Se è vero che il secolo scorso si è chiuso portando
con sé il silenzio profondo e continuato delle scuole elementari italiane,
con il nuovo millennio le maestre non hanno più continuato a tacere.
Potenza dei cambiamenti che si preparano nelle pieghe non viste di esperienze
quotidiane e sociali, sono mesi che le maestre hanno preso parola sulla scuola
pubblica elementare. E credo che la messa in discussione radicale della Riforma
Moratti stia maturando in una congiunzione in cui sono andati a intrecciarsi
anni e anni di sapienti pratiche educative disconosciute e il sentore che la
società si stia spostando sempre più verso tempi e spazi dimentichi
dell’infanzia, della cura, del valore delle piccole cose. Noi, le “operaie
del sociale”, che per anni abbiamo lavorato al buio e in silenzio, siamo
scese in piazza, abbiamo invaso la Rete, abbiamo tenuto assemblee, per dire
no a questa riforma. E insieme alle bambine e ai bambini e ai loro genitori
stiamo dicendo pubblicamente in varie situazioni perché la scuola elementare
funziona.
Io lo dico così: la scuola elementare funziona perché le maestre
non praticano il mestiere ad arte, lo praticano con arte.
Le maestre non c’entrano quasi niente coll’essere professioniste.
Le maestre sono molto di più. E molto di meno. Ed è attraverso
questo più e questo meno che le maestre lasciano passare gli entusiasmi,
i coinvolgimenti e l’esserci che distingue l’essenza del nostro
lavoro da quello di chi insegna negli altri ordini di scuola.
A guardarci dalla posizione dei riformatori e del modello ideale e moderno di
insegnante, noi maestre siamo sempre apparse de-formate. Intere generazioni
non laureate – cioè non acculturate avendo asceso la scala della
formazione fino al massimo grado – e umili operatrici di una professione
ritenuta dai più semplice – insegnare l’abc ai bambini. De-formate
perché mai veramente istruite a dovere e perturbate dalle conoscenze
legate alla relazione e alla familiarità del rapporto quotidiano con
bambine e bambini: nella questione della de-formazione faccio rientrare tutto
il campo finora poco esplorato della cura educativa che molte di noi hanno agito
come nesso tra la razionalità pedagogica e la pratica didattica quotidiana
(Palmieri, 2000). E de-formate perché per molto tempo lo sguardo accademico
che si è posato su di noi ci ha rese invisibili, coprendoci letteralmente
con teorie e interpretazioni pseudo-neutre che hanno reso inesistente il fatto
che per più del novantacinque per cento siamo donne e che nell’andare
verso le bambine e i bambini abbiamo attinto al nostro sapere umano più
che a una formazione specialistica, e quindi alle conoscenze emotive e soggettive
su cui abbiamo strutturato la modalità di scambio esistenziale che è
la condizione necessaria per fare scuola con i più piccoli.
Le nostre voci ora stanno contribuendo al passaggio che si può avere
dall’esperienza diretta al sapere, e cioè al passaggio dall’esperienza
di stare vicino all’inizio (all’inizio dei percorsi, all’inizio
della vita, all’esperienza più che alla teoria) al sapere che può
derivarne e di cui potrebbe fare tesoro la società.
Gregory Bateson conclude uno dei suoi libri con una domanda: come insegnanti
siamo saggi? Io dico che sì, come maestre siamo sagge.
E poichè abbiamo finalmente rotto il silenzio, ora invitiamo tutto il
resto della società ad ascoltarci.
I bambini non chiedono a noi un portfolio, o attività opzionali, o di
essere tutorati: chiedono a noi di esserci, prima di tutto, stando lì
al loro fianco, presenti con tutto il carico e la leggerezza della nostra e
della loro storia. Quell’esserci è un elemento strutturale della
relazione a scuola con i bambini e le bambine. Sentirsi chiamate in causa: è
questo che per noi ne consegue, e di questa chiamata a esserci fa parte anche
la fatica del fare la maestra. Per esserci a fianco dell’infanzia, abbiamo
fatto scuola finora sporcandoci le mani, nei laboratori, nelle attività
teatrali, nelle invenzioni del momento, nei pasticci dei bambini.
Le maestre sono donne che si sporcano le mani. Si sporcano le mani per il sapere.
Per accompagnare le creature piccole a padroneggiare alcuni strumenti della
nostra cultura. E’ indispensabile sporcarsi le mani se si è maestre,
perché la materialità, la corporeità, la fisicità
– della materia, in senso lato e duplice, della voce, del contatto, dello
sguardo – sono la dimensione delle bambine e dei bambini con cui stiamo
per quattro o sei ore al giorno per cinque anni. Con le mani manteniamo un contatto
intelligente con l’esperienza, e ciò che guadagniamo dall’esperienza
lo manipoliamo subito dopo per farlo diventare di nuovo materia, come quando
si cucina. Ed è di questa pasta che è fatto il nostro sapere.
