TEMPO
Renata Puleo (Roma)

Il tempo è relativo. Legato com’è alla dimensione spaziale e alla velocità. Ci dicono che un uomo in un’altra galassia potrebbe vivere centinaia dei nostri anni terrestri. Ma questo aspetto, che pure noi possiamo intuire - come capitò ad Ipazia nel terzo secolo pur senza l’aiuto degli strumenti di Einstein! – lo possiamo con qualche attenzione anche sperimentare nel quotidiano.
Quando una creatura piccola gioca, tutta presa dallo spazio concluso del gioco stesso, il suo tempo non appartiene più al normale fluire della giornata. La memoria che resta di questo evento è corporea. Percezione, senza elaborazione cosciente. Le rappresentazioni spaziali con cui “vediamo” il tempo, la durata, lo scorrimento, servendoci nel farlo di punti, di linee, d
i segmenti, lo rendono impensabile, cioè lontano dalla nostra intima visione. Per contro se cerchiamo di dare forma al tempo a cui pensiamo, non ci soccorrono rappresentazioni. E’ irrapresentabile (Guillaume; Agamben; Virno). I tempi verbali che tutte le lingue utilizzano, pur in realizzazioni formali differenti, hanno un segmento per il passato, uno per il futuro e in mezzo il “taglio” del tempo presente. Ma questa rappresentazione è insufficiente perché…troppo perfetta! Essa ci presenta un tempo sempre già costruito, ma non ci mostra il tempo in atto di costruirsi nel nostro pensiero: il tempo che la mente impiega per realizzare una immagine-tempo. La mancanza di temporalità lineare è tipica dell’inconscio rispetto a quella spazializzata della coscienza. L’attuale ricerca sulle cosiddette soglie percettive conferma che è come se esistessero due sistemi per processare il tempo. Il primo è di ordine discreto, apre delle finestre a cui si affacciano le nostre esperienze percettive. Il secondo ha il compito di integrarle in una relazione prima/dopo. Ma, la processazione del tempo continua a rimanere discontinua e l’orologeria neuronale è di tipo ciclico e oscillatorio. Ci hanno insegnato che nel passaggio fra le varie fasi di formazione del pensiero astratto, un tappa importante è proprio quella legata alla progressiva perdita, intorno all’undicesimo anno, sia del tempo intuitivo, senza rappresentazione della durata indipendente dalla qualità degli eventi, sia di quello eccessivamente realistico, bloccato al dato percettivo e motorio (Piaget). L’educazione accompagna la maturazione del bambino verso un sistema simbolico operatorio, astratto, reversibile. Ma dove collocare il “resto”? Ciò che rimane sfasato, la non coincidenza fra “l’essere” e la rappresentazione del tempo? La sconnessione avvertita e poi abbandonata per il tempo di Cronos, degli orologi e dei calendari, spiega il ritmo punteggiato del tempo infantile, spesso irriducibile alle regole e alle convenzioni sociali. Questa lettura ci da ragione anche del tempo degli uomini e delle donne adulte, colti quando vivono nel labirinto dei flussi di coscienza, delle sue alterazioni, simili a quelle delle creature piccole, che però non se ne preoccupano affatto. Adulti che non riescono a stare “nei” tempi, che deviano e non sanno che fare né della estrema flessibilizzazione delle loro giornata, né della estrema macchinazione. Unificati, come accade per la lingua, dall’empasse degli scarti, da ciò che non è perfettamente assimilabile, che rimane fuori dal mondo ordinato della razionalità, dalla perfetta sintonia fra significante e significato. Se il tempo ci serve per tenere salda la ragione, la relatività e la infinità ci richiamano alla sua intima struttura di costruzione culturale. Un esempio, tratto dall’immaginario collettivo, si trova nel film “Essere e avere” di Nicolas Philiber. E’ un film che vuol rendere conto di qualcosa mentre quel qualcosa avviene, anche alla troupe che sta girando. La connessione fra essere e avere implica il tempo, il tempo in cui maturano le esperienze in cui si cresce, proprio perché si impara. Il tempo come pazienza, il tempo come ascolto, come vuoto e come silenzio dell’attesa che qualcosa accada. Il tempo che dà il ritmo della fragilità dell’agire umano ma anche della libertà di essere resilienti (immodificabili agli urti) eppure attivi e cangianti. Nel film, non a caso la Natura con il suo ciclo e la tartaruga come incipit, sono la metafora del tempo e della pazienza necessaria ad apprendere. Si riflette sul tema del passaggio e della crisi, della perdita e della ripresa ottenuta ricucendo, rammendando i fili spezzati dalla sofferenza, nonchè la conquista di nuove, provvisorie, postazioni.Un disegno non finito, la malattia come stasi e come mutazione, l’insufficienza mentale come differente percezione del mondo.
Veniamo alla ricaduta pratica, forse utile per un ragionamento sul tempo–scuola, di queste riflessioni.
