MAESTRE
Cristina Mecenero, maestra elementare (Settimo Milanese, MI)

Se è vero che il secolo scorso si è chiuso portando con sé il silenzio profondo e continuato delle scuole elementari italiane, con il nuovo millennio le maestre non hanno più continuato a tacere.
Potenza dei cambiamenti che si preparano nelle pieghe non viste di esperienze quotidiane e sociali, sono mesi che le maestre hanno preso parola sulla scuola pubblica elementare. E credo che la messa in discussione radicale della Riforma Moratti stia maturando in una congiunzione in cui sono andati a intrecciarsi anni e anni di sapienti pratiche educative disconosciute e il sentore che la società si stia spostando sempre più verso tempi e spazi dimentichi dell’infanzia, della cura, del valore delle piccole cose. Noi, le “operaie del sociale”, che per anni abbiamo lavorato al buio e in silenzio, siamo scese in piazza, abbiamo invaso la Rete, abbiamo tenuto assemblee, per dire no a questa riforma. E insieme alle bambine e ai bambini e ai loro genitori stiamo dicendo pubblicamente in varie situazioni perché la scuola elementare funziona.
Io lo dico così: la scuola elementare funziona perché le maestre non praticano il mestiere ad arte, lo praticano con arte.
Le maestre non c’entrano quasi niente coll’essere professioniste. Le maestre sono molto di più. E molto di meno. Ed è attraverso questo più e questo meno che le maestre lasciano passare gli entusiasmi, i coinvolgimenti e l’esserci che distingue l’essenza del nostro lavoro da quello di chi insegna negli altri ordini di scuola.
A guardarci dalla posizione dei riformatori e del modello ideale e moderno di insegnante, noi maestre siamo sempre apparse de-formate. Intere generazioni non laureate – cioè non acculturate avendo asceso la scala della formazione fino al massimo grado – e umili operatrici di una professione ritenuta dai più semplice – insegnare l’abc ai bambini. De-formate perché mai veramente istruite a dovere e perturbate dalle conoscenze legate alla relazione e alla familiarità del rapporto quotidiano con bambine e bambini: nella questione della de-formazione faccio rientrare tutto il campo finora poco esplorato della cura educativa che molte di noi hanno agito come nesso tra la razionalità pedagogica e la pratica didattica quotidiana (Palmieri, 2000). E de-formate perché per molto tempo lo sguardo accademico che si è posato su di noi ci ha rese invisibili, coprendoci letteralmente con teorie e interpretazioni pseudo-neutre che hanno reso inesistente il fatto che per più del novantacinque per cento siamo donne e che nell’andare verso le bambine e i bambini abbiamo attinto al nostro sapere umano più che a una formazione specialistica, e quindi alle conoscenze emotive e soggettive su cui abbiamo strutturato la modalità di scambio esistenziale che è la condizione necessaria per fare scuola con i più piccoli.
Le nostre voci ora stanno contribuendo al passaggio che si può avere dall’esperienza diretta al sapere, e cioè al passaggio dall’esperienza di stare vicino all’inizio (all’inizio dei percorsi, all’inizio della vita, all’esperienza più che alla teoria) al sapere che può derivarne e di cui potrebbe fare tesoro la società.
Gregory Bateson conclude uno dei suoi libri con una domanda: come insegnanti siamo saggi? Io dico che sì, come maestre siamo sagge.
E poichè abbiamo finalmente rotto il silenzio, ora invitiamo tutto il resto della società ad ascoltarci.
I bambini non chiedono a noi un portfolio, o attività opzionali, o di essere tutorati: chiedono a noi di esserci, prima di tutto, stando lì al loro fianco, presenti con tutto il carico e la leggerezza della nostra e della loro storia. Quell’esserci è un elemento strutturale della relazione a scuola con i bambini e le bambine. Sentirsi chiamate in causa: è questo che per noi ne consegue, e di questa chiamata a esserci fa parte anche la fatica del fare la maestra. Per esserci a fianco dell’infanzia, abbiamo fatto scuola finora sporcandoci le mani, nei laboratori, nelle attività teatrali, nelle invenzioni del momento, nei pasticci dei bambini.
Le maestre sono donne che si sporcano le mani. Si sporcano le mani per il sapere. Per accompagnare le creature piccole a padroneggiare alcuni strumenti della nostra cultura. E’ indispensabile sporcarsi le mani se si è maestre, perché la materialità, la corporeità, la fisicità – della materia, in senso lato e duplice, della voce, del contatto, dello sguardo – sono la dimensione delle bambine e dei bambini con cui stiamo per quattro o sei ore al giorno per cinque anni. Con le mani manteniamo un contatto intelligente con l’esperienza, e ciò che guadagniamo dall’esperienza lo manipoliamo subito dopo per farlo diventare di nuovo materia, come quando si cucina. Ed è di questa pasta che è fatto il nostro sapere.
