La prima, elementare, definizione di comunicazione è
"trasferimento di informazioni da un emittente ad un ricevente a mezzo
di messaggi".
Questa definizione è formalizzata nel 1949 da Shannon a Wear, due scienziati
americani che lavorano ai laboratori Bell e si occupano di circuiti telefonici.
Appare evidente che questo modello non tiene conto di molte variabili, che sono
essenziali per comprendere perché, come, con quale efficacia avviene
il processo di comunicazione. Ad esempio:
? L'emittente chi è, che cultura ha, che scopi ha?
? Il ricevente chi è, che cultura ha, che cosa si attende dall'emittente,
che "immagine" ha di lui?
? L'ambiente in cui avviene la comunicazione di che tipo è? E' partecipe
o neutrale? I valori, le attese, gli atteggiamenti di chi è "intorno",
quali sono e come influiscono nel modificare, distorcere, ridurre ed evidenziare
i contenuti della comunicazione?
Sono tutti quesiti che rimandano a precisi campi di studio
ed analisi.
A questo proposito una particolare attenzione deve essere dedicata al problema
di accettarsi di conoscere la cultura del ricevente. Infatti, accade meno infrequentemente
di quanto si creda che il comunicatore (emittente) sviluppi un processo di comunicazione
nella convinzione di essere compreso dal ricevente (destinatario), mentre il
messaggio viene da quest'ultimo non compreso o completamente distorto, dando
luogo a fraintendimenti disastrosi, per cui il bianco diventa nero e viceversa.
Il problema di farsi capire, quindi, non è semplicemente un problema
di codice linguistico (se uno mi parla in cinese o in giapponese, lingue che
io ignoro, non lo capirò mai): è anche un problema di codice culturale.
Domanda: quante volte ciascuno di noi ha usato parole, concetti, locuzioni, che molto probabilmente il nostro interlocutore non ha compreso?
UNA RIVOLUZIONE
E' però nel 1967 che avviene la "rivoluzione copernicana" negli
studi sulla comunicazione. In quell'anno lo psicologo Watzlawick e altri suoi
colleghi della "Scuola di Palo Alto" pubblicano un volume, "Pragmatica
della comunicazione umana", in cui si afferma:
C'è una proprietà del comportamento che difficilmente
potrebbe essere più fondamentale e, proprio perché troppo ovvia,
viene spesso trascurata: il comportamento non ha un suo opposto. In altre parole
non esiste qualcosa che sia "non comportamento" o, per dirla ancora
più semplicemente, non è possibile non avere un comportamento.
Ora, se si accetta che l'intero comportamento, in una situazione di interazione,
(tra persone, esseri viventi, ecc.) abbia valore di messaggio, vale a dire è
comunicazione, né consegue che, comunque ci si sforzi, non si può
non comunicare.
L'attività o l'inattività, le parole o il silenzio, hanno tutti
valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non possono
non rispondere a queste comunicazioni e, in tal modo, comunicano anche loro.
Dovrebbe essere ben chiaro che il semplice fatto che non si parli o che non
ci si presti attenzione reciproca non costituisce eccezione a quanto è
stato asserito. L'uomo che guarda fisso davanti a sé mentre fa colazione
in una tavola calda affollata o il passeggero di un aereo che siede con gli
occhi chiusi stanno entrambi comunicando che non vogliono parlare ad alcuno
né vogliono che si rivolga loro la parola; e i vicini, di solito, afferrano
il messaggio e rispondono in modo adeguato, lasciandoli in pace. Questo, ovviamente,
è proprio uno scambio di comunicazione nella stessa misura in cui lo
è una discussione animata.
L'opera di Watzlawick apriva la via a tutto un ampio settore di ricerche e di scoperte.
La definizione di comunicazione veniva quindi, successivamente, riformulata nel senso che è comunicazione "qualsiasi evento, cosa, comportamento che modifica il valore di probabilità del comportamento di un organismo".
Pertanto, come vedremo, lo studio della comunicazione non si limita agli aspetti verbali (alle parole), ma si allarga a comprendere gli oggetti di cui l'emittente è circondato (abbigliamento, arredamento della stanza, ecc.) l'ambiente (la solennità delle cattedrali e dei tribunali, la sciattezza degli uffici pubblici, l’anomia delle aule scolastiche, l’asettica aria d'efficienza della sede di una multinazionale), il modo di gesticolare, di guardare, di alzare o abbassare la voce e così via.
Da ciò consegue che, non essendo possibile "non comunicare", occorre sempre porsi il problema di comunicare: occorre quindi formulare strategie, definire obiettivi, programmare attività di comunicazione.