Mentre discutiamo di quanto tempo serve alle discipline, e lo facciamo ormai da anni, su quanto tempo dedicare al pranzo e al dopopranzo, sul tempo delle mamme indaffarate nelle famose sessanta ore di lavoro settimanale…mentre tentiamo di rintuzzare i detrattori della scuola che sottrae bambine e bambini ad un presunto tempo liberato delle famiglie, che vorrebbero dedicarsi alle attività vocazionali dei figli, che aborriscono una scuola stile kibbutz, chi si chiede cosa serve ad un bambino per stare bene, a scuola, a casa? Chi si chiede come accompagnare il suo saper essere, oltre e di più, del suo saper fare?
Anche nel testo programmatico del ministro Berlinguer, straordinariamente raffinato rispetto alle attuali produzioni, il tempo era maltrattato. Se ne parlava molto, ma veniva maneggiato come un concetto banale, abbandonato alle accezioni del suo uso quotidiano. Compaiono la parola tempo, e alcune sue declinazioni semantiche, in almeno tre snodi di senso. Nel primo, come fattori della organizzazione: durata della scuola, ore di insegnamento delle discipline e degli ambiti. Nel secondo, come tempo della esperienza di apprendimento, dei suoi “campi”, traguardo di sviluppo, ritmi e cicli della formazione in età evolutiva e permanente. Nel terzo, momenti “fermi” (sic) della didattica, declinati puntigliosamente in spiegazione-ascolto-riflessione-rielaborazione-discussione e “altri” (sic) di “decisa operatività”. Forse in questo terzo snodo logico si può intuire un discorso sui tempi umani e sui tempi delle creature piccole. Ma nelle pagine e pagine di riflessioni sulla necessità di superare ciò che è obsoleto - ancora un intrigante concetto temporale! – sull’importanza di educare le nuove generazioni al tempo rapido della produzione, non c’è una sola parola sulla temporalità dei bambini, degli adolescenti, degli adulti imprigionati nel “migliore dei mondi possibile”. Adulti e creature piccole catturati dalla tecnologia fattasi ambiente, contesto saturo, in cui malleabilità e conservazione, dotazioni prettamente umane, rischiano il soffocamento
Qualche parola sul pensiero della differenza femminile. Fatte salve le distinzioni anche qui fra generazioni e culture, il tempo delle donne non perde mai di vista il corpo e la relazione fisica, in presenza, con l’altra/o da sé. Una riflessione su tempo e amore, ci dice che per gli uomini il momento vitale, cosciente, attivo, la terra promessa, è il lavoro. Ad esso commisurano il loro tempo di vita. Rapporti con la casa, i figli, la donna amata sono pause, pause dal lavoro. Molto spesso anelate, desiderate, ma pur sempre vacanza – uno spazio vuoto – dal lavoro. L’immagine che l’uomo ha di sé è fuori dal rapporto, mentre la donna vive se stessa “nel” rapporto.(Lonzi; Mapelli). La donna conosce il bisogno che ha dell’altra/o, l’uomo vede crescere se stesso, in autonomia. Almeno così deve pensarsi. E’ ovvio che questo articola modalità diverse di vivere i tempi dell’amore e della relazione. La donna conosce l’attesa. Sa aspettare, perché il suo corpo aspetta la mestruazione ciclica; conosce la fine della gestazione e il distacco; conosce i tempi – che paiono talvolta non finire mai! - della cura prodigata all’inermia infantile. Una donna conosce la frattura provocata dall’uscita dall’età procreativa segnata nel corpo e alla quale è impossibile non pensare, come invece può accadere ad un maschio. La donna conosce il tempo di vita quotidiano come centralità delle piccole azioni indispensabili al mantenimento della vita altrui, ne conosce il sovraccarico e l’invasività. Il tempo delle donne intreccia la temporalità infantile. Nel tempo destinato alla cura, donne e creature piccole vivono insieme le esperienze tipiche della neotenia. Essa è la specialità umana di non essere specializzati, bensì versatili, capaci di apprendimento, aperti al nuovo (Gehlen). Il timing dell’allattamento, del ritmo sonno-veglia, dello svezzamento, come pratiche animali eppure sempre contrassegnate simbolicamente dal desiderio reciproco di stare in relazione, di mangiare per amore dell’altra, di dar cibo per desiderio di vedersi al centro di quella riconoscenza, nel senso più ampio del termine. L’apprendimento della Lingua Materna, anche qui questione di tempi, ritmi, scansioni, pieni, vuoti, suono e silenzio. A scuola, la massiccia presenza femminile, tiene ancora intrecciati cura, tempo, lingua. Anche quando ce n’è scarsa consapevolezza. Una buona Maestra non ha fretta, asseconda il tempo dell’attesa. Non è ossessionata dal risultato, ma si stupisce sempre quando raggiunge un traguardo di conoscenza, costruito insieme ai bambini.

Vedi anche: maestra; relazione; tempo pieno .