Alcuni giorni fa Riccardo Bonavita ci ha lasciato. Riccardo, intellettuale e militante, ha sempre agito con grande generosità, convinto che il discorso sulla letteratura e quello sulla società fossero inscindibili. Per lui la riflessione interdisciplinare e l'impegno sociale e politico erano le uniche chiavi utili a comprendere l'ordine delle cose senza cercare risposte di comodo. Ha collaborato con il Cesp in diverse occasioni, intervenendo sugli argomenti che costituivano i suoi filoni privilegiati di ricerca e riflessione: la storia dell'immaginario razzista, la letteratura moderna e contemporanea, la figura di Franco Fortini. Vogliamo qui ricordarlo mettendo a disposizione un suo intervento sul Musée cannibale di Neuchâtel, una recensione alla ristampa de I cani del Sinai di Franco Fortini, e l'intervento dell'amico e collaboratore Massimo Raffaeli pubblicato sul manifesto all'indomani della sua scomparsa.

 
 

 

Riccardo Bonavita, la qualità umana dello scambio
di Massimo Raffaeli (da "il Manifesto", 22 settembre 2005)

È sempre difficile dire in che cosa davvero consista la vitalità, la più profonda vitalità che non ha mai bisogno di esibirsi, nel momento in cui senti che è semplice amore della vita (e delle idee che vanno libere dentro la vita, dal passato al presente, a un possibile futuro); proprio quella sapeva esprimere naturalmente, pulitamente, Riccardo Bonavita, che ieri a Bologna, ha scelto di terminare la propria esistenza. Quanti hanno avuto la fortuna di conoscerlo non possono dimenticare che persona fosse, il rigore della sua formazione di letterato, la qualità della sua cultura (che non ostentava affatto, semmai la dissimulava in lampi di ironia, in intermittenze troppo improvvise per non svelare spesso, e di colpo, il loro fondo di devastante tenerezza), la civiltà della sua conversazione e del suo medesimo scrivere. Scherzava volentieri sul proprio fisico, poco appariscente, minuto, ma forse era un modo per farsi perdonare la sicurezza di una preparazione che stupiva in un uomo così giovane, a tutti gli effetti un ragazzo, uno che arrivava puntuale agli incontri accademici (col quaderno degli appunti, il libro appena letto, la matita smangiata) e sedeva quasi sempre in fondo alla sala, tra gli studenti, così da sembrare uno di loro, all'apparenza solo un poco più timido. Di lì fiondava i suoi interventi, o meglio le sue domande, precise, informate, strizzando gli occhi vivacissimi: era questa la sua maniera, composta e dolcemente impertinente, di tradire una radicata convinzione per cui il discorso sulla letteratura, e più in generale sulla cultura, non può né deve essere mai un monologo, bensì una vicissitudine dialogica, uno scambio e/o una cooperazione. Infatti il dibattito e il libero flusso delle idee lo attraevano molto più delle certezze e delle dissertazioni dell'accademia, che pure era in grado di scrivere dissimulandovi (si trattava quasi di un gesto d'intesa per chi sapeva che uomo fosse) tutta l'ironia e l'autoironia di cui era capace: uno dei paradossi che amava ripetere era quello di avere sbagliato data di nascita, visto che gli era toccato di crescere nel glamour degli anni `80 e non nel decennio precedente, quello dell'antagonismo e del diretto impegno politico.

Che Riccardo fosse un compagno, nel senso più elementare dell'espressione, lo sentivi subito: non perché amasse le posizioni dottrinarie, tutt'altro, ma perché gli era naturale leggere le opere della letteratura, anche i testi più cifrati della poesia, iscrivendoli d'acchito, e senza forzature, nell'alveo della società, nel divenire della storia e dei conflitti sociali. Era uno dei rarissimi critici in Italia per cui non suonasse falsa la parola «militante» e impropria o equivoca la definizione di «marxista»: del resto era convinto che per esercitare bene il proprio mestiere non bastasse citare alla lettera le pagine di un libro ma che fosse necessario conoscere il contenuto dei giornali del mattino, saper nominare con precisione fatti e nomi di chi decide o subisce le sorti del nostro vivere, o del nostro provare a farlo. Non è un caso che il suo primo intervento su Alias, anni fa, concernesse alcuni inediti di Lukacs, e che il suo ultimo articolo per il manifesto, appena il mese scorso, invocasse la ristampa dell'Imperio di Federico De Roberto, un romanzo politico nella piena accezione, laddove ogni male dell'Italia moderna è fatto risalire ai vizi secolari dell'opportunismo ideologico e del trasformismo sociale-istituzionale. L'800 e il `900 restano d'altronde i secoli della letteratura su cui Riccardo ha più a lungo lavorato, suggellando la fatica con un volume che purtroppo uscirà postumo per il Mulino.

