Poiché la scuola è un sistema vivente, tutto ciò che capita, capita in
sistemi relazionali, ed è mia
convinzione che il suo cambiamento effettivo avviene quando cambia in meglio
la qualità delle relazioni che in quell’ambiente si vivono. Per
questo in generale penso che nessuna legge, anche ben fatta, possa risolvere
questo problema che sta tutto nelle mani e nella saggezza di chi opera quotidianamente
a scuola; può solo se mai favorirlo. Oppure ostacolarlo, come sta capitando
con le riforme in corso. Il primato della relazione nel sapere e nell’apprendere
(che trova sempre più conferme in campo scientifico) oggi sta camminando
con libri come Buone notizie dalla scuola (1998), con progetti politici
come l’autoriforma gentile, a cui lavorano donne e uomini ai quali piace
che il mondo è vario e i sessi sono almeno due. Io vi lavoro da molti
anni e vi porto, per un confronto, le idee che ho principalmente maturato nella
Pedagogia della differenza, un movimento che si è diffuso a macchia d’olio
- alla metà degli anni ’80 - con reti di contatti tra parecchie
insegnanti che pensavano ed operavano in uno stretto intreccio con i luoghi
politici delle donne. L’importanza politica della relazione e il modo
in cui l’intendo, mi viene da lì.
Rispetto agli altri paesi europei, la scuola italiana ha una doppia originalità.
Da una parte è stata percorsa da un dibattito molto vivo, pensiamo ad
es. a figure come don Milani e Maria Montessori, o a movimenti come l’Antiautoritarismo
o Cooperazione educativa, o alle riviste e a luoghi di riflessione tuttora esistenti.
Dall’altra è la più femminilizzata d’Europa e sto
parlando non solo del sorpasso delle studentesse ma anche della presenza delle
insegnanti, non meramente quantitativa, ma tale da produrre in proprio un pensiero
sulla scuola. Le biografie di molte insegnanti, anche della mia, incrociano
i due aspetti e mi permettono di dire che la scuola italiana è stata
più toccata da pratiche relazionali ed esperienze di donne che ne hanno
messo in discussione la struttura gerarchica di origine maschile.
La concezione della scuola intesa come controllo di prestazioni, ma anche di
corpi, di menti, di persone, è stata analizzata molto bene Foucault in
Sorvegliare e punire in cui sostiene che «la scuola è
un sistema gerarchico che risponde a criteri di sorveglianza e controllo, che
costituiscono un ordine disciplinare che regola la scansione temporale e la
disposizione dei corpi nello spazio». Questa analisi è molto lucida,
però non dice fino in fondo che questo tipo di concezione – di
cui troviamo esempi letterari che rievocano collegi disciplinati e militareschi
– è data dall’impronta maschile dell’origine della
scuola stessa: la scuola è stata pensata da uomini per uomini e Foucault
stesso storicamente rintraccia e adombra la derivazione della struttura scolastica
da quella militare.
Questo tipo di insegnamento non funziona più. Nell’Autoriforma
diciamo: Insegnare, imparare è trasformarsi in relazione. Nella qualità
delle relazioni vive prendono misura metodi, attività, conoscenze. E’
una concezione più di impronta femminile e ha introdotto un senso relazionale
dell’insegnamento che eccede il modello basato sulla trasmissione unidirezionale
del sapere e sul controllo delle prestazioni. Oggi è diventato necessario
un dibattito più profondo, che coinvolga anche la società, e sia
un confronto consapevole tra donne e uomini per ripensare da capo la scuola.
La relazione è dirompente se non si separa dal riprendersi la propria
soggettività, dall’essere una soggettività libera. Questo
so dalle pratiche di relazione della differenza a scuole. Sono state legate
al fatto che le insegnanti stesse si riprendevano la loro soggettività
e in questo stesso gesto la riconoscevano ai ragazzi e alle ragazze che avevano
di fronte. Questo stesso gesto rompeva con la trasmissione unilaterale trasformando
l’insegnamento/apprendimento in un rapporto tra soggetti. Se si sta in
un orizzonte di differenza, se si mette in gioco la propria soggettività,
bisogna accettare che l’altro o l’altra è uno sconosciuto.
