più ancora di storia" o ancora "ho avuto cura sin dal principio dell’anno di cogliere e di sviluppare quegli elementi e quegli spunti che dall’insegnamento delle varie materie mi sono stati offerti man mano"; e alcuni si rendono conto che, in fondo, lo fanno da tempo, come l’insegnante di agraria: "In armonia alle direttive del Regime ho da più anni illustrato ed illustro le leggi e i provvedimenti che il Governo fascista emana per formare la coscienza di razza e per la difesa della razza"17. Infatti molte di queste argomentazioni – a tutela della maternità e dell’infanzia e tutto il sistema di igiene sociale e di prevenzione impiantato dal fascismo – erano state portate avanti negli anni precedenti anche sotto la dizione "difesa della razza": una formula quindi che sostanzialmente identificava l’insieme delle politiche sociali del fascismo. La scuola, una volta varate le leggi razziali, ebbe un ruolo decisivo nell’operazione di riarticolare culturalmente la costellazione della politica sociale includendovi come componente necessaria proprio la discriminazione e la persecuzione di neri ed ebrei. E, come sostiene Adolfo Mignemi, il ruolo della scuola fu decisivo nel "fissare nella memoria collettiva del paese questo falso ruolo delle politiche sociali del regime che finirono con il rappresentare, data proprio l’imponenza delle stesse, la classica foglia di fico dietro la quale si stemperarono responsabilità e fu consentita una sorta di rimozione non traumatica e la costruzione di un’immagine di razzismo italiano considerabile – ma non sappiamo proprio comprendere come – "dal volto umano" "18.

Le proposte delle scuole di Modena e Bologna nel 1940.

Queste riflessioni mi sembrano confermate anche dai materiali proposti per la mostra del 1940.

Abbiamo innanzitutto i riferimenti alla politica sociale e igienico-sanitaria del fascismo vissuti come parte integrante della politica razziale. Il direttore didattico di Imola propone "fotografie dell’ambulatorio medico esistente nelle scuole del capoluogo e relazione statistica medico sanitaria relativa all’assistenza fatta agli alunni. […] Fotografia di bambini mentre fanno cure (inalazioni, esercizi di inspirazione) sport"19. Il preside del Corso biennale di avviamento professionale di S Giorgio di Piano comunica che ha iniziato da qualche tempo una vera schedatura sanitaria degli allievi e aggiunge: "Questo esperimento ha carattere strettamente riservato e non so se possa presentare qualche interesse per la Mostra della Razza"20. Inoltre emergono i riferimenti all’edilizia scolastica, alle scuole all’aperto (create vent’anni prima dalle giunte di sinistra per prevenire la tubercolosi), ai banchi igienici, alle refezioni… Collegati agli aspetti sociali compaiono numerose proposte di materiali illustranti le attività di orientamento professionale, foto del "lavoro manuale" e oggetti frutto del "lavoro produttivo", immagini "riproducenti le attività giornaliere della scolaresca nelle esercitazioni di campagna"21 e così via.

Accanto a questi elementi, riferiti agli aspetti sociali con cui si mostra il razzismo fascista, compaiono immancabili i suoi caratteri più direttamente legati alla discriminazione, soprattutto quando si passa a materiali legati alla didattica. Così il Liceo Ginnasio Pico di Mirandola propone una serie di schemi di lezione che probabilmente intendono essere esaustivi dei principali aspetti del razzismo fascista. Tra gli argomenti di tali unità didattiche sono più numerosi quelli di tipo biologico, quasi a fondamento dell’impianto generale (tre lezioni tenute dalla professoressa di biologia sulle leggi di Mendel, sulle differenze razziali e sulla conservazione della purezza della "nostra razza" attraverso l’interdizione dei matrimoni misti). Accanto a questi, però vengono affrontate altre tematiche che, anche se non biologiche, rientrano pienamente nella concezione fascista del razzismo. Prima di tutto la difesa della tradizione culturale e religiosa (la trattazione tenuta dal professore di storia e filosofia dal titolo: "La razza ariana deve respingere ogni sorta di contaminazioni morali e intellettuali..." e quella del professore di religione su "religione tradizionale, famiglia" e maternità); quindi l’esaltazione della famiglia e della maternità e la promozione delle norme igieniche per il miglioramento della cosiddetta "stirpe" (l’insegnante di puericultura presenta una conferenza su "la mamma e il suo bambino" mentre la già nominata professoressa di biologia tematizza "il problema dell’alimentazione nel miglioramento della razza italiana")22. Nel ciclo di lezioni quindi si ricompone l’impianto generale, complessivo del razzismo fascista, con il fondamento biologico, con i riferimenti alla tradizione culturale nazionale e religiosa, con la proiezione discriminatoria e persecutoria verso ogni possibile "contaminazione", biologica o culturale.

Un altro esempio nelle proposte dell’Ispettore della II Circostrizione di Modena. In questo documento l’accento è posto sull’edilizia scolastica e sulla promozione di norme igieniche; ma anche qui tali aspetti risultano legati a "materiali espositivi" di diversa impostazione, che "mostrano la superiorità estetica delle nostra razza in confronto con le altre razze".

Da questi materiali in definitiva si possono trarre due indicazioni: da un lato il fascismo include ed eredita, nell’immagine che fornisce del proprio razzismo, tutti quelle attività (campagne igieniche, antitubercolari, assistenza alla maternità e all’infanzia, educazione fisica, edilizia sociale) di politica sociale a favore della popolazione italiana (in realtà, a favore dello Stato), i quali possono costruire nella popolazione un consenso più vasto che vada al di là del mero odio per le cosiddette razze inferiori; dall’altro lato risulta chiaro che ogni aspetto "propositivo" del razzismo, di tutela sociale o edilizia pubblica che sia, non può essere considerato di per sé ma deve sempre venire letto assieme al suo aspetto complementare, implicito o esplicito, di superiorità rispetto ad altri gruppi; quindi di discriminazione, esclusione, negazione23.

