Da tempo ormai, in quella roba strana chiamata sinistra, c'è
chi sostiene che non è più il caso di parlare di scuola pubblica,
poiché ormai sarebbe tale anche la scuola (ex) privata in quanto inserita
per legge (dalla famosa sinistra…) nel «sistema nazionale dell’istruzione».
Meglio difendere chiaramente la scuola statale.
Tuttavia sono convinto che è possibile e importante usare il termine
in senso, per così dire, qualitativo e interno: non in riferimento allo
statuto giuridico dell’»ente gestore», quanto riguardo la
forma e le caratteristiche di fondo di quello spazio che chiamiamo scuola.
Uno spazio profondamento politico in quanto costitutivo della polis, in cui
non si scambiano semplicemente prodotti o prestazioni. Non si tratta di un’azienda
di servizi dove una merce, oggi preziosa come la conoscenza, si compra, ordinata
e assemblata secondo le proprie esigenze. Si potrebbe anche dire che in gioco
non è solo il prodotto, cioè quantità e funzionalità
del sapere, bensì la forma stessa del processo di «produzione e
scambio»: la qualità delle conoscenze, la forma della comunicazione,
il carattere evolutivo e insieme istituzionale del processo. La capacità
della scuola di respirare con i suoi abitanti e con il mondo esterno. Insomma
il suo carattere costituzionale e costituente.
Questa nozione di pubblico esclude l’esclusione: non ha cioè nulla
di compatibile con uno spazio riservato, omogeneo, sottratto alla diversità
e alla molteplicità dei punti di vista; una scuola di appartenenza o
di tendenza definisce uno spazio monoculturale: è la scuola di un’idea,
non un’idea di scuola. Può certo essere «aperta a tutti»,
ma a tutti quelli che sono disposti a seguire quel percorso, connotato da un
finalismo forte e dall’assenza di confronti veri, non unilaterali. Sono
aperte al pubblico, non pubbliche quelle scuole.
Peraltro neanche una scuola dello stato di per sé garantisce quella qualità
di cui qui si parla - basta pensare allo stato in cui ci ha ridotto Berlusconi,
o a come anche la scuola cattolica sia paradossalmente negli ordinamenti una
scuola statale, per quanto non dello stato italiano bensì del Vaticano.
Non è pubblica la scuola se si riduce a istituzione del ministro (o dell’assessore
regionale), non garantita nella sua autonomia culturale pluralistica, fondata
sulla libertà d’insegnamento. E neanche se è scuola «del
ministero», cioè dell’apparato burocratico, magari di pura
trasmissione tecnica e strumentale di conoscenze tutte già compiute e
confezionate, solo da ripetere agli esami. Non è il prolungamento della
famiglia, né uno stage di addestramento pre-aziendale.
Il compito, in un certo senso post-istituzionale, è rendere possibile
– e possibilmente vivo – l’incontro delle diverse generazioni
nel lavoro sul sapere (cominciando dal decolonizzare le scuole dal miliardo
di funzioni burocratiche, microprogettuali e di mero controllo che adesso le
soffocano). Una sorta di autoeducazione della società a se stessa, sulla
base di una tradizione e di un corpo di conoscenze, ma per riattraversarle ogni
volta a partire dalle domande, dai dubbi e dai desideri delle nuove generazioni.
In un'istituzione che resta asimmetrica, ma la cui autorità è
relazionale e condivisa o non è, e scade a sterile autoritarismo.
Il sapere che può connotare questa scuola avrà allora le stesse
caratteristiche di apertura e ricerca, di costruzione condivisa di un mondo
comune a partire dalla diversità dei punti di vista e delle culture.
Alla fine non si tratta di delimitare protetti e circoscritti giardinetti educativi
o di arricchire gli scaffali dei supermercati del sapere.
Si tratta di costruire mappe provvisorie per territori di frontiera; di lavorare
su viaggi e confronti. Traduzioni. Guardando ai grandi paesaggi da attraversare
e dai quali essere attraversati…
Qui, in questa terra di nessuno che è terra di tutti/e, repubblica e
agorà di luoghi comuni discorsivi, può trovare senso e radici
la scuola. Come la politica. Oltre gli stati e gli eserciti.
Vedi anche: comunità educante