Siamo operaie del sociale: in questa metafora c’è tutta la tensione che si gioca intorno alla passione esistenziale che mettiamo nelle cose elementari che facciamo con le bambine e i bambini e al contraddittorio riconoscimento collettivo che investe la nostra professione. Operaie: assumere il ruolo magistrale istituzionale significa entrare a fare parte di un circuito in cui la richiesta prevalente è di essere esecutrice, operatrice dei piani di ingegneria pedagogica elaborati da “menti in grado di farlo”. Sociale rimanda al lavoro di civiltà, di cura affettiva e intellettuale che tanta parte ha nei gesti quotidiani di noi maestre con le bambine e i bambini delle nostre classi.
C’è un vizio di fondo che attraversa lo scenario delle mosse dei riformatori dei vari schieramenti che si sono succeduti negli ultimi anni: la cornice sociale e intellettuale nella quale è inserito il mestiere di insegnante, soprattutto nei gradi più bassi della scolarità, non prevede che le intuizioni di chi insegna siano cariche dell’immaginazione e dell’inventività che possono contribuire alla riflessione e alla ricerca. Il nostro sapere pratico è considerato troppo basso e prosaico e manca l’interesse a interrogarlo. Soprattutto verso le scuole materne e elementari, piene di donne, l’atteggiamento è di sdegnosa indifferenza. Pensate che qualcuno si sia preso la briga di considerarci un soggetto di interlocuzione adatto a pensare e a fare da sponda a un progetto di cambiamento della scuola di base?
In gioco c’è molto di più che la concezione stessa del sapere pratico e del suo rapporto con il sapere teorico. Siamo in grado di considerare seriamente le maestre come vere esperte di una pratica? Al punto da pensare che estrometterle dal processo di riflessione su una nuova scuola possa generare una perversione del sapere teorico e una svalorizzazione dell’esistente tale da comportare un danno strutturale a tutto l’impianto educativo e pedagogico che si crede di sostenere e promuovere?
Eppure lo dice proprio il nostro nome: siamo maestre, avete da noi qualcosa da imparare!
La nuova proposta di riforma scardina alcune di quelle condizioni che negli ultimi trent’anni hanno fatto sì che noi maestre elementari facessimo una buona scuola. Tutor, frantumazione dei tempi e forse anche del gruppo classe, anticipo, abrogazione del tempo pieno: ciò che portano con sé queste “novità” sono un’idea di base, una prospettiva che taglia con ciò che abbiamo fatto fino a ora, come se non ci fossero veramente bambini e bambine che ancora oggi sono quello che sono e cioè appartenenti a quella fase della vita che ha delle caratteristiche tutte e sue e non si può ridurre ad altro, se non a costi umani altissimi.
Il tempo pieno è lo strumento che abbiamo accordato in questi trent’anni per fare una buona scuola e per vivere bene a scuola. Ci ha permesso di stare nell’eredità delle grandi sperimentazioni degli anni Sessanta e Settanta, imparando il senso della condivisione, della collegialità, del fare pratico, del fare immaginativo, del lasciare spazio al corpo.
A partire da quell’eredità negli anni ho visto le maestre che siamo continuare nella scelta della collaborazione, di grandi eventi culturali, legati all’interculturalità, alla pace, alla presa di consapevolezza di chi si è e chi sono gli altri e cosa possiamo fare insieme. Tutti eventi organizzati coinvolgendo decine e decine di bambini e genitori, non più io credo per adesione a una visione del mondo che aveva una traduzione in un movimento politico, ma per risonanza.
Risonanza a che cosa? Io credo che abbiamo sentito risonanza con il nostro compito di stare vicino all’inizio.
Stare vicino all’inizio sembra facile, ma non lo è. Perché? Perchè presuppone di rimanere in contatto con le cose essenziali, di base. Significa accompagnare le bambine e i bambini in un percorso in cui si giocano cose elementari, ma che appartengono all’ordine delle fondamenta, cose intorno alle quali tutto si ordina, prende senso e progredisce. Cose da poco? Chi ha il coraggio di dirlo… eppure per la nostra società sapere stare vicino all’inizio è tutto fuorché interessante.
Per praticare un mestiere come il nostro, un mestiere che ha un profondo significato sociale e culturale, abbiamo bisogno di uno spazio simbolico e concreto. Lo spazio che si crea intorno alla collegialità, alla collaborazione, alla corresponsabilità, allo stare nel tempo presente con senso e saggezza, con senso e affetto, per dare una buona forma alla scuola e alla vita delle bambine e dei bambini.

Vedi anche: relazione, tempo, tempo pieno