Poche parole nel linguaggio politico-giuridico hanno avuto
uno straordinario successo come il termine “federalismo”, ma anche
poche parole presentano un analogo tasso di ambiguità.
Nato per indicare una forma di unione (foedus, che indica un patto, una convenzione
, come quella della Costituzione degli Stati Uniti del 1787), il termine “federalismo”
è passato a definire qualsiasi assetto organizzativo nel quale il potere
sia diviso su base territoriale fino a diventare nelle proposte di talune forze
di Governo del nostro Paese una forma di sostanziale “separazione”.
In ragione di tale ambiguità e dei rischi impliciti l’Assemblea
Costituente, pur volendo definire un assetto democratico e decentrato del nuovo
Stato, ha scelto un modello di Stato unitario con un sistema articolato di autonomie
(cd “Stato delle autonomie”) e non una forma di Stato federale;
in particolare le forze della sinistra hanno sempre con forza sostenuto le autonomie
regionali e locali,ma nel quadro di uno Stato unitario nella consapevolezza
che i principi ed i diritti dello Stato sociale affermati nella Costituzione
hanno un carattere universale e devono essere garantiti a tutti in tutto il
Paese; il diritto al lavoro, il diritto alla salute, il diritto all’istruzione,
ecc., possono essere meglio gestiti a livello locale, ma in un quadro legislativo
unitario e nazionale valido per tutti e con un impegno di tutta la collettività
nazionale.
Purtroppo il disegno costituzionale dello Stato delle autonomie definito nella
Costituzione, nella realtà pratica non è stato compiutamente realizzato;
nella realtà, pur dopo l’entrata in vigore della Costituzione e
pur dopo l’istituzione delle Regioni, lo Stato è rimasto centralista
e fortemente centralizzato con un ruolo marginale delle Regioni e soprattutto
degli Enti Locali.
Peraltro anche ora le forze politiche al potere, che sostengono una riforma
costituzionale dai contenuti secessionisti, nella realtà gestiscono il
potere in modo centrelistico e penalizzante di qualsiasi forma di autonomia
(la legge Moratti in questo senso è emblematica ).
A questa politica centralista e verticistica, portata avanti dalle forze dell’attuale
maggioranza di governo si contrappone da parte delle stesse forze politiche
una concezione “secessionista” del Federalismo che, identificando
lo Stato con lo “statalismo” mette in discussione non solo lo Stato
unitario, ma soprattutto i diritti universali che lo Stato deve garantire a
tutti in tutto il suo territorio.
A questa cultura secessionista la sinistra finora non ha saputo, salvo alcune
eccezioni, contrapporre una cultura alternativa di Stato democratico, partecipato
ed articolato con un effettivo ruolo delle autonomie; anche talune forze della
sinistra hanno fatto propria la proposta del “federalismo” sia pure
con alcuni correttivi come “cooperativo” o “solidale”,
ma senza rendersi conto che uno Stato democratico ha un senso se si fa portatore
e garante dei diritti fondamentali di tutti i cittadini.
Il risultato di questa subalternità culturale delle forze del centro-sinistra
è stata l’infelice riforma del Titolo V della Costituzione che
con le sue contraddittorietà ha creato un quadro istituzionale incerto,
ma soprattutto ha facilitato alla maggioranza di destra di andare avanti anche
verso la forma della “regionalizzazione” dei diritti fondamentali
come la salute e l’istruzione; in questo senso difatti si muove la proposta
di riforma costituzionale attualmente all’esame del Parlamento, meglio
nota come “devolution”.
In conclusione nel nostro Paese, messo in discussione all’insegna del
“federalismo lo Stato delle autonomie, definito dalla Costituzione del
1948, si è avviato non solo un pericoloso processo di destrutturazione
dello Stato e delle sue funzioni istituzionali, ma anche di omologazione culturale
sempre più subalterna alle logiche dell’appartenenza e dei poteri
forti.
Le forze democratiche devono quindi anzitutto opporsi a qualsiasi forma di devolution
che riguardi diritti fondamendali come la salute e l’istruzione, ma devono
anche impegnarsi ad una lettura del Titolo V, interna ai principi affermati
nella prima parte della Costituzione; in particolare per l’istruzione
scolastica deve essere afermato con chiarezza che il Titolo V non ha nè
modificato nè tanto meno abrogato gli artt. 33 e 34 della Costituzione;
ha semplicemente attribuito alle regioni un ruolo legislativo anche in materia
scolastica, ma nell’ambito delle “norme generali” che rimangono
alla competenza dello Stato e fermo restando il carattere statale del sistema
scolastico; sarebbe quindi opportuno per evitare equivoci ed ambiguità,
ricominciare a parlare di “scuole statali” che non significa ministeriali,
ma scuole che hanno il compito istituzionale di garantire a tutti il diritto
di cittadinanza e che quindi sono e non possono non essere istituzioni fondamentali
di uno Stato che vuole essere democratico.
Vedi anche: aziendalizzazione scolastica, parità