Lasciare queste cose al caso non significa - come si è visto - "non comunicare" (che è impossibile): significa, invece, comunicare proprio ciò che non si vorrebbe: sciattezza, incongruenza tra parole e comportamenti, mancanza di stile e così via; significa lasciare l'interlocutore nella incertezza circa gli obiettivi e le finalità perseguite dall'emittente, con la possibilità per quest'ultimo di lasciarsi attribuire le intenzioni e gli obiettivi più assurdi o più contraddittori.
Per chi opera nella scuola questo significa che è impossibile non porsi un problema di comunicazione: ignorare questo argomento significherebbe semplicemente fare della cattiva comunicazione con degli effetti imprevedibili e non rispondenti alle intenzioni.
Anche in ambito scolastico dunque deve essere presente quel minimo di conoscenza in materia, necessario a consentire di evitare gli errori più macroscopici e possibilmente ottenere, al contrario, la realizzazione di una comunicazione efficace, motivante, esattamente rispondente alle finalità che l'emittente si propone di ottenere.
Finora abbiamo parlato di comunicazione come di un processo ad una sola direzione: dall'emittente al ricevente.
Di fatto, la comunicazione non è mai ad una solo via, perché sempre il ricevente è in grado di far sapere all'emittente, "come la pensa" e quindi non può non influire, con le sue parole e il suo comportamento, sul successivo procedere del processo si comunicazione.
Ma che vi sia interazione tra riceventi ed emittente è vero anche nel caso delle conferenze (tosse, rumori in sale, molti ascoltatori che si allontanano, segni di disattenzione) e persino delle trasmissioni radio - televisive (indici di ascolto, presenza pubblicitaria, lettere e telefonate, alla stazione emittente, di approvazione o di protesta, ecc.)
Dalla conoscenza di questi punti deriva un elemento di grande importanza: per sviluppare una buona comunicazione occorre saper ascoltare.
Il comunicatore che non ascolta è come un giocatore di ping pong che non riesce a prendere la pallina quando gli viene ribattuta dall'avversario.
Soltanto se ascoltiamo attentamente i nostri interlocutori possiamo realizzare una comunicazione efficace: in caso contrario si ha il soliloquio, il tipico discorso tra sordi, ovvero, peggio ancora, il comportamento autistico di colui che chiuso nel suo mondo di fantasia non riesce a comunicare.
Come ben si comprende, questo ha una grande importanza nel contesto scolastico. Un difetto molto comune, che viene compiuto allorché si comunica a scuola, è appunto costituito dalla scarsa attenzione per quanto ha da dire il nostro interlocutore. Si parte "sparati" ad affermare questo o quello, a fare proposte, a lamentarsi, o a redarguire, senza ascoltare o ascoltando poco o niente.
Così si perde tempo da entrambe le parti, perché
la comunicazione sarà priva di quei risultati che invece avrebbe potuto
produrre se le obiezioni o le proposte avanzate dall'interlocutore fossero state
ascoltate e quindi accettate in tutto o in parte, o anche respinte, ma sulla
base di buone argomentazioni capaci di convincere colui che aveva fatto obiezioni.
Insomma, è chiaro che la reale, genuina attenzione per i bisogni e le
prospettive dell'interlocutore costituisce sempre e in ogni circostanza la premessa
indispensabile allo svolgimento di un efficace processo di comunicazione.
L’ENERGIA NELLA COMUNICAZIONE A SCUOLA
Chi comunica , orienta e dirige il proprio sforzo per farsi comprendere, per
influenzare, per valutare, per ascoltare ed esprimere: problemi, necessità,
interessi, opinioni, ecc. Tutto ciò ci permette di entrare in relazione
di comunicazione con gli altri.
Come esempio di tale atto comunicativo vogliamo presentare come avviene l’investimento
di energia che spesso viene richiesto nella relazione tra insegnanti e allievi.
Ciò che il ragazzo comunica all’insegnante è influenzato
dalla reciproca percezione.
Il processo di percezione è determinato dalla valutazione che si ha della
persona con cui si interagisce. Questa valutazione definisce il processo di
attribuzione di intenzioni in funzione dell’azione comunicativa in atto
tra gli attori stessi della comunicazione: richiesta di aiuto, valutazione,
ordine, sanzione, ecc…
L’allievo, in relazione alla sua attribuzione verso l’insegnante,
per comunicare deve investire la sua energia in differenti aspetti, tra cui:
1. Comprendere ciò che l’insegnante vuole;
2. Capire come dovrebbe dire ciò che l’insegnante desidera;
3. Prestare molta attenzione a non dire o esprimere non verbalmente ciò
che l’insegnante non vuole sentirsi dire, viceversa fornire la risposta
attesa;
4. Far comprendere all’insegnante ciò che egli stesso desidera.
Se ci troviamo in un clima relazionale di tipo giudicante /doveristico o in
una situazione in cui non si sono mai elaborate congiuntamente, le reciproche
attribuzioni insegnante-allievo, una grande quantità di energia verrà
utilizzatata dal ragazzo per auto-controllarsi in funzione dei punti 1 e 3 sopraesposti.