Epilogo

La Mostra della razza all’ultimo momento fu annullata, probabilmente per concentrare gli sforzi propagandistici sull’imminente ingresso in guerra dell’Italia. Così anche la zelante anticipazione dell’E42, ebbe il destino di quest’ultima, di cui rimangono carteggi, progetti, edifici… ma la realizzazione non ebbe luogo. L’Italia ormai era immersa nella catastrofe del conflitto e la vicenda del razzismo procedette sui binari infausti che portavano ai campi di sterminio, senza più attardarsi nella celebrazione della "superiorità italica".

Oggi, che di questa tragica vicenda ci troviamo a ricordare gli esiti, è a mio parere utile riflettere, come educatori, sull’impegnativo nodo del rapporto tra coscienza e azione, tra principi morali e comportamento.

Oltre sessant’anni fa, di fronte alle leggi razziste, ci fu chi seguì con maggiore o minore entusiasmo la strada del potere; chi si difese - in anni di dittatura - con il silenzio o comunicando di "non avere materiale atto a documentare…"; chi infine rischiò in prima persona fino a perdere il lavoro, a dover scappare o ad essere perseguitato come antifascista. Quasi nessuno di coloro che accettarono, magari controvoglia, di celebrare e insegnare la "razza" fu chiamato a rispondere dei suoi atti. Per costoro l’unico tribunale è stata la coscienza.

Ma – e non si sorrida come di fronte a facile retorica – di fronte agli stessi dilemmi ci troviamo anche noi, ogni giorno. Oggi leggi dello Stato in cui ci troviamo a vivere propongono, con dubbia costituzionalità, di considerare le persone estranee alla comunità europea come uomini e donne dimezzati, privi di diritti e costantemente oggetto di pregiudizio, "non persone"... Oggi, grazie ai sacrifici e alle lotte di uomini e donne, non viviamo in dittatura. Oggi, più di allora, il silenzio degli "educatori" non è sufficiente.

Note

1 Bottai ai Provveditori, 19 febbraio 1940, Arch. di Stato Bologna, fondo Provv. Studi Bo, b. 153 fasc B33.

2 Cfr. Adolfo Mignemi, Profilassi sanitaria e politiche sociali del regime per la ‘tutela della stirpe’. La ‘Mise en scene’ dell’orgoglio di razza, in La menzogna della razza, Grafis, Casalecchio di Reno, 1994.

3 La proposta è del Ministero della Cultura Popolare per "illustrare le origini della nostra razza, le vicende storiche che essa ha attraversato e gli immensi contributi che ripetutamente ha dato alla civiltà mondiale", Agenzia Stefani del 23 agosto 1939, Arch. Centrale dello Stato, fondo Pres. Cons. Ministri ‘37-39, fasc. 14.1.8147.

4 A mo’ di esempio, così recita la circolare del 22 luglio 1939 "oggetto: Libri di testo per le scuole e direttive razziali. A seguito e integrazione di precedenti disposizioni in materia comunico che, nella revisione dei libri di testo che i revisori stanno attualmente compiendo al fine di adeguarli alle vigenti direttive sulla difesa della razza nella scuola, dovrà curarsi l’eliminazione non solo dei brani di scrittori o poeti di razza ebraica ma anche di tutte le citazioni ed in genere i riferimenti al pensiero di autori ebrei" fondo Provv. Studi Bo, b. 153 fasc B33.

5 PNF, Il secondo libro del fascista, Verona, Mondadori, 1939.

6 Ivi, p. 76, 85 e 88.

7 R. Istituto ‘Riccati’ Treviso, Per la difesa della razza, Longo e Zoppelli, Treviso, 27 marzo 1940. Ripubblicato recentemente su "Diario", 8 luglio 1998 con introduzione di Michele Sarfatti. Ringrazio Luigi Urettini che me lo aveva segnalato prima che fosse riedito.

8 p. 16-17.

9 Sulle caratteristiche ideologiche delle diverse correnti razziste in lotta per l’egemonia in quegli anni cfr: Mauro Raspanti, I razzismi del fascismo, in La Menzogna della razza, cit.

10 p. 5.

11 p. 7.

12 p. 15-16.

13 p. 5.

14 p. 8-9.

15 p. 13.

16 p. 9.

17 p. 13.

18 A. Mignemi, Profilassi…, cit.

19 Cavalli al Provveditore, 26 febbraio 1940, AdS Bo, Provv. Bo, b. 153 fasc B33.

20 Lettera al Provveditore, 23 febbraio 1940, AdS Bo, Provv. Bo, b. 153 fasc B33.

21 Ist. Agrario Scarabelli di Imola a Provveditore, 24 febbraio 1940, AdS Bo, Provv. Bo, b. 153 fasc B33.

22 Regio Liceo Ginnasio G.Pico Mirandola (Preside A. Campanelli) a Provveditore, 26 febbraio 1940, AdS Mo, Provveditorato, b. 92, fasc. C16.

23 Ispettore scol. di Modena (I circosc.) a Provveditore, 27 febbraio 1940, AdS Mo, Provveditorato, b. 92, fasc. C16.

Trieste: frontiera della memoria

Intervista allo storico Giovanni Miccoli a cura di Daniela Antoni

Sulla memoria, e non solo, si gioca una partita pesante a Trieste: da un anno e mezzo le amministrazioni comunali e provinciali di centrodestra stanno sistematicamente procedendo alla distruzione del concetto stesso di Repubblica nata dalla Resistenza. Patrocinano convegni dell’associazione "Novecento", nei quali l’oratore più atteso è un ex volontario francese delle SS; inseriscono nella galleria dei sindaci della città il ritratto di Pagnini, podestà designato dai nazisti; recentemente alcuni esponenti si sono rifiutati di partecipare alla commemorazione di quattro antifascisti sloveni fucilati a Basovizza nel 1930 in esecuzione di una sentenza del "Tribunale speciale per la difesa dello stato", equiparandoli a terroristi e a brigatisti rossi.