Nell'università di Bologna, dove lavorava, si era formato con un grande studioso che lo aveva scoperto e prediletto nonostante la sua proverbiale distrazione, vale a dire Guido Guglielmi, collaborando poi, dentro e fuori dall'università, con una cerchia di maestri e più giovani colleghi che pure gli corrispondevano nella impostazione metodica, da Fausto Curi a Ezio Raimondi, da Niva Lorenzini a Giuliana Benvenuti, da Sandro Mezzadra a Roberto Galaverni e Marco Antonio Bazzocchi, col quale ha firmato nel 2003 una esemplare edizione dei Paralipomeni della batracomiomachia di Leopardi; principalmente su riviste sono usciti nell'ultimo decennio suoi saggi dedicati ancora a Leopardi (memorabile un contributo sugli abusi della critica leopardiana al tempo delle leggi razziali) e soprattutto a Fortini, della cui poesia conosceva ogni sottigliezza e ogni più spinoso stimolo.

In una celebre pagina del filosofo che più amava, Lukacs, è detto: «Quale che possa essere il punto di partenza diretto, il tema concreto, lo scopo immediato di una creazione letteraria, la sua essenza più profonda si esprime nella domanda: cos'è l'uomo? (...) La qualità puramente umana, profondamente individuale e tipica, l'evidenza artistica, è inseparabilmente connessa al concreto radicamento nei rapporti concretamente storici, sociali, umani della loro esistenza». Sono le parole di un umanista, quasi la dichiarazione di fede di un umanista. È lì a sottoscriverla la testimonianza esistenziale di Riccardo, insieme con le pagine che ci ha lasciato, come sanno i suoi amici e i compagni del manifesto che oggi lo ricordano commossi. Dolce e ironico com'era, lo sentono vivo in se stessi, anche se è al di là della linea d'ombra.


Ahi, pungono ancora quei Cani!
[Riccardo Bonavita, “Alias”, 2 novembre 2002]

