AUTONOMIA SCOLASTICA
Massimo Bontempelli insegna storia e filosofia nel liceo classico, Pisa
E’ stata la parola-chiave della politica scolastica del
ministro Berlinguer al tempo dei governi Prodi e D’Alema, la parola che
ha indicato una strada, che la Moratti, ministro del governo Berlusconi, ha
continuato a percorrere.
Si tratta di un’etichetta ingannevole riguardo al contenuto che smercia.
L’età del neoliberismo è un’età di perversione
del linguaggio a sostegno dell’annientamento del pensiero critico, anche
attraverso l’uso di parole di nobile tradizione per designare l’opposto
del loro significato tradizionale. Si pensi alla parola riformismo, che nel
corso di una lunga storia ha indicato l’idea di un sistema di interventi
statali sull’economia capitalistica che, senza abbatterla, e dunque senza
alcuna rivoluzione dei rapporti sociali, proteggessero le classi lavoratrici,
spostando un po’ di reddito e un po’ di potere dal capitale alla
forza-lavoro. Ebbene: oggi per riformismo si intende la promozione di riforme
che smantellano l’intervento statale e la protezione sociale, e mettono
più risorse a disposizione del capitale: esattamente il contrario del
significato storico della parola. Oggi si chiamano riformisti i neoliberisti
di sinistra, e la sinistra moderatissimamente riformista, nel senso originario
del termine, è indicata come massimalista.
La parola-chiave autonomia, nel senso in cui oggi è usata, nasce dallo
stesso stravolgimento dei significati, ed è considerata infatti espressione
del riformismo. C’è stato un periodo, nei primi due decenni del
secolo trascorso, in cui l’autonomia è stata discussa e rivendicata
in un fervente dibattito sulla scuola, a cui hanno partecipato intellettuali
del calibro di Salvemini e di Croce, di Galletti e di Amendola, di Kirner e
di Lombardo Radice. Si è parlato, allora, di autonomia della scuola,
sia nel senso di autonomia educativa dell’istruzione pubblica da condizionamenti
extrascolastici, confessionali od economici (nel senso, quindi, della laicità
e della finalità immanente dell’attività educativa), sia
nel senso dell’autonomia culturale di ogni insegnante da interferenze
burocratiche o governative, nello svolgimento del programma di studio affidatogli
dallo Stato. E si è parlato di questa autonomia della scuola come mezzo
d’elezione per far conseguire al sistema nazionale della pubblica istruzione
quello che gli intellettuali progressisti ritenevano dovesse essere il suo obiettivo
primario, vale a dire l’autonomia di pensiero dello studente attraverso
l’acquisizione del patrimonio culturale trasmesso da una generazione all’altra.
Nell’aprile 1996 il centro-sinistra vince le elezioni. Romano Prodi, che
diventa capo del governo, ha dichiarato nel suo programma elettorale che la
scuola sarebbe stata al centro della sua attenzione, essendo improrogabile la
necessità della sua riforma. Bandiera della riforma diventa l’autonomia.
Bandiera nobile, se ci si riferisce ai contenuti di emancipazione e di progresso
per i quali ha sventolato un tempo, ma ignobile, se si guarda al significato
che le ha dato una sinistra riformista che intende le riforme come innovazioni
di smantellamento delle istituzioni, e delle norme socialmente emancipatrici,
in nome dell’efficienza economica mercantilmente intesa.
La sinistra al governo parla non più, come la sinistra di un tempo, di
autonomia della scuola, ma di autonomia delle scuole. Il passaggio dal singolare
al plurale, oppure, che è lo stesso, ad un singolare in cui la scuola
di cui si proclama l’autonomia è il singolo istituto scolastico,
è tale da capovolgere il significato originario della parola.