A livello nazionale hanno destato clamore le celebrazioni della Giornata della Memoria e del 25 Aprile dello scorso anno. A gennaio la comunità ebraica, le associazioni dei partigiani e degli ex deportati si sono ritrovate assieme alle istituzioni in Risiera (unico lager nazista dell’Europa meridionale con forno crematorio annesso). Le istituzioni erano rappresentate, oltre che dal sindaco di FI, anche dal deputato Menia di AN, assessore alla cultura nonché Presidente della Commissione del Museo della Risiera, noto in città già dagli anni ’70 sia per le tesi razziste che per le pratiche adottate. Un gruppo di aderenti alla comunità ebraica celebra per protesta la Giornata della Memoria nel cimitero ebraico; migliaia di cittadini che non si rassegnano all’oltraggio dei Martiri della Risiera contestano le "autorità", protette da un cordone di polizia in entrata ed uscita dal luogo di sterminio. Anche Violante viene fischiato.

Non paghe delle provocazioni in occasione della Giornata della Memoria, le autorità locali rilanciano: non si celebra più il 25 Aprile come festa della Liberazione bensì si onorano in questa data tutte le vittime e i caduti per la libertà. Alla Risiera hanno luogo due manifestazioni distinte: dapprima le istituzioni, di nuovo pesantemente contestate, e poi la manifestazione organizzata dal "Comitato per la difesa dei valori della Resistenza e delle istituzioni democratiche". Pochi giorni dopo segue il pubblico richiamo di Ciampi alle istituzioni locali.

Che il clima in città sia invivibile e che sia in atto qui una celebrazione del fascismo è testimoniato anche da diversi interventi sia in Italia che all’estero. Il settimanale "Der Spiegel" in un lungo articolo ("L’alleanza di chi cancella le tracce"1) contrappone alla città di ieri quella di "oggi che non vuol più saperne di cosmopolitismo" mentre Claudio Magris interviene ripetutamente sul "Corriere della sera" per denunciare la gravità della situazione. Afferma Magris 2 che "non si tratta di serene revisioni storiche, ma di una sorda apologia dei peggiori aspetti del passato. I confini della decenza si spostano pericolosamente. Alle nostre frontiere orientali diventa problematico o imbarazzante onorare le vittime della Shoah o del fascismo e si riattizzano irresponsabilmente quegli odi nazionali ed etnici che hanno insanguinato e mutilato quelle frontiere e oppresso ferocemente gli slavi e più tardi gli italiani. [….] Responsabile di questa involuzione è una nuova classe – non solo politica - pacchiana, lontana dal fascismo storico e anche dalla sua tragedia e indifferente a ogni valore democratico e civile […] Sarebbe ben triste esser costretti, dinanzi a quest’acqua che sale dai tombini, a ritornare su trincee del passato e a ripetere pateticamente ‘no pasaran’" .

Abbiamo voluto intervistare il prof. Giovanni Miccoli, storico, già direttore del Dipartimento di Storia e Storia dell'Arte della Facoltà di Lettere dell'Università di Trieste, per mettere a fuoco alcuni aspetti del passato e di come si sia arrivati a questo presente, che mistifica la storia a scopo propagandistico.

Daniela Antoni

NOTE

1 E. Schmitter, Allianz der Spurenwischer, "Der Spiegel", 15 giugno 2002

2 C. Magris, Dovremo ripetere no pasaran?, "Corriere della sera", 20 novembre 2002

Intervista al prof. Giovanni Miccoli

27 dicembre2002

Miccoli: Per parlare di razzismo o di atteggiamenti razzistici in queste zone bisogna iniziare dai rapporti tra italiani e sloveni: già gli ultimi anni dell’impero absburgico vedono un violento scontro tra i due nazionalismi. Da parte italiana comincia a raffigurarsi in termini di potenziale razzismo nel momento in cui si sottolinea la superiorità della propria cultura rispetto alla cultura slava o "sciava", come spregiativamente si diceva, aspetto che si accentua e aggrava nel periodo fascista attraverso lo smantellamento sistematico di tutte le istituzioni culturali e politiche degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia, la proibizione dell’uso pubblico della lingua, ecc.

E’ una persecuzione strisciante, che culmina durante la guerra con l’annessione della provincia di Ljubljana. Sono aspetti che hanno pesanti strascichi e contraccolpi anche nel dopoguerra in quella che diventa la persecuzione della componente italiana dell’Istria, l’esodo.

Va ovviamente ricordata la persecuzione degli ebrei, che avviene anche attraverso l’influenza forte a Trieste della memoria della cultura tedesca, in quel momento manifestamente nazista, e che coinvolge, come è noto, largamente forze locali. Per certi aspetti la persecuzione è più forte che altrove, perché a Trieste si verificano episodi particolarmente gravi di violenza, come la profanazione della sinagoga e attacchi verso negozi ebraici.

La complessa vicenda del litorale adriatico, nella prospettiva dell’unione di Trieste alla Germania, trova forze collaborazioniste, che attestano che l’ideologia nazista e i metodi nazisti non costituivano per esse una discriminante. Una discriminante che invece porta forze italiane a combattere il nazismo nonostante si sapesse delle intenzioni di annessione della città da parte del movimento di liberazione jugoslavo. Si dice molte volte che i collaborazionisti intendevano difendere l’italianità della città, ma in realtà non mancano segni che la loro collaborazione comportava l’accettazione di alcuni degli aspetti più odiosi della ideologia e della pratica nazista. Personaggi che collaborano, come il podestà di Trieste Pagnini, in realtà sono già coinvolti nelle campagne antiebraiche ben prima dell’8 settembre in quei circoli tedeschi che i nazisti avevano fondato.

