Come sono gli studenti oggi, nessuno lo sa davvero.
Si sa che sono un casino. Membri di un’altra tribù - quella forse
della famosa «terza fase», che conosce sempre meno la forma-libro,
concatenazione ordinata e sequenziale del ragionamento che richiede un’attenzione
concentrata: sono (sembrano essere) per l’ibridazione, l’ipertesto,
la simultaneità.
Provate a guardarli, non dico a scuola (dove spesso mandano le loro disciplinate
controfigure studentesche) ma al cinema: riescono a seguire il film e insieme
parlare sottovoce con chi è vicino, telefonare o rispondere al cellulare,
andare al bar, «messaggiarsi» con chi è lontano. Da non si
interrompe un’emozione al non si interrompe la comunicazione. E non c’è
più alcuna sacralità del testo.
Il gruppo dei pari è fondamentale: quasi una famiglia propria, di soli
fratelli e sorelle. Protettiva, nell’epoca dell’incertezza generale,
della società liquida dove tutto è mobile e precario (a partire
dal lavoro, un tempo cuore dell'identità). Dove la speranza di grandi
cambiamenti sembra tramontata.
Ha scritto Marco Lodoli della generazione anni 70 che «tutti in una cabina,
avevano un gettone solo e volevano chiamare dio»; loro hanno sempre »poche
tacche» o «poco credito», e dio potrebbe avere il cellulare
spento o irraggiungibile...
Anche nelle «occupazioni» la politicità più autentica
della scuola spesso sembra scomparire (tempo e ritmi e contenuti della «macchina«,
miseria e nobiltà delle relazioni di scuola) sostituita dalla banale
imitazione, in qualche volantino scopiazzato da altri, della Grande Politica
Adulta.
Noi insegnanti siamo il gruppo dei dispari, asimmetrici - quando riusciamo a
non essere patetici eterni adolescenti. Se va bene funzioniamo, mi sembra, come
una specie di sponda, triangolazione che crea un contesto, una struttura, un
set.
Verso quel contesto, comunque, si sente una specie di odio-amore che segnala
come quella «zona di vita» sia significativa. Perché ci si
annoia, certo, e si soffre a scuola - soprattutto nelle scuole superiori temo
(e soprattutto i maschi, in crisi spesso con l’apprendimento e con se
stessi).
Un mare di pagine e voti, discipline e scadenze e orari avvolgono tutti e tutte.
E debiti crediti certificazioni. Portfolii. Una «pedagogia nera»
docente, da micropotere vendicativo (la canalizzazione precoce della Moratti
esercita una inconfessabile attrattiva sui molti che sognano di potersi liberare,
magari «per recuperarli» in scuole coerenti con le loro «vocazioni»,
dei «quasi adatti»: quelli cioè che in classe rompono…).
Rispetto a questa scuola ragazze e ragazzi mi sembra che imparino presto a galleggiare
senza troppi danni, riservando se stessi per altro, altrove. All'istituzione
finiscono per chiedere «il diploma», in un certo senso legittimati
dall’aver subito tutta la megamacchina così com’è;
basta che poi non chieda più della restituzione burocratica di pagine
e capitoli. Che disciplini magari i corpi e le menti, ma non rompa l’anima.
Quella la tengono per sé.
Ma dall’altro lato mi sembrano anche chiedere di più: qualcos’altro
fuori dell’orario della classe, e di altro «registro». Allora
paradossalmente diventa difficile (almeno per me «maschio adulto»,
come dicono in «E.R.») ritrovare un set giusto, fuori dall’istituzione
che imprigiona ma filtra, distillando sentimenti dalla forma intellettuale già
sperimentata e meno «pericolosa». Forse ragazze e ragazzi cercano
quella specie di sponda, confine e contesto, di cui dicevo; un punto di riferimento
perfino per delle passioni personali (che non ti aspetteresti); ti chiedono
di consigliargli dei libri, di continuare a vedersi anche finita la scuola.
Per parlare liberamente precisano.
Nella libertà (quella che Moratti-Bertagna cancellano in nome della retorica
di una personalizzazione in realtà organicistica) è un possibile
dialogo.
Difficile ma capace di dare un po’ di senso - e di felicità magari
- a ragazze ragazzi, adulti e adulte.
Perfino a noi insegnanti.
Vedi anche: classe
(vista da una insegnante), classe(vista
da una studentessa), spazio
pubblico, studenti
(visti da uno studente)