Istruzione-merce e scuola-azienda: fin dall’inizio degli
anni Novanta i soggetti collettivi più lucidi e le menti più avvertite
hanno fotografato in questi due binomi (e nello stesso tempo combattuto) il
micidiale processo di disgregazione e di corruzione imposto negli ultimi anni
alla scuola pubblica italiana dalle forze economi-che e politiche dominanti.
Trasformare l’istruzione - da diritto di tutti/e ad acquisire gli strumenti
per “leggere il mondo da soli” e sapersi muovere adeguatamente in
società dominate dalle leggi spietate del profitto e del mercato - in
una nuova merce da mettere in vendita; comprimere la scuola, i suoi lavoratori/trici
e la didattica nelle distruttive forme del meccanismo aziendale, imperniato
sulla competizione, sulle gerarchie, sulle differenze salariali, sul conflitto
permanente, cancellando collaborazione e solidarietà: questi due imperativi,
purtroppo già prevalenti nelle scuole di tanti paesi del mondo, sono
piombati addosso alla scuola italiana sopratutto durante i governi di centrosinistra
e di centrodestra dell’ultimo decennio, ed hanno fatto esplodere in essa
il più lungo ed aspro conflitto di tutta la storia della nostra istruzione
pubblica.
Mercificazione e aziendalizzazione: i due termini sono strettamente intrecciati
e possono sembrare pressoché equivalenti. E’ però opportuno
sottolineare come essi corrispondano a due processi dotati di differenti pesi
specifici e con una gerarchia interna. L’elemento primario e dominante
è il tentativo di ridurre l’istruzione a merce. Il mercato capitalistico,
che doveva estendersi – nelle promesse dei suoi “laudatores”
– fino a coprire tutto il pianeta, portando ovunque benessere e sicurezza,
si è invece rivelato nell’ultimo decennio tremendamente asfittico,
più insicuro e spietato che mai. I tre quarti dell’umanità
praticamente non vi hanno accesso, nel senso che non hanno possibilità
di acquistare o vendere alcunchè, neanche la propria forza-lavoro. Una
quantità sempre crescente di merci si riversa, fino a saturarli, nei
mercati “ricchi” e i gruppi capitalistici più forti lottano
ferocemente tra loro per averne l’egemonia e per convincere il restante
quarto dell’umanità a non smettere di comprare anche merci già
abbondantemente diffuse o per lo più superflue.
In questo contesto la ricerca di nuove merci da imporre ai cittadini del mondo
“benestante” diventa spasmodica: e in particolare dilaga il tentativo
dei “padroni del globo” di mutare in merce ciò che fino ad
oggi non lo era, ed in prima fila quei beni collettivi primari che sono l’istruzione
e la salute. I quali beni, una volta trasformati irreversibilmente in merci,
avrebbero il vantaggio, per coloro che se ne impossesserebbero, di vedere spalancarsi
di fronte a sé un mercato enorme e pressoché illimitato. In quanto
merce, soprattutto l’istruzione muoverebbe cifre ed interessi colossali:
basti pensare che attualmente per essa – nel ciclo didattico che copre
approssimativamente la fascia di età tra i 6 e i 18 anni – i paesi
dell’OCSE (più o meno i 29 paesi più ricchi del globo) spendono
in media circa 2500 miliardi di euro l’anno (5 milioni di miliardi di
vecchie lire). Ed in più l’istruzione (come in generale la cultura,
la conoscenza, l’informazione) degradata a merce risulterebbe rapidamente
deperibile (e dunque va costantemente rinnovata, “ricomprata”) e
pressoché inesauribile (chi può dire di possedere tutta l’istruzione,
la conoscenza, l’informazione necessarie?), in un contesto nel quale,
anche dal punto di vista puramente produttivo, la conoscenza è oramai
unanimemente considerata bene cruciale.