I decenni del secondo dopoguerra sono segnati dalla questione nazionale da una parte e dalla contrapposizione Occidente/Oriente dall’altra, con tutte le pesanti ricadute che questo ha sulla situazione locale: la città eredita la specifica storia di lacerazioni aggravate dalla situazione internazionale, dall’essere cioè, per un certo periodo, avamposto dell’Occidente.[…]

Nel momento in cui si ricorda il collaborazionismo, va ricordata la Risiera. Allora ero un ragazzino ma tutti sapevano, era un luogo comune in città che la Risiera era la fine, figurarsi se le autorità potevano non sapere.[…]

Nel corso dei decenni questa pesantissima eredità è stata in parte lentissimamente superata, nel senso che si è riusciti a realizzare la convivenza tra italiani e sloveni, nella consapevolezza di tutti i guasti che i vari momenti della sanguinosa contrapposizione avevano recato. In questi ultimi anni si nota una riproposizione di aspetti che tendono a riprodurre, rinfocolare la contrapposizione di un tempo.

D: Però anche negli anni ’70 picchiatori e demolitori di monumenti alla resistenza erano attivi, fra questi il deputato Menia.

Miccoli: Malauguratamente a lungo era rimasta presente in città una tradizione fascista e nazionalista che, sia pur in termini minoritari, si era mantenuta in vita sfruttando situazioni dolorose del dopoguerra, come l’esodo dall’Istria.

Le tragedie e le sofferenze denunciate erano reali: 40000 e forse più istriani confluiti e rimasti in città erano per lo più vittime di persecuzione. Ciò dava spazio ad una propaganda nazionalistica e fascista. Tuttavia ha cominciato a prevalere la consapevolezza dei danni già arrecati dallo scontro nazionale, avviando un processo di superamento da entrambe le parti, che in questi ultimi anni rischia di essere messa in gioco.

D: il 14 aprile ’98, proprio a Trieste, Fini e Violante incontrano gli studenti per discutere sul rapporto tra democrazia e identità nazionale. Molti in città si sono sentiti offesi da questo incontro, il cui senso Violante aveva già annunciato nel suo discorso di insediamento come Presidente alla Camera , di come "bisogna sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e della Libertà".

Miccoli: Non è possibile costruire una memoria condivisa, le memorie restano evidentemente separate: chi ha subito persecuzioni, qualunque sia la parte, non le dimentica. Il vissuto soggettivo tuttavia non può costituire elemento per dare un giudizio storico complessivo sulle forze allora contrapposte. Non va dimenticato infatti che se fosse prevalso il nazismo con i suoi alleati fascisti, le conseguenze sarebbero state catastrofiche per l’Europa tutta. Il problema, se mai, è quello delle prospettive future, che non possono prescindere dalla consapevolezza dell’inciviltà di certe forme di vita politica. Questo, tra l’altro, dovrebbe essere uno dei compiti essenziali della scuola.[…]

Se è utopistico tentare di costruire una memoria condivisa, credo si debba aggiungere che vi è un errore di fondo nel tentativo di cancellare le diverse memorie contrapposte. Esse tuttavia vanno risituate per dir così nel contesto complessivo delle vicende cui si riferiscono. Anche così si può arrivare a capire quanto sbagliate siano state certe strade. Non può dunque non preoccupare vedere oggi riproposti in termini positivi atteggiamenti e personaggi di un passato nefasto. L’inserire Pagnini nella sequenza dei podestà e sindaci legittimi di Trieste costituisce un grave indizio di quanto si sia lontani dall’aver capito ciò che quel passato aveva rappresentato di negativo per la vita della città tutta. Né mancano altri indizi significativi di un revanchismo parafascista che pretende di cancellare i guasti spaventosi che il fascismo ha arrecato a queste terre.

D: E perché quindi proprio a Trieste l’incontro Violante- Fini?

Miccoli: Sicuramente l’iniziativa di Violante ha creato sconcerto; ma mi sembra che in seguito egli abbia fatto una mezza autocritica. Del resto si diceva prima dell’impossibilità di costruire una memoria condivisa proprio perché le memorie sono fatti in primo luogo individuali o di gruppo, sono memorie profondamente radicate. Per quanto riguarda il passato, come già si è detto, la diversità delle memorie poco ha a che fare con i rischi che in quel momento l’Europa intera stava correndo, o con il giudizio negativo sui regimi fascisti. Tutto ciò non significa mettere in discussione l’onestà soggettiva delle persone. […]

Anche questo strano recupero dei ragazzi di Salò: anch’io ho conosciuto persone che a 14 anni hanno fatto una scelta per la Repubblica sociale dettata da vari motivi e che soggettivamente sono ed erano persone oneste. Riconoscere però questa onestà soggettiva non significa modificare il giudizio sulla parte che hanno abbracciato: è un giudizio storico, politico. Un giudizio abbastanza scontato che stranamente in quell’incontro veniva in qualche modo accantonato. Violante in effetti non ha mai detto che le parti contrapposte si equivalevano, la portata civile di quella contrapposizione però veniva in qualche modo messa in secondo piano.

Anche in certi discorsi di esponenti locali della sinistra vi è stata una sottolineatura dei valori nazionali che non teneva sufficientemente conto di quanto in queste zone essi si siano manifestati in termini di aggressivo nazionalismo… ragione delle catastrofi avvenute in queste zone.