Il 5 giugno 1967 aerei israeliani attaccano e distruggono l’aviazione egiziana prima che si possa levare in volo. Inizia la “guerra dei sei giorni”, che si chiuderà con grandi conquiste territoriali per Israele (tra cui gli attuali territori occupati di Cisgiordania e Gaza) e un ingente numero di profughi arabi e palestinesi. Ancora oggi gli storici discutono se si sia trattato di un attacco preventivo, della risposta a una minaccia concreta (l’esercito egiziano era da tempo dispiegato ai confini) o di una aggressione premeditata. I media italiani dell’epoca non hanno dubbi: ad attaccare è stato l’Egitto, come affermava la versione ufficiale israeliana. La logica perversa dell’imperialismo e della guerra fredda impone menzogne e semplificazioni sulla pelle dei popoli, trascurando il loro bagaglio di aspirazioni e sofferenze. Da una parte, con Israele, l’Occidente liberale (e neocolonialista), dall’altra, con il nazionalismo arabo e socialisteggiante di Nasser, l’Unione Sovietica e l’opinione pubblica comunista. Chiamato a pronunciarsi ora dai sotterfugi della propaganda anticomunista, ora da amici e parenti ebrei turbati dal suo silenzio, Franco Fortini scrive in quei mesi il breve libro, duro e affilato, ora riproposto da Quodlibet: I cani del Sinai (Con una Nota 1978 per Jean-Marie Straub e, in appendice, una Lettera agli ebrei italiani del 1989; a cura del Centro studi Franco Fortini, 95 p., € 8,50).
I «cani del Sinai» non stanno là dove il titolo potrebbe far credere. Protagonisti di una locuzione araba inventata ad hoc, sono il simbolo sarcastico di chi è solito «correre in aiuto del vincitore, stare dalla parte dei padroni, esibire nobili sentimenti». Erano quindi – e sono - piuttosto numerosi in Italia, disposti al trasformismo e all’oblio. Ai tempi del fascismo, pronti ad entusiasmarsi per le guerre coloniali o la propaganda antisemita. Nel ’67, sostenitori accesi e unilaterali d’Israele, divenuto un simbolo del “progresso” occidentale, e dediti a rivolgere il loro vecchio razzismo contro un altro “diverso”: l’Arabo. Contro di loro Fortini (alias Franco Lattes: figlio di un ebreo, prese il cognome della madre cattolica nel ’38, per sottrarsi alle leggi razziste, dopo essersi convertito al cristianesimo valdese) impugna il bisturi della sua prosa per sezionare la falsa coscienza, il senso comune, la rimozione dei nodi storici e sociali più scottanti. Si schiera, ma facendo saltare lo schema binario tipico della guerra fredda. Con la nascente Nuova Sinistra (i suoi compagni dei Quaderni rossi e dei Quaderni piacentini), legge le contraddizioni del presente dal punto di vista delle rivoluzioni anticoloniali: dopo la Cina, l’Algeria e Cuba, il Vietnam. E fa sua la prospettiva d’un grande marxista eretico ebreo: Isaac Deutscher (chi ci ristampa il suo L’ebreo non ebreo?). Ciò che importa non è schierarsi per un nazionalismo contro un altro, per l’una o l’altra grande potenza, ma «coordinare internazionalmente coloro che sono uniti dall’antagonismo sociale al generale meccanismo di sfruttamento». L’anno dopo questa speranza rivoluzionaria sarà gridata dai movimenti. E, nel tempo, proprio le contraddizioni aperte dalla guerra del ’67 desteranno l’Intifada. Luca Lenzini ha spiegato che i saggi di Fortini, «frammenti di tempo congelato», conservano le tensioni e le scelte di un’epoca: leggere oggi queste pagine significa in effetti riscoprire un bivio dimenticato, un altro mondo che è stato possibile.
Ma la lama dell’analisi incide anche chi la impugna: seziona presente e passato, il versante pubblico dei rapporti sociali e i tessuti intimi della storia famigliare, fino alle zone più buie dell’inconscio. Perché Fortini è in primo luogo un poeta, che scrive versi tramati di pensiero filosofico, di storia e di politica, da leggersi anche come dei saggi. E così i suoi saggi vogliono essere letti anche come delle poesie: stesi in una lingua incisiva e durevole come quella dei classici, e intrisi di non conciliate esperienze interiori, di bruciante moralità utopica. Quindi questo suo intervento politico è, anzitutto, letteratura. Ma una letteratura che si assume una funzione essenzialmente etica, perché vuole essere una provocatoria ricerca-proposta di verità. Indagata ed esposta nelle sue contraddizioni, anzi in forma di contraddizione -e di conflitto, all’incrocio tra storia e biografia, politica e morale. Ben sapendo che è parziale, situata, in continua trasformazione -ma necessaria- Fortini ci dà così la sua lancinante e lacerata verità. Scandita in ventisette paragrafi o lasse, la materia complessa e dolorosa della questione ebraica, del fascismo, delle lotte anticoloniali, delle diverse forme di razzismo, delle strategie televisive di persuasione occulta, del qualunquismo conformista e il nodo incandescente della Shoah, si incastra con flashes memoriali sul rapporto contrastato e difficile di Fortini con le sue origini ebraiche, suo padre, le pulsioni conflittuali che strutturano il suo io profondo. Il montaggio istituisce cortocircuiti improvvisi, spiazza: il racconto più intimo viene a stridere con la riflessione filosofica, la vergogna e il lamento prodotti dalla persecuzione con la disciplina formale, il distacco della scrittura. La freccia del tempo, passata a contropelo dal giudizio etico-politico, si scheggia in frantumi. Che riaccendono, negli orrori del presente, il dolore e lo sdegno per cicatrici e violenze remote. Il lettore comprende come la pressione della storia, le contraddizioni di classe possano agire fino negli psichismi più riposti, disegnare anche il profilo segreto dell’io. Questo libro è anche il «grido di ferito» di un’identità ebraica, una “diversità” subìta-scoperta a causa del razzismo fascista, quindi abbandonata, ma che brucia ancora nel profondo. E cerca di ridefinirsi: sarà figura-sintesi estrema del Perseguitato, dell’Oppresso. Esige che si ricavi dalla tragedia della Shoah «una lezione di lotta contro le condizioni estreme a noi note che rendono possibile la distruzione dell’uomo». Pretende che lo Stato d’Israele si sottragga all’abbraccio dell’imperialismo americano e giochi la «funzione di una mediazione rivoluzionaria fra il cosiddetto Occidente di eredità cristiano-liberale e socialista e il Terzo Mondo». Un altro bivio dimenticato.
La costrizione “metrica” e la scrittura ellittica, il narrare per scorci concentrano in poche pagine una gamma impressionante di snodi storici, morali, teorici, che irradiano significati in ogni direzione. Idee complesse, che non celano le contraddizioni, e impongono ai lettori pazienza e attenzione. Come il film che ne hanno tratto nel 1978 Jean Marie Straub e Danièle Huillet. Nell’89 la speranza di rivoluzione si fa esigenza di pace: Fortini pubblica sul Manifesto una lettera (è in appendice) per invitare gli ebrei italiani a pronunciarsi contro la feroce repressione dell’Intifada. E difendere così l’immenso patrimonio culturale e morale dell’ebraismo, mantenendolo distinto dalle vicende dello stato d’Israele. Ma tra le righe affiorano antiche cicatrici: metafore che purtroppo evocano certa teologia cristiana sugli ebrei.
Libro scomodo, insomma, ferisce e svela ferite in ogni dove. È la sua vitalità: scardina schemi, pregiudizi, ipocrisie, rimozioni. Provoca, discute e richiede di essere discusso. Ma anche tradotto in pratica, come nel progetto avviato a suo nome da sua moglie Ruth Leiser e dalla CGIL: raccogliere fondi «per realizzare un luogo d’incontro tra la popolazione palestinese e i pacifisti israeliani e per la formazione alla comunicazione per i giovani palestinesi» (Progetto Franco Fortini - Pace e sviluppo in Palestina cc n. 695, ABI 1025, CAB 1029).


