VALUTAZIONE (didattica)
Guido Armellini
"E’ sintatticamente e semanticamente corretto dire che le asserzioni soggettive sono fatte da soggetti. Allora, in modo corrispondente, potremmo dire che le asserzioni oggettive sono fatte da oggetti. Disgraziatamente queste dannate cose non fanno asserzioni." (Heinz von Foerster)"
Tra i progetti di riforma dei governi di centro-sinistra e
di centro-destra ci sono elementi di continuità e di discontinuità;
ma il denominatore comune più tenace è l’assoluta noncuranza
per il carattere mutevole, imprevedibile, avventuroso delle relazioni che le
e gli insegnanti instaurano ogni giorno nelle classi con le ragazze ed i ragazzi
in carne ed ossa. La scuola viene vista come un “sistema” da far
funzionare col massimo di efficacia e di efficienza, un oliato meccanismo di
trasmissione di conoscenze/competenze/capacità e di controllo della loro
acquisizione, e non come una moltitudine di comunità viventi, ciascuna
con la sua storia, le sue abitudini, i suoi conflitti, dove si incontrano esseri
umani diversi per età, sesso, carattere, visioni del mondo, provenienze
geografiche e culturali. La noncuranza per l’esperienza reale di insegnanti
e studenti è particolarmente evidente nei progetti valutativi sfornati
dai pedagogisti ministeriali che informano numerosi aspetti della vita della
scuola: dai progetti nazionali a base di test rivolti a migliaia di studenti
a quelli tesi a misurare la qualità delle istituzioni scolastiche.
La questione della valutazione è divenuta così un campo di riflessione
e di azione importante per i movimenti che in questi ultimi anni hanno praticato
e proposto idee di scuola diverse da quella imposta dall'alto. Schematizzando
terribilmente, si possono individuare quattro fondamentali punti di conflitto.
1) Un presupposto dell'idea dominante di valutazione è che un atto valutativo
sia tanto più attendibile quanto meno reca traccia della soggettività
degli esseri umani che lo hanno prodotto. La mia opinione è specularmente
opposta: una valutazione risulta tanto più seria, utile per l'essere
umano valutato, confrontabile con altre, quanto più l’apporto della
soggettività del valutatore o dei valutatori è consapevole ed
esplicito. Come genitore, oltre che come insegnante, ho potuto constatare che
nessun docente è tanto pericoloso per l’apprendimento, l’autostima
e l’igiene mentale suoi studenti quanto quello che presume che le sue
valutazioni siano “oggettive”. Al contrario di quanto si potrebbe
pensare superficialmente, l’oggettività non è una garanzia
di trasparenza e di equità, ma una riproposta inconsapevole e subdola
del dogmatismo, un alibi per chi non vuole assumersi la responsabilità
delle sue scelte.
Questa considerazione vale in misura diversa a seconda del tipo di prestazione
e di comportamento sottoposto a valutazione: quanto più la prestazione
richiesta è banale ed elementare, tanto più si può presumere
di poterne accertare “oggettivamente” la correttezza; quanto più
le operazioni valutate sono complesse, tanto meno "oggettivo" può
essere l’apprezzamento. Se mi viene posta la domanda "Dove è
nato Giacomo Leopardi?", la mia soggettività non è esplicitamente
chiamata in causa dalla prestazione richiesta. Se invece mi si chiede di dare
una mia interpretazione dell'Infinito, la domanda fa apertamente appello al
mio apporto soggettivo, e dunque comporta un coinvolgimento soggettivo altrettanto
forte da parte di chi dovrà valutare la mia risposta. Conclusione: se
vogliamo essere massimamente “oggettivi”, dobbiamo limitarci a verificare
il possesso mnemonico di nozioni, o la capacità di svolgere mansioni
meramente addestrative; se invece vogliamo vagliare la capacità di far
uso di processi di analisi, sintesi, critica, invenzione, dobbiamo rinunciare
apertamente a ogni presunzione di oggettività. Questo non significa naturalmente
che, nel valutare, ogni insegnante debba affidarsi all’arbitrarietà
delle sue idiosincrasie e impressioni personali. Semplicemente, l’esplicitazione,
la discussione, la condivisione dei risultati si appoggeranno a criteri aperti
e sempre rinegoziabili, costruiti cooperativamente a partire dall’esperienza,
per i quali vale, più che l’oggettività della dimostrazione,
l’intersoggettività dell’argomentazione.