Alcuni interventi di esponenti dell’area di sinistra sembrano quasi avallare, a proposito delle foibe, l’affermazione che esse rientravano in una prospettiva di genocidio della componente italiana della regione. Si tratta di una forzatura inaccettabile, così come la ricorrente polemica sulla presunta rimozione che delle foibe e dell’esodo si sarebbe verificata nella ricostruzione della storia nazionale. La storiografia locale ne ha scritto ampiamente: superfluo ad esempio ricordare al riguardo le numerose opere stampate nell’arco di questi ultimi decenni dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione. Tuttavia alcune altre osservazioni sono opportune. Per queste zone, per chi ha vissuto quelle vicende è stata una terribile tragedia. Rapportata però alla tragedia collettiva dell’Europa resta un episodio minore. L’esodo dall’Istria ha coinvolto tra le 250 e le 300 mila persone mentre, ad esempio, gli spostamenti, gli esodi di popolazione dai vari paesi dell’Europa orientale, in particolare verso la Germania, sono stati spostamenti di milioni di persone. Prima ancora c’erano state le deportazioni, anch’esse in termini di milioni. Le foibe sono state certamente una forma selvaggia di vendetta e di rivalsa, avveniva in un contesto di guerra e di immediato dopoguerra contrassegnato qui come altrove da violenze indicibili. Presentarle quindi come un tentativo di genocidio, parola che suggerisce un programma e una volontà sistematica di eliminazione e che va usata quindi con la piena consapevolezza di ciò che questo significa, è una forma di mera propaganda, a cui esponenti della sinistra si sono prestati.

D: Le celebrazioni divise il 25 aprile, le istituzioni cittadine che onorano in Risiera "tutti i caduti" salvo poi essere riprese dal presidente Ciampi.

Miccoli: Le autorità comunali dimostrano totale inconsapevolezza sul significato complessivo, di liberazione da un pericolo estremo, di quella data. Credo si possa dire che il sindaco dopo i richiami del presidente Ciampi si sia penosamente arrampicato sugli specchi.

È evidente che allora l’arrivo in città del IX Corpus jugoslavo è stato un vero trauma per un’ampia parte della città e sarebbe insensato negarlo. Ma oggi limitarsi a enfatizzare questo aspetto, dimenticando il significato e l’importanza complessiva che quegli eventi hanno avuto per l’Italia e per l’Europa è indizio di un localismo e provincialismo terribilmente ottuso. Nell’attuale amministrazione c’è questo aspetto di volgarità. Non sembra siano le autorità municipali di una città che ha un suo decoro, un suo passato, una sua tradizione civile e culturale, anche se con molte pecche e cadute: sembrano gli esponenti di un piccolo borgo di provincia. Il discorso sarà anche elitario e aristocratico ma questa amministrazione sembra davvero incapace di corrispondere agli aspetti migliori della nostra storia locale. Non si può dimenticare che la catastrofe per Trieste è stata quella di farsi travolgere dagli scontri nazionali, di tradire il senso della sua storia multiculturale, multietnica anche se nettamente con impronta italiana.

D: Il nuovo asilo nido solo per bambini italiani sul Carso è stato definito una forma di apartheid. Siamo oltre alla mancanza di gusto, siamo forse un laboratorio di qualcosa d’altro? Altri sindaci avevano tentato commemorazioni per tutti i caduti, qui è stato particolarmente eclatante e ci si chiede se in questa forma estrema, che riesce a sposare volgarità e provincialismo bieco, non stiano passando momenti di offesa per il cittadino, per i suoi diritti.

Miccoli: Per quanto riguarda queste zone c’è il riproporsi, molto più accentuatamente che in altri luoghi d’Italia, di forme di revanchismo della componente fascista . Negli esponenti locali di Alleanza Nazionale si avverte tutta l’eredità fascista; la pretesa di aver lasciato il fascismo - e il fascismo di Salò in particolare - dietro alle spalle qui è molto meno sostenibile o non è sostenibile affatto. Qui è tuttora operante e rivendicata la memoria del fascismo: qui c’è il suo nocciolo duro.

Ciò che però avviene sul piano nazionale mi pare anche peggio, come segno di un lento e progressivo sgretolarsi dello Stato di diritto. Consideriamo quanto avviene per ciò che riguarda gli immigrati: ad esempio, su questo confine, i tempi di espulsione degli immigranti sono clamorosamente rapidi. Sono definiti clandestini nel senso che arrivano senza permesso di soggiorno, si può pensare anche che cerchino semplicemente un rifugio. Almeno in apparenza nulla di tutto questo viene preso in considerazione ed essi vengono rispediti a casa spesso senza passare attraverso il previsto canale della magistratura. Sono asprezze che si manifestano a livello locale ma che corrispondono evidentemente a criteri nazionali (tutta una serie di leggi varate dall’attuale maggioranza mettono in discussione o incrinano aspetti elementari di uguaglianza di fronte alla legge, dal falso in bilancio alle rogatorie internazionali passando per la legge Cirami).

D: Una serie di letture della storia che hanno contribuito a demolire l’idea di uno stato di diritto nato dalla Resistenza. E ci si ritrova con esponenti dell’amministrazione cittadina che si rifiutano di rendere omaggio ai fucilati di Basovizza , con Alleanza Nazionale che rivaluta pubblicamente le sentenze del tribunale speciale fascista e paragona i fucilati di allora alle BR.

Miccoli: L’accostamento alle BR non ha fondamento. Si trattava di forme di lotta armata che rispondevano a situazioni di pesante oppressione. L’atto terroristico era una risposta, avveniva in un contesto di pesantissima oppressione politica e nazionale per la popolazione slovena e croata. Il capire non significa giustificare: ogni forma di terrorismo è una forma sbagliata di lotta, da condannare, però ogni atto va inserito nel contesto in cui lo si compie. Se si dimentica ciò che quel contesto rappresentava per la vita di intere popolazioni, allora non si capisce nulla di ciò che è avvenuto. Se si prescinde da tutto questo è chiaro che è sottilmente in opera un tentativo di recupero del regime fascista. I fucilati di Basovizza erano in quel contesto vittime anch’essi dell’oppressione fascista.

Il linea generale si può dire che stiamo assistendo alla riproposizione più o meno consapevole di tensioni e contrasti che si potevano ritenere sostanzialmente superati.