Le cannibale, c'est nous
di Riccardo Bonavita, ( http://www.unibg.it/cav/elephantandcastle , 28/07/2004)

Exposer
Exposer, c'est troubler l'harmonie.
Exposer, c'est déranger le visiteur dans son confort intellectuel.
Exposer, c'est susciter des émotions, des colères, des envies d'en savoir plus. Exposer, c'est construire un discours spécifique au musée, fait d'objets, de textes et d'iconographie.
Exposer, c'est mettre les objets au service d'un propos théorique, d'un discours ou d'une histoire et non l'inverse.
Exposer, c'est suggérer l'essentiel à travers la distance critique, marquée d'humour, d'ironie et de dérision.
Exposer, c'est lutter contre les idées reçues, les stéréotypes et la bêtise.
Exposer, c'est vivre intensément une expérience collective.

Non è una poesia né una dichiarazione di poetica, almeno non nel senso che tradizionalmente attribuiamo a questi termini. È il cartello che accoglie i visitatori del Musée d'Etnographie de Neuchâtel (MEN) e delle sue esposizioni temporanee. Spiazza, incuriosisce, invita ad aprirsi allo stupore. Come i muri dell'ala moderna del museo dove, proprio di fianco al compassato edificio originario, una villa dell'ottocento, spiccano a caratteri cubitali le parole chiave del pensiero francese anni '60-'70: désir , différence, déplacement ...

Per introdurre il senso di questo spazio singolare e stimolante la cosa migliore è rivolgersi a Jacques Hainard, antropologo, museologo e direttore del MEN. Anche se parole come “direttore”, “museo”, “antropologia” non sono forse le più adatte per rendere l'idea del personaggio e del tipo di lavoro che sta cercando di svolgere.

Nell'atrio del MEN, ma anche nel vostro sito internet ( http://www.men.ch/ ) presentate ai visitatori una sorta di “manifesto” in cui dichiarate quella che per voi dovrebbe essere la strategia espositiva di musei e mostre, a prescindere dal loro specifico spazio d'intervento. La prima battuta suona così: «esporre, è turbare l'armonia». Che genere d'armonia cercate di turbare?

«Turbare l'armonia significa che si vuole sconvolgere la tranquillità e soprattutto la credenza che abbiamo di possedere sempre la verità. Si vuole in fondo far dubitare il pubblico, insinuare il dubbio nei visitatori. Bisogna che, visitando le nostre mostre, le persone escano da noi ponendosi delle domande del tipo: «Perché penso nel modo in cui penso? Perché dico quello che dico?». Noi facciamo, qui a Neuchâtel, più delle mostre che sollevano dei problemi piuttosto che delle mostre esplicative. Vogliamo che la gente esca di qui sentendosi un po' turbata, magari qualche volta anche arrabbiata, e che però si rimetta davvero in questione».

In effetti, nelle esposizioni che realizzate, il museo si mette in questione, si decostruisce, diventa un luogo paradossale, il luogo del paradosso: pensa che il ruolo del museo, e del museo etnografico in particolare, debba essere quello di negarsi, di mettere radicalmente in questione il proprio stesso ruolo, la propria ragion d'essere?

