L’inserimento dei bambini portatori di handicap è
uno dei segni, forse il più forte, della qualità che la scuola
italiana ha raggiunto per la spinta innovativa delle lotte sindacali, sociali,
culturali e politiche degli anni ’70 del secolo scorso.
Lo è perché l’inserimento ha a che fare con i diritti, con
l’idea di persona, con l’attenzione all’individuo, al singolo.
In questo senso l’integrazione è una garanzia per tutti, una sfida
quotidiana al rispetto dell’identità ed al riconoscimento dell’uguaglianza.
Inserire questi bambini nella scuola di tutti vuol dire prima di tutto riconoscerli
come persone, in qualche modo sfidare la malattia, accettare la sfida della
malattia e rifiutare di costituire a priori una categoria di cittadini sbagliati,
definiti esclusivamente come ammalati e descritti attraverso ciò che
non sanno fare, misurati sulla “non abilità”.
Inserirli nella scuola ha voluto dire la sfida dell’educabilità,
della stessa capacità del nostro sistema educativo non tanto e non solo
di accogliere questi “bambini sfortunati”, ma di educarli, di condurli
sulla strada del miglioramento delle loro capacità individuali, accettandone
i limiti. Ma intanto imparando a leggere, imparando a cogliere quelle che erano
le loro capacità, il loro saper fare, sia pur residuo, in una società
tendenzialmente capace di coglierli solo come “giocattoli rotti”,
da provare ad aggiustare o mantenere, a cui prestare cure (non sempre), dare
assistenza (neanche troppa), ma non guardare dal punto di vista della potenzialità,
dell’educabilità.
Oltre la visione medica e la visione assistenziale, che tendenzialmente oggettivizzano
la persona, la visione educativa afferma, dovrebbe affermare, l’esistenza
stessa di un soggetto di capacità, di qualità, di valori, di diritti.
E’ questa l’enorme sfida pedagogica e sociale che la scuola e la
società italiana si sono assunte con le lotte dure e prolungate degli
anni ’70.Praticamente unici nel panorama scolastico europeo e mondiale.
Ed è stata una sfida estrema, politica, sociale e pedagogica, una sfida
che ha prodotto risultati di enorme rilevanza proprio perché la presenza
di bambini che ponevano, anche fisicamente, una tale richiesta di attenzione,
ha costretto le scuole e gli insegnanti più attenti a richiedere formazione,
ricerca e sperimentazioni che hanno prodotto una ricchezza ricaduta su tutti.
E la presenza di questi bambini, l’attenzione a loro necessariamente prestata,
ha portato ad aumentare l’attenzione verso tutti, a scoprire o riscoprire
aspetti educativi di base sottovalutati o non considerati. L’attenzione
alla globalità, alla corporeità, l’affettività, l’emozionalità,
la complessità e la necessità dell’attenzione alla Comunicazione
Non Verbale, il valore del gioco.
L’inserimento dei bambini con handicap ha costretto la scuola italiana
a costruire il più colossale laboratorio di sperimentazione pedagogica
che un sistema scolastico abbia messo in piedi.
Senza strumenti e senza risorse.
L’attenzione al corpo, la necessità di modificare i tempi, di adattare
gli spazi, di pensare la relazione, di individuare le capacità piuttosto
che investigare le carenze, di considerare le emozioni, di dare spazio all’affettività,
sono non casualmente gli stessi valori, le stesse scoperte, le stesse qualità
che hanno accompagnato la nascita e lo sviluppo dell’esperienza del Tempo
Pieno, inteso qui come scuola di tutti, capace nel tempo di giungere a cercare
di far vivere il valore dell’uguaglianza come accettazione e valorizzazione
della diversità ed in questo modo diventare strumento di integrazione
delle diversità fisiche, sociali, culturali ed etniche.
Uno strumento sociale raffinato nelle mani di una società in via di costante
trasformazione e sempre sull’orlo della disgregazione.
Tempo Pieno ed Inserimento sono indissolubili, uno non si regge senza l’altro
e la società perde valore senza di essi.
Vedi anche:comunicazione
efficace, tempo
pieno,