Per la vittoria irreversibile dell’istruzione-merce la trasformazione
della scuola in azienda è supporto fondamentale. Aziendalizzare la scuola
significa creare strutture che abbiano come obiettivo primario non già
la “produzione” di reale sapere critico, la “distribuzione”
di libera conoscenza, la crescita culturale, sociale e psicologica degli allievi/e,
ma la realizzazione del massimo profitto economico, in un regime di concorrenza
spietata che lascerebbe fuori i più deboli socialmente, economicamente,
fisicamente: una scuola fondata su gerarchie ben definite, dove collaborazione
e solidarietà sarebbero bandite, ove dominerebbe la legge feroce dell’”homo
homini lupus”, della lotta per emergere a scapito degli altri/e, dove
si insegnerebbe che i criteri propri dell’azienda capitalistica (arricchimento
individuale, potere e successo a tutti i costi) sono gli unici accettabili e
premiati nella società umana.
Avremmo una scuola dove i primi a dover accettare il dominio della merce, del
profitto, della concorrenza e delle gerarchie sarebbero proprio quei docenti
a cui una scuola veramente pubblica dovrebbe assegnare il compito di educatori/trici
disinteressati, imparziali, “collaborativi” e solidali: una scuola
dalla quale verrebbero brutalmente espulsi i meno abbienti, i meno forti socialmente,
i portatori di handicap e svantaggi di ogni genere, insomma proprio quelli/e
che una scuola di tutti/e e per tutti/e dovrebbe in sommo grado aiutare a recuperare
i “ritardi” accumulati.
In una scuola-azienda non si fa cultura né libera ricerca, ma indottrinamento
“liberista”, ideologia del mercato e della concorrenza; non si approfondiscono
le materie né tantomeno si fonda una ampia e creativa “visione
del mondo” ma si propinano frammentati “moduli didattici”
che diano un’infarinatura di conoscenze al servizio delle aziende esterne.
In una scuola-azienda non si lavora collegialmente né si collabora solidalmente
e fraternamente: si compete sia tra lavoratori/trici sia tra studenti, ci si
“nasconde” reciprocamente le conoscenze, si usa il sapere per battere
i “concorrenti” nella gara per emergere e scalare posti in “azienda”,
da una parte e dall’altra della cattedra. In una scuola-azienda non c’è
eguaglianza, ma differenze artificiali e imposte, divisione permanente, gerarchizzazione,
diversi salari: in essa non c’è umanità, valori collettivi,
aiuto reciproco ma spietata lotta per “un posto al sole”, “allenamento”
alla brutalità del liberismo dominante all’esterno.
Ma per fortuna la partita tra la scuola pubblica e la scuola-azienda è
tutt’altro che chiusa, in particolare in Italia. Molti/e docenti ed ATA,
e i Cobas in prima fila, studenti, genitori e cittadini hanno in questi anni
combattuto strenuamente affinché la istruzione-merce e la scuola-azienda
non vincessero, sia quando a farsene paladini erano i Berlinguer-De Mauro sia,
e tanto più, oggi che i Moratti-Berlusconi, più sfacciatamente
ancora dei loro pessimi predecessori del centrosinistra, sono i massimi propagandisti
della sottomissione della scuola alla cultura mercificante e aziendale.
Dalla ignobile legge di parità scolastica al “concorsaccio”,
dalla sedicente autonomia scolastica alla regionalizzazione della scuola, dall’immiserimento
salariale di docenti ed ATA all’espulsione selvaggia dei precari, dalle
controriforme Moratti e Berlinguer al tentativo di distruggere il tempo pieno
e di imporre il “tutor”, abbiamo dato vita ad una vera e propria
“guerra epocale” tra due concezioni opposte del sapere, della conoscenza
e dell’istruzione, con alcune fondamentali “battaglie campali”
e tanta faticosa e logorante “guerriglia” o “lotta di trincea”
nelle singole scuole, combattendo contro i paladini, di ogni apparente colore
politico, della sottomissione della cultura alla “divinità”
del profitto aziendale.
E’ uno scontro storico: i suoi esiti influenzeranno enormemente i destini
delle nostre società e le possibilità di costruire un nuovo modo
collettivo di vivere che si fondi sull’eguaglianza sostanziale tra gli
esseri umani, sulla giustizia sociale, sulla democrazia reale, sul benessere
economico per tutti gli abitanti del pianeta. Di sicuro, in questo scontro noi
resteremo in prima fila.
Vedi anche: autonomia
scolastica, gerarchizzazione,
mercificazione
dell'educazione, modularità.