«Il museo ha il dovere di produrre un discorso teorico, ma che verte sull'attualità: questa è la cosa che mi preme di più. Certo, credo che il museo si debba decostruire, ma che per poterlo fare debba conoscere bene la propria storia, esplicitarla e farla capire, spiegandoci, in questo modo, come funziona la società in cui è inserito. Perché il museo alla fin fine non è che una cartina al tornasole della società, un luogo di contrattazioni che ci permette di capire ciò che la società tollera che si conservi e che si mostri in un momento dato. Credo che fare questa decostruzione ridiscendendo nella storia sia molto illuminante, perché quando gli etnografi andavano sul campo era assolutamente normale che riportassero degli oggetti, li si è presi in delle condizioni che sono spesso discutibili: si è saccheggiato, si è rubato, talvolta si è negoziato in una maniera vergognosa per ottenere dei reperti. Io penso che siano delle cose che bisogna dire oggi, che bisogna far capire: bisogna ridiscutere quale fosse l'ideologia, la concezione dell'epoca, perché si è anche arrivati fino al punto di impagliare gli altri per riportarli nei nostri musei. All'ingresso dell'esposizione Il museo cannibale abbiamo messo una pagina di un numero di «Le Monde» uscito all'inizio dell'anno scorso in cui il governo sudafricano richiedeva i celebri resti della “Venere ottentotta” che si chiamava Saartje Baartman, e la Francia ha dovuto pronunciarsi per sapere se dei resti umani facevano parte del patrimonio nazionale francese. È fantastico svelare delle cose del genere, per vedere come noi guardiamo gli altri e per vedere come ci situiamo».

Le musée cannibale è la mostra bizzarra ed inquietante che Hainard, insieme a Marc-Olivier Gonseth ed a Nicolas Yazgi, ha dedicato nel 2003 «al desiderio di nutrirsi degli altri che ha presieduto alla creazione e allo sviluppo dei musei d'etnografia». La sua ottica, provocatoria e paradossale, parte dall'esempio del museo etnografico per rimettere radicalmente in questione le varie modalità con cui la cultura occidentale contemporanea si sta rapportando a ciò che percepisce come “altro”. Provocazione non da poco, visti i tempi, in cui proliferano costruzioni propagandistiche della superiorità del cosiddetto Occidente e teorie dello “scontro di civiltà”. Anche per questo un laboratorio dell'innovazione teorica e dell'antietnocentrismo come “Critique”, la rivista fondata da Georges Bataille, ha poi deciso di dedicarle le prime pagine del numero dedicato ai nuovi itinerari dell'antropologia contemporanea (è il n. 680-81, gennaio-febbraio 2004).

Perché avete scelto la metafora del cannibalismo? Per produrre il massimo di choc, straniamento e spettacolarizzazione possibili, oppure perché racchiude un nocciolo cognitivo?

«Mi riconosco in tutte e due le opzioni che mi ha proposto. Si vuole certo choccare, perché le persone si interessino a questa problematica del cannibalismo metaforico, cioè alla nostra volontà di nutrirci continuamente dei resti di altre culture. E poi senz'altro c'è una componente cognitiva, perché mangiare l'altro, mangiare gli altri, mangiare la cultura degli altri, secondo una modalità gastronomica, è una tendenza che fa veramente impressione. Si capisce bene come noi, in particolare nella società occidentale, siamo sempre i “cannibali” degli altri, perché vogliamo ricondurre tutto a noi, alla nostra cultura. Infatti non bisogna dimenticare che l'etnografia, per più di duecento anni, ha sistematicamente prelevato altrove dei reperti di culture per portarli nei musei etnografici, credendo che in quel modo avrebbe potuto spiegare il funzionamento delle società umane. E quando mancavano alcuni oggetti per completare una serie, si diventava ancora più golosi, si era ancora più “cannibali” di prima, perché si voleva completare la collezione. Questa specie di delirio di acquisizione ci ha condotto forse oggi a una impasse perché non si sa più bene cosa questa operazione voglia significare. Dunque occorre rimettersi in discussione e ricominciare a riflettere sul ruolo e lo statuto del museo di etnografia».

Non è decisamente un'esposizione convenzionale, ma piuttosto un nuovo medium. Quasi un'opera d'avanguardia, che attraversa e sovverte concetti, percezioni, stereotipi socialmente egemoni, steccati tra i generi comunicativi, ruoli e confini delle pratiche estetiche e di quelle critiche. O meglio, una specie di saggio-installazione, in cui un discorso teorico molto forte, documentato e insieme denso di aporie (come quello di James Clifford, che ne è forse il riferimento principale), viene messo in scena in uno spazio concreto. Creando ambienti che caricano di valori metaforici gli oggetti, esposti a una lettura chiamata ad esplorare diversi livelli di senso, anche in contraddizione tra loro.