Anche per quel che riguarda la questione dei beni abbandonati dagli italiani dell’Istria: non si riflette affatto che se essa venisse riproposta negli stessi termini sul piano europeo per ciò che riguarda le molte situazioni analoghe costituirebbe un fattore di dirompente destabilizzazione. Si pensi alle relazioni tra Germania e Polonia o tra Polonia e Russia. Qui, con piena inconsapevolezza e incoscienza, si continuano a battere i tamburi su questo concetto. È una forma di ottuso provincialismo o di pesante provocazione su cui sembra che la sinistra non abbia niente da dire.

È evidente che queste forme di arroganza, provocazione, rivalutazione di atteggiamenti del passato e rivendicazione degli atti compiuti dal regime fascista rischiano di avere come contraccolpo un riemergere negli ambienti della minoranza di posizioni antagonistiche. Ogni nazionalismo e ogni sopraffazione portano all’emergere di un altro nazionalismo. Si rischia di formare una catena.

Tra storia e memoria:

l’esperienza sudafricana della commissione

per la verità e la riconciliazione

di Cristiana Fiamingo1

Nel marzo 2002, la Commissione sudafricana per la Verità e la Riconciliazione - Truth and reconciliation commission (TRC) - ha chiuso i battenti, con ritardo rispetto all’urgenza con la quale il Governo di Unità Nazionale (GNU, in carica fino alle elezioni del ‘99) aveva valutata l’opportunità di un breve e incisivo procedimento risolutivo delle gravi ipoteche sull’identità nazionale. Attraverso un laboratorio pubblico di memoria collettiva, si è tentato di realizzare un processo culturale per la rinascita morale del Sudafrica in una cultura etica pubblica, volta al totale smantellamento d'una vita sociale dominata dall'apartheid, incardinata sul pregiudizio e su quelle formule di propaganda che ne hanno a lungo nascosto le vere cause ed i devastanti effetti, superando ogni distinzione nel nome del processo di risanamento nazionale.

Già il 29 ottobre 1998, l’Arcivescovo Desmond Tutu, Presidente della TRC, consegnava nelle mani dell'allora Presidente sudafricano Nelson Mandela i cinque volumi del rapporto finale, quale strumento utile a riconciliare e costruire la nazione. Sin dalla Costituzione del 1993, si mirava ad uno strumento che facesse da "ponte" in una società profondamente divisa, in un costante stato di conflittualità, di sofferenze inespresse con un futuro all'insegna del riconoscimento di diritti umani e democrazia, nello sviluppo di pari opportunità per tutti i sudafricani, senza riguardo a colore, razza, classe, credo o sesso, in un clima di coesistenza pacifica, di comprensione e non di vendetta, all'insegna di riparazione e non di rappresaglia, di ubuntu, ma non di vittimizzazione. Ubuntu si spiega generalmente in termini di "armonia": una categoria sociale cui si è attinto nel parlare delle udienze della TRC, che implica il concetto di perdono, perché rabbia e risentimento minano l’armonia, garanzia di durata di una comunità.

Per fronteggiare un passato di sistematica violazione di diritti umani s'è deciso di valutare precedenti esperienze maturate tra Europa, Africa e America Latina, in tribunali contro i crimini di guerra, piuttosto che in commissioni d’inchiesta per l’accertamento della verità, indette alla caduta di regimi repressivi o a conclusione di intensi conflitti interni, vagliandone moventi politici, incidenza sociale ed effetti psico-sociali di medio-lungo periodo. Il principale modello ispiratore della TRC é stato quello della Commissione nazionale cilena per la verità e la riconciliazione, istituita nel 1990: nonostante indiscutibili peculiarità, il contesto socio-politico sudafricano condivideva con quello cileno: (a) il passaggio da un regime totalitario ad una forma democratica di governo; (b) un accordo negoziato, anziché un processo rivoluzionario; (c) un passato di oppressione e di serie violazioni dei diritti umani; (d) una democrazia fragile ed un’unità precaria; (e) l'esigenza di realizzare una cultura dei diritti umani ed infine (f) l'esigenza di impedire il ritorno del passato.

Ristabilire un rapporto col passato: era questo l'ambizioso progetto sudafricano, realizzato nella coscienza dell'impossibilità di saldare definitivamente i vecchi conti, informato piuttosto dell'intento di non delegittimare quel passato nella prospettiva d'un radicale cambiamento, ma di promuovere una dimensione partecipativa in un contesto storicamente estraneo alla democrazia. Questa coscienza in sinergia con le esperienze precedenti, ha permesso d'individuare tre fattori indispensabili all'efficacia del progetto: l'indipendenza della Commissione, rispetto al GNU, il rispetto delle norme di trasparenza e la necessità di rendere pubbliche le udienze e di pubblicare e diffondere il rapporto finale. Molte delle sessioni della TRC si sono svolte tra chiese, scuole e tendoni e sono state paragonate a riti religiosi, a confessionali, a sedute collettive di psicanalisi, per sanare una società divisa, attraverso la catarsi delle sue stesse sofferenze, seguendo una logica operativa apparentemente semplice, a fronte della molteplicità dei casi trattati.