2) Un secondo presupposto della valutazione ufficiale è che per rendere
"scientifica" un'operazione valutativa, occorra scomporla in unità
discrete: valutando separatamente le singole abilità o competenze si
raggiungerebbe un risultato più attendibile che in una valutazione olistica,
e la somma aritmetica dei singoli punteggi così ottenuti porterebbe a
un esito complessivo caratterizzato dal massimo di oggettività. L'esperienza
insegna invece che nella valutazione scolastica il tutto non è equiparabile
alla somma delle parti: gli esiti risultanti dall'utilizzo di "griglie"
valutative basate su somme di punteggi non sono di per sé più
attendibili di quelli risultanti da un approccio globale, che valorizza l'unitarietà
degli esseri umani coinvolti nella relazione valutativa; spesso anzi avviene
che il procedimento della somma aritmetica produca un effetto di distorsione
e di disturbo, aggravato dalla presunzione di oggettività. Mi sembra
dunque che sarebbe assai più realistico e onesto affidare esplicitamente
alla responsabilità intersoggettiva delle e degli insegnanti l’onere
di una valutazione globale. Questo non impedisce di utilizzare prove cosiddette
"oggettive", o "strutturate" o "semistrutturate".
L’importante è non confondere la misurazione con la valutazione.
La situazione dell’insegnante che valuta uno studente è simile
a quella del medico che deve definire le condizioni di salute di un suo paziente:
l’apporto dei dati risultanti dagli esami di laboratorio può essere
un punto di riferimento fondamentale, ma la diagnosi consisterà in una
interpretazione dei dati, strettamente legata al dialogo instaurato col paziente,
non nella loro combinazione matematica.
3) Un terzo presupposto è costituito dal binomio obiettivi/prerequisiti,
su cui si dovrebbero fondare l’efficacia della programmazione didattica
e il successo del processo di insegnamento-apprendimento. Si suppone che ogni
discente, per raggiungere un certo obiettivo O, debba necessariamente passare
attraverso un ben definito prerequisito P; e che il docente, avendo raggiunto
sul rettilineo della conoscenza un traguardo di gran lunga più avanzato
dei suoi alunni, possa diagnosticare con la massima oggettività e precisione
la situazione di partenza di ciascuno, per condurlo passo passo dal punto P
al punto O, che a sua volta fungerà da prerequisito per la conquista
di un nuovo obiettivo. Il modello è rassicurante, ma astratto. L’esperienza
ci dice infatti che le giovani generazioni organizzano il loro modo di impadronirsi
della realtà in base a percorsi, criteri di valore, orizzonti di senso,
strategie cognitive molto diversi da quelli seguiti dalle generazioni adulte.
L’incontro fra insegnanti è studenti non è semplicemente
un incontro fra livelli di conoscenza, ma tra esseri umani caratterizzati da
orizzonti culturali differenti, che devono prima di tutto cercare un contesto
comunicativo condiviso, attraverso la costruzione di presupposti comuni. Se
le cose stanno così, l’insegnante più che un trasmettitore
di conoscenze/competenze/capacità, dovrà essere un “esploratore
di mondi possibili” (M. Sclavi), capace di affacciarsi sull’alienità
degli orizzonti dei suoi “barbari” interlocutori, per costruire
insieme a loro un modello di mondo che nasca dall’incontro fra il sapere
canonico e la nuova domanda di senso che essi esprimono. In questo quadro la
valutazione non si pone come semplice accertamento del raggiungimento o meno
di traguardi predeterminati, ma come processo bidirezionale, dialogico, in gran
parte orale ed informale, aperto all’imprevisto e al teach-back proveniente
dalle e dagli studenti.
4) Quarto punto di conflitto. Negli ultimi anni la consapevolezza della complessità
dei processi di apprendimento, anziché suggerire un salutare atteggiamento
di umiltà, ha dato il via a uno smodato ampliamento della presunzione
del controllo: oltre a misurare "oggettivamente" le prestazioni relative
alla sfera cognitiva, si è pensato che fosse possibile e necessario tenere
implacabilmente sotto tiro tutte le (infinite?) variabili coinvolte. Così
la complessità qualitativa della valutazione è stata affrontata
attraverso uno smisurato aumento quantitativo degli indicatori da sottoporre
a verifica. Di qui il mostruoso ingigantimento della documentazione e della
certificazione, e l'atteggiamento addirittura persecutorio nei confronti delle
ragazze e dei ragazzi, di cui si presume di poter catalogare precocemente i
limiti, le propensioni, le attitudini, gli atteggiamenti etici e psicologici.
Indipendentemente dalle eventuali buone intenzioni, una scuola animata dalla
presunzione di poter misurare e certificare “tutto”, finisce per
usare la valutazione come un’arma puntata contro la privacy, la responsabilizzazione
e l’autostima di chi la frequenta; senza considerare gli esiti nefasti
prodotti inevitabilmente dall'"effetto Pigmalione".
Tra i requisiti fondamentali di una valutazione sensata occorrerebbe annoverare,
oltre alla consapevolezza della soggettività di ogni atto valutativo,
un forte senso del limite del nostro sapere. Penso che, prima di esprimere un
giudizio riguardante un altro essere umano, dovremmo sempre ripetere a noi stessi
l'aurea massima di Irwing Thompson: "Ciò che veramente conta non
può essere contato".
Vedi anche: modularità,
portfolio,
relazione, valutazione
nella scuola primaria.