A questo punto vale la pena di ripercorrere alcuni frammenti dell'itinerario tra cose e parole offerto ai visitatori per tutto il corso del 2003.

All'inizio, gigante, la prima pagina di «Le Monde» a cui allude Hainard nell'intervista. Cioè quella del 30 gennaio 2002, quando in Francia si discuteva ancora se le spoglie (scheletro e genitali in formalina) di Saartje Baartmann, rivendicate dalla sua gente, appartenessero o meno al patrimonio inalienabile dello Stato francese. Si intuisce che la metafora macabra del cannibalismo non è poi così astratta.

Quindi uno spazio buio, dove una marea di oggetti eterogenei, di ogni provenienza, sembra in procinto di abbattersi sul visitatore. È «l'imbarazzo della scelta» in quel continuum di cose che costituisce «la parte tangibile dell'esperienza del mondo» e forma «una massa critica» da gestire.

Come? Una risposta «specificamente occidentale» sono i musei: dietro delle griglie di metallo, casse da trasporto di legno accolgono insiemi di oggetti estrapolati dalla marea dell'indistinto, seguendo l'attuale «compartimentazione del sapere». Una è piena di manufatti non occidentali, e dietro ha un cartello: «Museo d'etnografia. Terreno di caccia: le diverse culture. Ossessioni principali: accumulare, classificare, rispettare le culture. Tassonomia preferita: cultura a, cultura b, cultura c». E così le altre casse: una sequenza di parodie concrete critica l'arbitrarietà delle convenzioni sociali che guidano la selezione di quanto viene studiato e conservato. Con ingordigia simbolica: «l'appetito viene classificando».

Poi si assaggia «il sapore degli altri». C'è un'altra cassa, piena di «oggetti etnografici». E un tavolo, coperto di manufatti e degli strumenti con cui studiosi e tecnici li analizzano e li schedano: bilancia, calibro, computer con data base catalografico. Su uno schermo, fotografie di antropologi ripresi “sul campo” in epoche diverse, frammenti di vecchi manuali di metodologia etnografica, ancora intrisi d'ideologie coloniali, ed immagini che restituiscono l'evoluzione egualitaria del rapporto con gli «informatori indigeni». Esemplificazioni critiche dei processi storici, «svoltisi per lo più nel periodo coloniale» e spesso segnati dall'oppressione, che sono all'origine dei musei etnografici. Illustrano il nesso dialettico tra scienza, emancipazione e dominio. Ci viene spiegato, infatti, che queste «collezioni tendono a designare una relazione storica di depredazione tra il qui e l'altrove», e «testimoniano del desiderio d'incorporare un'alterità».

Quindi si entra nella «stanza frigorifera»: il magazzino d'un museo, con statue, maschere, tessuti, utensili ben ordinati negli scaffali. Qui la metafora cannibalica si fa più esplicita e perturbante: refrigeratori domestici custodiscono manufatti antropomorfi, avvolti in cellophane e contrassegnati da codici a barre, come gli alimenti dei supermarket. Il fastidio, lo straniamento mettono in questione «la rassicurante presenza materiale» degli «oggetti esotici», le forme con cui sono «ricontestualizzati e reinterpretati» in assenza di coloro che li hanno creati, e lo “strappo” rispetto alla «concezione indigena, che sfugge almeno in parte a coloro che oggi li custodiscono».

Di qui, arriviamo alla «scatola nera»: una cucina ipertecnologica. Sul piano di lavoro, di fianco ai fornelli, una maschera africana sta sul tagliere, con una mannaia conficcata nell'occipite. Le dispense, dietro sportelli in vetro opaco, custodiscono altri «pezzi di cultura materiale». Un lettore di codici a barre ne fa apparire su un video foto e didascalia: filtro, traduzione e barriera attraverso cui noi, il pubblico, possiamo metterli a fuoco, “conoscerli”. E anche, assimilandoli alle nostre categorie percettive e concettuali, ridurre la loro estraneità, “mangiarli”: «per nutrire i visitatori delle loro esposizioni, i museologi estraggono periodicamente dalle loro riserve dei pezzi di cultura materiale che vengono preparati sulla scorta di ricette contrastanti». E si può consultare anche un ricettario, analisi satirico-culinaria delle varie «retoriche» espositive: «giustapposizione», «associazione funzionale», «mimetismo», «sacralizzazione», etc. Eccone una, «l'esthétisation à la Barbier-Mueller» (uno dei più grandi collezionisti europei di “arte primitiva”) che lascio nella sua saporosa lingua originale:

Ingrédient:
Un objet éthnographique rare et ancien réindexable comme oeuvre d'art

Préparation:
1. Ébouillanter l'objet pour en extraire les scories ethnographiques
2. Tapisser le socle avec le tissu satiné
3. Piquer l'objet sur le support
5. Dresser le tout au centre du socle

Service:
Dégager beacoup d'espace pour la consommation contemplative; assombrir et napper l'objet d'un halo de lumière; faire circuler une rumeur concernant la valeur d'assurance de l'objet; sapoudrer eventuellement d'un zeste d'information.