La TRC, composta da 11 commissari, si è avvalsa di tre sotto-commissioni: la Commissione per la violazione dei diritti umani, quella per l’amnistia e quella per le riparazioni e la riabilitazione. Venivano prese in considerazione denunce e richieste di amnistia in cui si evidenziasse l’associazione dell’atto, dell’omissione o dell’offesa denunciata ad un obiettivo politico; l’effettività del suo compimento tra marzo 1960 e marzo 1995; nonché la pienezza della confessione del richiedente. I nomi degli amnistiati sono stati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale, accanto a motivazione ed identificazione dell’atto specifico in base al quale l’amnistia é stata garantita. L’opportunità di addivenire ad un processo che contemplasse l’impunità dei rei confessi, mettendo di fronte ai "perpetratori" il riconoscimento delle vittime, garante l’amnistia, pur tra mille polemiche nazionali e internazionali, è stata apparentemente accettata come una necessità politica che ha rotto, però, la connessione fra violazione e punizione. Interpellata, la Corte Costituzionale, nel 1996, ha stabilito l’ammissibilità dell’amnistia, definendola integrale al processo di pacificazione nazionale e, addirittura, presupposto alla Costituzione stessa. Nel timore di una riconciliazione a buon mercato, si è dubitato dell’efficacia del progetto della TRC, con riserve tanto da un punto di vista legale che simbolico; ma dibattiti pubblici e privati, nonché l'evidente volontà governativa di affrontare un passo così delicato e rischioso, anche sottoponendo a giudizio il passato del proprio stesso nucleo di maggioranza, l'African National Congress, hanno prodotto una connessione tra società e potere senza precedenti.

La possibilità di raccontare finalmente la propria esperienza individuale, in un contesto ufficiale e pubblico, s'è fatto straordinario esercizio di memoria collettiva, che "doveva" coinvolgere tutto il paese, e le cui molteplici aspettative trascendono il rapporto finale della TRC. Non si tratta soltanto di una sistematica produzione di "storia dal basso", anche se ne é certo un’espressione e, non si tratta di mera espressione della tradizione africana legata all’oralità, pur essendo un processo di riappropriazione identitaria che le è funzionale. Per coglierne appieno tutte le sfaccettature, occorre concentrarsi sulla più vasta accezione di memoria condivisa e, quindi, sul processo di responsabilizzazione storica nell’intento di "guarire" la società sudafricana, non limitandosi all'individuazione di "perpetratori" e vittime, ma anche della maggioranza dei beneficiari del sistema, verso un fine ultimo di natura eminentemente politica: la creazione della "Repubblica della coscienza"2. Tuttavia, nell’alchimia tra il rituale e l’emozione del viaggio nella memoria, si sono presto notati effetti indesiderati nella produzione delle ‘verità storiche’, che non hanno mancato di interessare il Rapporto finale, evidenziando una confusione di piani fra verità concorrenti: collettiva, individuale, fattuale e morale. Ciò avviene anche per la ridondanza di mitizzazioni storiche espresse nel corso di quei rituali.

Non tutti hanno raggiunto il banco dei testimoni, ma alla sbarra è giunta tutta una gamma dei delitti dell’apartheid e le sue conseguenze. L'apertura a pubblico e media delle sedi in cui le udienze si tenevano ha dato vasta eco all'esperienza, e centri di ricerca, associazioni, conferenze, dibattiti pubblici e servizi radio-televisivi, sul fronte interno, e sempre più frequenti interrelazioni fra istituti di ricerca sui processi conflittuali, di pacificazione e riconciliazione, a livello internazionale, si sono prodotti sulla scorta della TRC sudafricana, la cui eco durerà per generazioni ancora. I dolorosi nodi della vendetta, del perdono, della giustizia e dell’amnistia, nonché della decriminalizzazione della resistenza contro il regime d'apartheid, nel nome della guerra giusta, sono solo alcune delle questioni portate a galla.

Recenti dibattiti sulla revisione dei manuali scolastici di storia, alla luce dell'opera della TRC, hanno portato a chiedersi se sia stato effettivamente superato il limite demagogico della "cancellazione del passato" in Sudafrica, ma resta valido l'ambizioso fine di un passo deciso nel processo storico inclusivo, nell’opera di riprogettazione identitaria nazionale, intesa a ristabilire la relazione fra persona e storia della propria terra, in un rapporto dialettico paritario fondato sull’adesione e sul consenso.

NOTE

1 Cristiana Fiamingo è Ricercatrice di Storia e Istituzioni dell'Africa all'Università Statale di Milano e redattrice della rivista "afriche e orienti".

2 Per una interessante raccolta di testimonianze, cfr. D. Franchi e L. Miani, La verità non ha colore. Aguzzini e vittime dell'apartheid testimoniano alla Commissione per la verità e la riconciliazione sudafricana, Milano: Comedit 2000, 2002, pp. 270.

Breve rassegna bibliografica di testi recenti in italiano riconducibili all'argomento

Bundy C. (1999), "La bestia del passato, storia e Truth and Reconciliation Commission", afriche e orienti, 4.

Fiamingo C. (2001), Ubuntu: al di là del New South African vernacular, in "Westfalia si complica. Organizzazioni mondiali e individuo come produttori di globalizzazione e riconciliazione", a cura di C. Fiamingo e A. Pocecco, Futuribili [numero monografico], Isig/F. Angeli, Milano.

Flores M. (1999) (cur.), Verità senza vendetta. L’esperienza della commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione, Manifestolibri, Roma.

Franchi D. e Miani L. (2002), "La verità non ha colore. Aguzzini e vittime dell'apartheid testimoniano alla Commissione per la verità e la riconciliazione sudafricana", Comedit 2000, Milano.

Gentili A.M. e A. Lollini (2000), L’esperienza delle commissioni per la verità e la riconciliazione: il caso sudafricano in una prospettiva giuridico politica, in G. Illuminati, L. Stortoni e M. Virgilio (cur.) Crimini internazionali tra diritto e giustizia. Dai Tribunali Internazionali alle Commissioni Verità e Riconciliazione, Giappichelli, Torino, pp. 161-215.

Santarelli M.P. e M. Zamponi (1997), "Verità: la via verso la riconciliazione", Africa e Mediterraneo, 3/4, pp.29-32.

Tutu D.M. (2001), Non c’è futuro senza perdono, Feltrinelli, Milano.

Wilson R. (1999), "Diritti dell’uomo, globalizzazione e cultura, L’esperienza della Truth and Reconciliation Commission in Sudafrica", afriche e orienti, 1.