Autonomia, ora, significa smantellamento del sistema nazionale della pubblica
istruzione. Non è più, cioè, l’autonomia di quel
sistema, ma è l’autonomia da quel sistema. Tanto è vero
che il primo testo legislativo che prevede l’autonomia scolastica è
l’articolo non di una legge sulla scuola, ma di una legge sul decentramento
amministrativo, vale a dire l’articolo 21 della legge Bassanini del 15
marzo 1997. Quel che si vuole, infatti, è «decentrare» le
scuole da un sistema educativo pubblico e nazionale, ritenuto, nella logica
totalitariamente mercantile del neoliberismo, zavorra inutile e costosa. L’impegno
del ministro Berlinguer a dare attuazione all’articolo 21 della legge
Bassanini, per realizzare, come pomposamente si dice, «la scuola dell’autonomia»,
viene perciò additato ad esempio, già nel 1997, da un documento
delle Confindustrie europee, che auspica un adeguamento della scuola alle esigenze
del mercato globale. Autonomia, infatti, così come la intende il governo
di centro-sinistra, è sinonimo di scuola-azienda, vale a dire di una
scuola che, svincolata da ogni obbligo di svolgere percorsi culturali organicamente
strutturati e rispondenti alle finalità di un sistema educativo pubblico
e nazionale, cerca i suoi «clienti», in un contesto di «competizione»
con le altre scuole, sulla base di una sua specifica «offerta formativa»
volta a promuovere non la cultura, che non può nascere da una competizione
per l’accaparramento di clienti, ma l’immagine di prestigio e di
modernità e l’illusione di un migliore inserimento nel mercato.
La cosiddetta «scuola dell’autonomia» è dunque, in
realtà, la negazione dell’autonomia un tempo rivendicata dall’intellettualità
progressista, in quanto è una curiosa autonomia per la quale la scuola
non è più autonoma dai condizionamenti mercantili, la cultura
non è più autonoma dalle più contingenti esigenze pragmatiche
ed utilitarie, e l’insegnante non è più autonomo dalle interferenze
esterne nello svolgimento del suo programma. Il periodo in cui le scuole sono
state letteralmente invase da un diluvio di disposizioni costrittive, formali
e di dettaglio, riguardo alle modalità di insegnamento e di valutazione,
è stato proprio il periodo di lancio della «scuola dell’autonomia».
E si pensi a come oggi l’insegnante non sia più autonomo neppure
nell’uso delle sue ore settimanali, che la «scuola dell’autonomia»
ha reso sequestrabili da attività extracurriculari, interventi di soggetti
esterni, volontà collegiali. Chi è veramente garantito da questa
curiosa autonomia è il docente privo di cultura, di spirito critico,
e anche di preparazione nella sua disciplina: è sufficiente che riempia
le prescritte scartoffie delle banalità d’uso («La classe
non è omogenea, perché una parte degli allievi ha partecipato
al dialogo educativo, un’altra invece…) e delle parole aconcettuali
del didattichese (capacità, conoscenze, competenze…); è
sufficiente che stenda sulla carta programmi magniloquenti, e meglio ancora
se si impegna in attività d’immagine e in contatti con l’esterno.
Del resto, non c’è più alcun contenuto di insegnamento nazionalmente
obbligato, e, con il nuovo esame finale, coronamento dell’autonomia, ogni
insegnante verifica se stesso. Così, senza problemi, e in piena “autonomia”,
può non trasmettere alcuna cultura, e anche non fare nulla di serio nelle
sue ore.
Autonomia, in conclusione, vuol dire oggi abbattimento, nella sostanza, del
sistema pubblico dell’istruzione, e privatizzazione sostanziale delle
scuole, quand’anche formalmente rimangano pubbliche, mediante la loro
aziendalizzazione. Poiché però scuola-azienda è un ossimoro,
le scuole dell’autonomia non saranno mai, se non nell’immaginario
confindustriale, aziende produttrici e fornitrici di istruzione utile al sistema
produttivo, ma, nella misura in cui si conformeranno organizzativamente a questo
modello, saranno contenitori vuoti di qualsiasi cultura, in cui le nuove generazioni
saranno addestrate soltanto al consumismo e alla giungla della più demente
competizione di tutti contro tutti. Questo, del resto, è ciò a
cui tendono le forze economiche dominanti, e che le forze politiche dominanti,
indifferentemente di centro-destra e di centro-sinistra, al di là delle
loro rispettive retoriche finiscono per mettere in atto.
Vedi anche: aziendalizzazione della scuola, mercificazione dell'educazione, valutazione (didattica)