Alla soggettività e alla relazione sono legate molti aspetti relativi
all’apprendimento: quello più importante, almeno per come io ho
vissuto e praticato l’insegnamento, è il fatto che l’apprendimento
stesso è sempre relazionale. Nessuno di noi può inculcare a forza
nella testa di uno studente o di una studentessa qualche cosa. C’è
apprendimento perché nasce qualche cosa dal di dentro di questo altro
essere umano; in genere è una relazione vissuta in quel momento, ma può
anche essere una relazione con un testo scritto, con un autore, con un’autrice;
il movimento, comunque, parte dall’interno di chi impara. Questo cambia
radicalmente il modo di essere insegnante: l’insegnante non solo ha da
dire, ma ha anche da ascoltare e tenerne conto. Ha la funzione di assistere,
di stare in un rapporto vivo in cui le cose nascono lì mentre nascono.
La relazione, intrinseca alla possibilità di un sapere che non sia una
vuota ripetizione all’infinito, per come viene intesa nella pratica della
differenza, è proprio un capovolgere il rapporto tra razionalità
ed emozione. Nella scuola c’è questo paradigma: quello che è
importante è il razionale. Ultimamente, siccome si dice che questi ragazzi
e queste ragazze non imparano niente, allora si fanno corsi su corsi per vedere
come avvicinarsi, quindi per curare la relazione, però sempre in un modo
strumentale, come mezzo per arrivare al RAZIONALE.
Nella pratica politica delle donne, la questione è rovesciata: io sto
in ascolto delle mie emozioni, parto da quelle, su quelle ragiono con l’idea
non volontaristica che non posso cambiare la realtà ma posso cambiare
il mio rapporto con essa. Il problema è non rifiutare quello che si prova,
ma esserne consapevole e poi decidere: «Mi sento arrabbiatissima, spaccherei
la faccia a quel tale», accetto questa mia emozione? Cosa faccio? A quel
punto mi si aprono delle strade e scelgo.
In questa prospettiva si rivoluzionano i criteri di giudizio, ad esempio su
cosa intendiamo per una buona lezione in classe. Attualmente una lezione in
cui va tutto esattamente come era stato programmato, in genere è più
apprezzata dall’insegnante ed è ritenuta buona. Ma l’ottica
relazionale che capovolge il rapporto ragione/emozioni ci porta invece a dire
che in realtà è una lezione in cui non si è messo in gioco
niente e, da questo punto di vista, per l’insegnante dovrebbe essere un
dato preoccupante: hanno dormito tutto il tempo? Cosa è successo? Mentre
il rovescio, cioè una lezione che presenta un problema, un intralcio
e da quel problema si va da un’altra parte e si apre un altro campo di
discorso, è vissuta normalmente da un insegnante come una lezione faticossima
e fallimentare; invece è una situazione in cui è successo qualche
cosa, in cui c’è stato uno scambio, sia emozionale che razionale,
tra chi insegna e chi impara.
Ugualmente se l’insegnante vuole operare per la convivenza, per l’integrazione
di stranieri e straniere, è meglio che autorizzi alla parola anche tutte
le emozioni negative come la paura, il rifiuto, il disprezzo. Ho provato, ad
esempio, a fare un lavoro di questo tipo e ho scoperto che soprattutto nei confronti
degli zingari e le zingare c’è una paura tremenda nei ragazzini
e nelle ragazzine. Se l’insegnante non autorizza e non fa spazio anche
a questa parte emozionale negativa perché ci si possa pensare e possa
succedere qualche cos’altro, ci si possa aprire a qualche cos’altro,
per esempio alla curiosità verso chi è diverso da noi, la sua
opera educativa si risolve in un cercare di inculcare ideali astratti di solidarietà
che non possono attecchire.
Ciò che più conta nell’educazione non è insegnabile
a parole o, peggio, attraverso regole e norme: non si può insegnare ad
essere civili, non si può insegnare la solidarietà o il rispetto.
Ha bisogno di essere acquisito attraverso l’esperienza viva. Può
nascere da pratiche che si instaurano a scuola e diventano un’abitudine.
Da qui deriva la centralità del rapporto, della relazione nell’insegnamento:
donne ed uomini che instaurano dei rapporti civili; che fanno delle scuole dei
luoghi di convivenza; che danno fiducia ai ragazzi e alle ragazze. Possiamo
essere donne e uomini di scuola che non si nascondono dietro ai programmi, dietro
alle regole, dietro una struttura fossilizzata che è quella che spesso
inceppa alla radice la possibilità di imparare.
Vedi anche: maestra; silenzi, studente (visto da un insegnante); studente (visto da uno studente); tempo.