Siti ufficiali e documenti

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http://www.ccrweb.ccr.uct.ac.za/two

http://www.doj.gov.za/trc/ (che ha assorbito http://www.truth.org.za)

http://www.wits.ac.za/csvr/

Republic of South Africa (1993), Constitution of the Republic of South Africa, National Unity and Reconciliation.

Republic of South Africa (1995), Promotion of National Unity and Reconciliation Act, Government Gazette.

Tutu D.M. (1995), Discorso alla prima sessione della Trc, pp. 12-16 in http://www.doj.gov.za/trc

Memorie smarrite

Lumumba, chi era costui?

di Mario Zamponi

A 42 anni dalla sua morte forse non molti si ricordano di Patrice Lumumba, il leader nazionalista del Congo, assassinato il 17 gennaio 1961, pochi mesi dopo l’indipendenza del suo paese avvenuta il 30 giugno 1960.

Perché ricordarsi di Lumumba nel giorno della memoria? Perché la memoria dei tragici avvenimenti che sconvolsero il Congo in quegli anni non è soltanto ripensare alle vicende di un paese che, ancora oggi, ci appare lontano e ignoto, ma significa ripercorrere una pagina buia della storia internazionale, una pagina difficile di quella decolonizzazione che aveva acceso tante speranze di riscatto per i popoli colonizzati e aveva fatto pensare alla costruzione di una fase nuova della storia dell’umanità. Al tempo stesso il martirio di Lumumba è anche l’emblema di come tante aspettative siano andate ben presto fallite, della grande disillusione che il post colonialismo ha portato in Africa.

Ripensare a questa vicenda, ripercorrendo le orme dell’artista zairese (congolese) Tshibumba che con i suoi quadri racconta la storia vissuta del suo paese, ci consentirebbe di ridiscutere del nostro ruolo di colonizzatori, di ripensare al colonialismo, in particolare a quello italiano mandato frettolosamente in soffitta. Un colonialismo che per gli africani rappresentò la perdita della libertà e del sapere. Una perdita che porterà a considerare i popoli colonizzati come popoli senza storia.

La storia coloniale e i processi di decolonizzazione ci parlano anche della speranza di emancipazione e di riscatto rappresentata dall’ideale dell’unità nazionale, che avrebbe finalmente trasformato i sudditi in cittadini, incarnata in leader come Lumumba ma che sarà annientata dal tradimento. Così come per Banza Congo (il re del Kongo) tradito dai bianchi che egli aveva accolto nel suo regno, così fu per Lumumba, tradito e assassinato perché sgradito ai poteri forti del momento, ma anche per lo svedese Dag Hammarskjöld, allora segretario delle Nazioni Unite morto il 18 settembre 1961 in un incidente aereo le cui dinamiche non sono mai state chiarite (un altro nome importante per la storia di tutti noi, ma di cui pochi ne hanno memoria).

Il Congo ci racconta un’esperienza traumatica della decolonizzazione: quella di un paese ricco di risorse naturali - un vero e proprio "scandalo geologico" secondo alcuni - su cui si scatenarono tutte le tensioni internazionali e della guerra fredda. Lumumba, definito dallo studioso belga Willame "profeta disarmato", aveva dalla sua parte soltanto il suo carisma e la volontà di riscattare il suo popolo dalla sottomissione coloniale, aveva contro però una vasta coalizione di interessi capeggiati dal capitale internazionale. Il discorso che egli pronunciò il giorno dell’indipendenza segnò la rottura con tutti i potenti. Alla presenza del re Baldovino del Belgio (l’ex potenza coloniale) egli iniziò il suo discorso indirizzandosi non al re e alle altre personalità ma direttamente "ai congolesi e alle congolesi, ai combattenti per l’indipendenza". E proseguì dicendo: "abbiamo conosciuto gli insulti, i colpi che abbiamo dovuto subire mattino, mezzogiorno e sera perché eravamo dei negri" e continuò ricordando lo sfruttamento coloniale del suo paese, per concludere affermando che "tutto ciò era finito" e che stava per iniziare "una nuova lotta, una lotta sublime che porterà al nostro paese la pace, la prosperità, la grandezza" e che avrebbe messo fine a "qualunque tipo di discriminazione".

Ma la storia è andata in modo diverso. Lumumba affermava che "l’Africa un giorno riscriverà la propria storia". È passato giusto un secolo da quando nel 1899 Joseph Conrad scriveva Cuore di tenebra. Eravamo allora agli inizi dell’occupazione coloniale dell’Africa: la Société Anonyme Belge del re Leopoldo II si stava avventurando alla scoperta di quella che diverrà poi la colonia del Congo belga. Le parole di Conrad non fermarono il colonialismo e lo sfruttamento del continente africano. Oggi, dunque ricordare la storia del Congo e di Lumumba è un modo per partecipare anche noi, con la nostra memoria, a questa riscrittura.

Gli autori

Daniela Antoni (insegna Lingua e letteratura tedesca al liceo classico Dante Alighieri di Trieste)

Alberto Burgio (insegna Storia della filosofia all’Università di Bologna)

Cristiana Fiamingo (ricercatrice in Storia e Istituzioni dell‘Africa all'Università Statale di Milano , redattrice di "Afriche e Orienti")

Gianluca Gabrielli (insegna nella scuola elementare Fortuzzi di Bologna)

Adel Jabbar (insegna Sociologia dell’immigrazione e relazioni interculturali all’Università Ca' Foscari di Venezia)

Mario Marcuz (avvocato; associazione Antigone, Bologna)

Giovanni Miccoli (già direttore del Dipartimento di Storia e Storia dell'Arte della Facoltà di Lettere dell'Università di Trieste)

Rossella Ropa (insegna Storia contemporanea all‘Università di Bologna)

Mario Zamponi (ricercatore in Storia e Istituzioni dell‘Africa all’Università di Bologna, redattore di "Afriche e Orienti")