COMUNITA’ EDUCANTE
Renata Puleo (Roma)

L’aggettivo “educante” aggiunto al termine “comunità” determina il contesto nel quale prende forma il significato di una voce tanto generica quanto carica di ambiguità. Insieme, nella locuzione, sostantivo e aggettivo indicano un gruppo di soggetti che – in una situazione istituzionale, cioè di apparato istituito legalmente – si occupano di un percorso di insegnamento-apprendimento. Si possono dare, semplificando, due casi, con diversi livelli di complessità. Quando il percorso è rivolto ad adulti, si tratta di stabilire un coordinamento di compiti diversi atto a garantire il buon esito di un ritorno in formazione, spesso indotto dal mercato del lavoro, altre volte dettato da ragioni personali. L’aspetto rilevante è la contrattazione all’interno di un rapporto di domanda-offerta, sostanzialmente predefinita dalle differenze di ruolo. Quando parliamo di CE in realtà facciamo riferimento ad un contesto di apprendimento, ad una relazione, che vede coinvolti soggetti adulti che si occupano del processo di crescita di “creature piccole” e di giovani. In questo caso il contratto, il patto volto a determinare il percorso, appare squilibrato dalla differenza di status e di ruolo. La differenza si gioca in termini di informazione e di parole scambiate, non tanto o solo rispetto ad una “naturale” sperequazione di conoscenze, bensì all’interno della diade minorità-adultità. E’ proprio a questo snodo e alle sue ambivalenze che la locuzione di cui parliamo lavora. La CE è tale perché è orientata al cambiamento, nella accezione cibernetica ed evolutiva del termine, di un sistema complesso. Ogni parte è esposta a tale cambiamento, indipendentemente – o malgrado!- lo status di adulto ricoperto da alcune. La relazione che si sviluppa dentro la CE è circolare e ricorsiva, tutti i soggetti sono esposti al flusso dello scambio linguistico,e di tale scambio, dove anche i corpi giocano la loro parte di comunicazione, la CE si prende cura per mantenersi. Alcuni soggetti svolgono compiti diversamente necessari al mantenimento-manutenzione della comunità: coloro che lavorano ai servizi amministrativi, tecnici, di supporto (gli ATA, per intenderci, e le agenzie che gestiscono servizi specifici); docenti; dirigenza…bambine e bambini; giovani. Tale sistema riesce a essere complesso e non solo complicato, quando chi ne fa parte è consapevole di tale dimensione di scambio circolare e delle sua delicata esposizione al conflitto e quindi alle pratiche di cura. Anche le “creature piccole” man mano devono acquisirne consapevolezza e in questa acquisizione si esprime la progressiva uscita dallo stato di minorità. Così considerata la CE è un sistema aperto. Al suo interno, alla circolazione del conflitto e alla continua messa a punto delle dinamiche di deriva e di arricchimento delle componenti relazionali-linguistiche. Verso l’esterno nei confronti di agenzie educative tradizionali, famiglie e territorio.

Ma perché ad un certo punto, nella storia delle istituzioni scolastiche, intorno agli anni ‘70 emerge la necessità di utilizzare la locuzione CE? Perché non sembra più bastare la generica adesione al compito istituzionale fissato per la scuola, implicitamente e esplicitamente, dalle norme istituenti? Cosa dice di più e meglio la locuzione? Nel processo di trasformazione storica di quegli anni, orientato ideologicamente dalle analisi sulle caratteristiche delle istituzioni e sulla funzione dello Stato, attraversato da una profonda destabilizzazione dei rapporti di potere, essa andava a toccare un punto nevralgico del sistema educativo. Sottolineava, mettendola al lavoro in modo critico, la condizione di quei soggetti di essere parte necessaria di un organismo complesso, dove essere “comunità” è diverso dall’essere semplicemente “gruppo”, dove non si ragiona in semplice verticalità dei rapporti o di sommatoria delle parti. Dove c’è CE c’è partecipazione. Partecipazione opposta a delega, a gerarchizzazione come sclerosi delle posizioni, a ruolo come riduzione di Parola.Ogni posizione/postazione è necessaria alla costruzione reticolare e il potere si ridistribuisce continuamente, si coagula nelle decisioni condivise, ripropone il suo lato sinistro di conflitto nel confronto linguistico fra le parti e nello scontro fra gli interessi. Il potere appare nella sua forma primordiale di “essere in potenza”, di “potere dire: io posso”.Potenza generatrice del desiderio e della passione che ciascuno “può” immettere nel proprio lavoro.

La comunità può essere un organismo pericoloso. Nel senso che si corrono molti rischi nel fare parte di una comunità. C’è qualcosa che segnala, in modo non sempre evidente nella sua storia, che essa confligge con la laicità e con la libertà, intesa quest’ultima come parola-azione dei soggetti in gioco. E dove laicità si oppone a “religio”, ovvero a ciò che per necessità - spesso una necessità su cui nulla si può più dire – crea il vincolo di appartenenza. Nelle innumerevoli riflessioni che articolano la differenza fra società e comunità, fra soggettività politica e appartenenza famigliare o di clan (Tonnies), emerge costante e tragico il problema della libertà. Contributi recenti (Esposito) mettono in luce come nella parola comunità non sia tanto importante, vista la sua utilizzazione storica, la radice “com”, quanto, all’interno della sua costruzione etimologica, il senso ricoperto dalla parola “munus”. Quale pegno, quale prezzo paga il membro di una comunità, con chi o con che cosa ha contratto un debito che spesso risulta inestinguibile? La comunità possiede, riproducendola in forme allargate e miste, la struttura della famiglia. Come emerge nell’uso che ne fece il nazismo, essa si articola sul valore anche metaforico del legame di sangue. La sua privatezza sembra scontrarsi apertamente con la pubblicità dell’azione politica (Arendt).Questo lavoro di decostruzione semantica e politica ci porterebbe molto lontano. Basti dire che descolarizzatori e comunitaristi hanno lavorato insieme per attaccare politicamente l’impianto di una delle tante istituzioni totali, quelle costuitesi nello Stato Moderno con la funzione di governo e di disciplina dei corpi e delle coscienze. La scuola è stata, in qualche modo ancora lo è, una istituzione totale (Foucault).
Ma perché oggi, nel cuore stesso della critica movimentista alla scuola, ritorna il bisogno della locuzione CE? Non si rischia di fare il verso da sinistra al familismo imperante, ormai frusto, ma evidentemente ancora efficace nel fornire un pretesto per attaccare gli spazi pubblici?
Forse nell’aggettivo “educante” è contenuta la risposta. Ciò che svolge una funzione educativa è ciò che favorisce, induce il cambiamento. Imparare è “come” evolvere. La parentela, non solo metaforica fra apprendimento, evoluzione, coevoluzione, adattamento, frattura, è stata spesso segnalata e argomentata (Bateson).
La CE è allora quel sistema complesso che si trasforma in continuo pur lavorando sempre al mantenimento della organizzazione adatta al suo compito. Essa è al tempo stesso protetta ed esposta alle maree politiche della moltitudine e alla forza necessitante dell’apparato di governo statale.

Vedi anche: spazio pubblico, tempo pieno.