Se marie avec:
le marché de l'art, le champagne millésimé, le beluga d'Iran.

Dopo la cucina, il ristorante («au bon vivant»). La sala è sontuosa. Alle pareti, stampe in cornici dorate ripropongono il mito occidentale del cannibale. Le tavole sono imbandite coi vari «pasti di cerimonia» che sarebbero ammanniti dalla «cucina etnomuseale». Ma i menu evocano poi tutte le principali maniere, da quelle più razziste, paternalistiche o stereotipate fino alle più “politicamente corrette”, o equo-solidali, con cui «consumiamo gli altri» nella nostra quotidianità. Rappresentandoli di volta in volta come «buoni o feroci selvaggi, indigeni folclorici o acculturati, primitivi, artisti sconosciuti o cittadini del mondo». La metafora viene spinta all'estremo delle sue potenzialità di straniamento paradossale, e costringe il visitatore alla riflessione su di sé (o al rifiuto sdegnato).
È una mostra nella mostra. Che continua, poi, esplorando la persistenza del tema cannibalico nelle religioni, nell'immaginario pop , nella ricerca artistica.

Quando, nella scheda di presentazione, scrivete che «il tema del cannibalismo, che sia o meno museale, riconduce ai legami che le rivendicazioni identitarie e le credenze religiose intrattengono con la violenza e il sacro», impiegate una costellazione concettuale che, mi sembra, deve molto alla riflessione di René Girard. Non pensa che questa focalizzazione, sua e vostra, su quello che viene detto il «paradigma sacrificale» possa risultare eccessivamente cristianocentrica?

«Non direi che abbiamo troppo incentrato la mostra sull'antropologia cristiana. Al termine del percorso abbiamo apparecchiato una tavola che evoca quella dell'Ultima Cena perché noi diciamo che dopo esserci messi a tavola per cercare di comprendere come, nel museo, facciamo la “cucina” teorica è necessario rimettersi a tavola oggi per pensare un'antropologia di sé: è questo il messaggio che vogliamo insinuare in profondità. Noi pensiamo che è necessario che ci mettiamo a riflettere ulteriormente su di noi, per capire meglio i nostri stereotipi, capire come fabbrichiamo la nostra ideologia, come vediamo gli altri. È partire da qui che noi abbiamo delle possibilità di capire meglio le altre società o l'alterità. Allora, per far questo, poiché ci troviamo in una società giudeo-cristiana abbiamo voluto mostrare che con questa tavola dell'Ultima Cena non c'è bisogno di fare un lungo discorso per capire ciò che vogliamo dire e per mostrare l'onnipotenza del sacro nelle religioni. Non bisogna dimenticare che siamo stati segnati moltissimo dall'11 settembre: in quell'occasione abbiamo capito molto bene che il prodotto o l'effetto religioso era potentissimo, e più potente che mai, e che fino ad ora non abbiamo capito davvero niente degli altri, quando li guardiamo, perché noi non sappiamo niente di davvero sicuro sull'Islam, noi non conosciamo il Corano e avremmo molto da imparare sull'Induismo e sul Buddhismo. Noi abbiamo messo in scena in questo luogo anche questi resti di religioni per mostrare la potenza e la violenza del religioso e la violenza nel sacro che può essere naturalmente diversa a seconda del credo di provenienza, elementi che sono estremamente importanti oggi. Credo che se non vogliamo cannibalizzare più bisogna che ci si metta a riflettere su noi stessi».

Questa volontà di produrre paradossi, choc, interrogazioni, è molto vicina a quella dell'arte modernista e delle avanguardie. C'è una differenza tra la paradossalità estetica dell'avanguardia artistica e letteraria e la produzione di paradossi che voi mettete in scena nelle vostre esposizioni?