Siamo operaie del sociale: in questa metafora c’è tutta la tensione
che si gioca intorno alla passione esistenziale che mettiamo nelle cose elementari
che facciamo con le bambine e i bambini e al contraddittorio riconoscimento
collettivo che investe la nostra professione. Operaie: assumere il ruolo magistrale
istituzionale significa entrare a fare parte di un circuito in cui la richiesta
prevalente è di essere esecutrice, operatrice dei piani di ingegneria
pedagogica elaborati da “menti in grado di farlo”. Sociale rimanda
al lavoro di civiltà, di cura affettiva e intellettuale che tanta parte
ha nei gesti quotidiani di noi maestre con le bambine e i bambini delle nostre
classi.
C’è un vizio di fondo che attraversa lo scenario delle mosse dei
riformatori dei vari schieramenti che si sono succeduti negli ultimi anni: la
cornice sociale e intellettuale nella quale è inserito il mestiere di
insegnante, soprattutto nei gradi più bassi della scolarità, non
prevede che le intuizioni di chi insegna siano cariche dell’immaginazione
e dell’inventività che possono contribuire alla riflessione e alla
ricerca. Il nostro sapere pratico è considerato troppo basso e prosaico
e manca l’interesse a interrogarlo. Soprattutto verso le scuole materne
e elementari, piene di donne, l’atteggiamento è di sdegnosa indifferenza.
Pensate che qualcuno si sia preso la briga di considerarci un soggetto di interlocuzione
adatto a pensare e a fare da sponda a un progetto di cambiamento della scuola
di base?
In gioco c’è molto di più che la concezione stessa del sapere
pratico e del suo rapporto con il sapere teorico. Siamo in grado di considerare
seriamente le maestre come vere esperte di una pratica? Al punto da pensare
che estrometterle dal processo di riflessione su una nuova scuola possa generare
una perversione del sapere teorico e una svalorizzazione dell’esistente
tale da comportare un danno strutturale a tutto l’impianto educativo e
pedagogico che si crede di sostenere e promuovere?
Eppure lo dice proprio il nostro nome: siamo maestre, avete da noi qualcosa
da imparare!
La nuova proposta di riforma scardina alcune di quelle condizioni che negli
ultimi trent’anni hanno fatto sì che noi maestre elementari facessimo
una buona scuola. Tutor, frantumazione dei tempi e forse anche del gruppo classe,
anticipo, abrogazione del tempo pieno: ciò che portano con sé
queste “novità” sono un’idea di base, una prospettiva
che taglia con ciò che abbiamo fatto fino a ora, come se non ci fossero
veramente bambini e bambine che ancora oggi sono quello che sono e cioè
appartenenti a quella fase della vita che ha delle caratteristiche tutte e sue
e non si può ridurre ad altro, se non a costi umani altissimi.
Il tempo pieno è lo strumento che abbiamo accordato in questi trent’anni
per fare una buona scuola e per vivere bene a scuola. Ci ha permesso di stare
nell’eredità delle grandi sperimentazioni degli anni Sessanta e
Settanta, imparando il senso della condivisione, della collegialità,
del fare pratico, del fare immaginativo, del lasciare spazio al corpo.
A partire da quell’eredità negli anni ho visto le maestre che siamo
continuare nella scelta della collaborazione, di grandi eventi culturali, legati
all’interculturalità, alla pace, alla presa di consapevolezza di
chi si è e chi sono gli altri e cosa possiamo fare insieme. Tutti eventi
organizzati coinvolgendo decine e decine di bambini e genitori, non più
io credo per adesione a una visione del mondo che aveva una traduzione in un
movimento politico, ma per risonanza.
Risonanza a che cosa? Io credo che abbiamo sentito risonanza con il nostro compito
di stare vicino all’inizio.
Stare vicino all’inizio sembra facile, ma non lo è. Perché?
Perchè presuppone di rimanere in contatto con le cose essenziali, di
base. Significa accompagnare le bambine e i bambini in un percorso in cui si
giocano cose elementari, ma che appartengono all’ordine delle fondamenta,
cose intorno alle quali tutto si ordina, prende senso e progredisce. Cose da
poco? Chi ha il coraggio di dirlo… eppure per la nostra società
sapere stare vicino all’inizio è tutto fuorché interessante.
Per praticare un mestiere come il nostro, un mestiere che ha un profondo significato
sociale e culturale, abbiamo bisogno di uno spazio simbolico e concreto. Lo
spazio che si crea intorno alla collegialità, alla collaborazione, alla
corresponsabilità, allo stare nel tempo presente con senso e saggezza,
con senso e affetto, per dare una buona forma alla scuola e alla vita delle
bambine e dei bambini.
Vedi anche: relazione,
tempo,
tempo pieno