«Ci sono forse differenze fondamentali nel risultato estetico, nella maniera, nei procedimenti che utilizziamo. Ma io credo che in una società che è saturata di informazione bisogna cercare di destabilizzarla, bisogna cercare di scioccarla, ma non in modo gratuito: con un obbiettivo molto preciso, perché reagisca. Io sono il difensore di una nozione che in fondo posso riassumere così: il museo in generale, e più in particolare il museo d'etnografia, dovrebbe essere un luogo di destabilizzazione culturale, è questa la sua missione. Ci sono già abbastanza luoghi dove si impara: malgrado tutto quello che se ne dice, le nostre scuole, le nostre università non sono poi così scadenti. Invece non ci sono abbastanza spazi, mi sembra, per apprendere della cultura critica, per imparare a mettere della distanza nei confronti della produzione del nostro sapere. Credo che il museo, e comunque il museo d'etnografia, sia un luogo privilegiato per cercare di far capire questo in modo semplice, perché la mostra è un medium straordinario, si possono utilizzare tutte le tecniche del teatro, del cinema, si possono utilizzare degli odori, dei suoni, dell'informatica, è un medium totale, direi. Ecco perché è così efficace. Anzi, ritengo che la mostra sia il medium più importante della fine del secolo passato e dell'inizio di questo».

Come viene accolto il vostro lavoro?

«Noi non facciamo inchieste sistematiche sul pubblico, ma abbiamo fatto di tanto in tanto dei sondaggi su ciò che pensavano i nostri visitatori e siamo rimasti molto stupiti di vedere quanto la gente sia capace di capire. Perché non facciamo quelle mostre di una volta che spiegavano dalla A alla Z un problema. Noi proponiamo –amo molto questa immagine che abbiamo lanciato qualche anno fa- delle mostre come i dolci millefoglie, in cui mettiamo degli strati di senso gli uni sugli altri, così il visitatore medio, chiunque sia, quale che sia la sua formazione, può entrare in uno di questi strati per cercare di produrre del senso e cercare di capire delle cose anche rapportandole a sé, alla sua ideologia, al suo sapere. Funziona molto bene, e talvolta siamo molto stupiti, quando facciamo delle inchieste, di vedere che i visitatori si spingono molto più avanti di noi, fanno dei prolungamenti e delle associazioni che noi non avevamo neanche pensato. Sono iniziative che qualche volta sono accusate di risultare un po' élitarie, ma non è vero: queste mostre sono eventi eminentemente democratici, perché si rivolgono a un pubblico largo. Non si ha più bisogno, qui, di specialisti di questo o di quello per capire, voi pubblico potete a un certo momento captare degli assunti che noi avanziamo, e questa “captazione”, per così dire, vi riconduce a un interrogativo».

Chiudo con qualche considerazione da spettatore, che apprezza l'antropologia contemporanea per la sua capacità di interpretare e mettere radicalmente in discussione i nuovi contesti globalizzati, ponendosi ormai tra i maggiori eredi della teoria critica francofortese.

Siamo di fronte, con operazioni come questa, ad un approdo inedito della forma-saggio, che si appropria, per svolgere la sua funzione riflessiva, di procedimenti e strategie finora propri soprattutto delle avanguardie artistiche e letterarie. Spazi allestiti e testi creano per via di dialoghi e contrasti una “narrazione” storicamente e teoricamente motivata, ma del tutto paradossale. Qui il museo etnografico, non diversamente da una anti-opera dada o da un'installazione concettuale, revoca in dubbio il suo stesso statuto, la sua legittimità, mettendo in scena la discussione del proprio senso. E, come nel teatro epico di Brecht, non racconta storie né illustra delle tesi, ma provoca il pubblico con una serie di problemi che restano aperti. È un “testo” che istituisce delle analogie estreme, e senz'altro discutibili, proprio perché pretende di essere discusso. Non è una curiosità estetica o semiologica: ciò che qui si mette in una situazione critica non è l'esplorazione, la conservazione e lo studio razionale delle culture definite come “altre”, ma l' asimmetria di certi processi, la componente di dominio che recano in sé.

Il che fa parte di una tendenza più generale: i musei di antropologia contemporanei stanno infatti ridiscutendo il proprio statuto e le proprie strategie nel confronto o nel dialogo con il punto di vista dei veri proprietari delle loro collezioni, gli “eredi” delle culture messe in mostra. Ne parla James Clifford in un saggio di Strade (Boringhieri, 1999), ed Elise Dubuc, nel catalogo della mostra ( Entre l'art et l'autre, l'émergence du sujet ).

Questi luoghi si configurano allora come dei laboratori di sperimentazione d'una effettiva democrazia interculturale. Proprio per questo, credo che bisognerebbe estendere questi modelli di interazione ad altre pratiche sociali: dalle negoziazioni egualitarie delle modalità espositive a quelle dei diritti civili e politici, per esempio.