E’ chiaro che un processo di questo tipo si sviluppa a danno dell’energia
utilizzabile invece in favore di una comunicazione efficace espressa dai punti
1 e 4 in funzione di un miglioramento dell’ apprendimento e di una interazione
più soddisfacente per entrambi gli attori.
UNA CHIAVE DI LETTURA RELAZIONALE
Quando due persone si incontrano cercano di stabilire delle relazioni e di comunicare,
essenzialmente per ottenere dei segni di riconoscimento che potremmo definire
con: stimolo, contatto, carezza, toccare, colpo, far centro, riconoscere l’altro,
colpirlo, gratificarlo, attaccarlo,… comunque, dirgli che esiste e che
ha importanza, nel bene e nel male. Queste carezze possono infatti essere considerate
come delle reali unità di misura delle relazioni umane. Infatti, più
la carezza sarà intensa, oppure svalutante, più la relazione sarà
considerata come positiva, oppure negativa, dalla persona.
Così, secondo l’Analisi Transazionale, l’intensità
o la colorazione piacevole o spiacevole delle nostre relazioni umane possono
essere caratterizzate e in un certo modo misurate, facendo riferimento al grado
di carezza scambiate.
All’origine di tutti i nostri rapporti esiste questo bisogno imperioso
di carezze. E’ una vecchia storia!
Un individuo non può sopravvivere, se non a condizione che gli altri
si occupino di lui, pensino a lui, manifestino sentimenti nei suoi riguardi:
ciò si traduce in scambi, verbali e non verbali e in contatti psichici
: conversazione sorrisi, sguardi significativi, strette di mano, baci o carezze.
Ciascuno ha bisogno di essere riconosciuto e di riconoscere l’altro, di
scambiare carezze: “io esisto, tu esisti” (cfr. le esperienze effettuate
su neonati che muoiono per carenza di contatti fisici). Questa sete di carezze
è così importante che è stato provato che un individuo
preferisce ricevere dagli altri carezze negative, piuttosto che non riceverne.
LE CAREZZE A SCUOLA
Il condizionamento culturale europeo non favorisce né l’espressione,
né l’accettazione delle carezze positive, siano esse condizionali,
per cui l’altro è riconosciuto per quello che fa, o incondizionali,
per cui l’altro è riconosciuto per quello che è, potendo
ciascuna essere positiva o negativa. E’ un’affermazione che si può
già verificare in famiglia: i genitori danno molta più importanza
al brutto voto del loro figlio in una materia, che alla sua buona riuscita in
un’altra disciplina.
Analogamente può accadere tra i diversi ruoli che interagiscono nella
scuola, per cui un incarico affidato in ottica collaborativa e ben svolto è
considerato una cosa normale e non sarà sanzionato positivamente, per
contro, un insuccesso sarà sottolineato e commentato. La carezza positiva
è invece determinante se si vuole rafforzare l’impegno nel lavoro
di una persona.
La stessa cosa è vera anche nel rapporto pedagogico. E’ nota infatti
l’importanza d’aumentare l’interesse in colui che impara,
per stimolare in lui il desiderio di continuare ad imparare. Ora, per le stesse
ragioni di condizionamento culturale l’insegnante spesso è portato
a non lasciarsi andare ad “accarezzare positivamente” l’allievo,
come,, allo stesso modo, quest’ultimo non s’aspetta di ricevere
una carezza positiva. All’opposto, sanzionare negativamente è ammesso,
anche se è meno efficace.
Questa negazione di carezze positive si spiega col fatto che l’insegnamento
è basato sulla differenza illusoria tra l’insegnante che sa, che
ha ragione, che corregge e l’allievo che non sa, che ha torto, che deve
essere emendato. La carezza positiva, in un simile contesto, ha sentore di favoritismo
(il beniamino) ed è vissuto dalle due parti come colpevolizzante.
Quando l’insegnante è confermato nel suo valore di pedagogo, vale
a dire quando constata che l’allievo lavora bene, la carezza positiva
che gli dà è, alla fine, una carezza che dà a se stesso,
ma non appena la difficoltà del compito lo rimette di fronte alla sua
incapacità di pedagogo, alla sua difficoltà di individuare la
spiegazione adeguata alla comprensione dell’allievo, egli toccato nel
suo Bambino Adattato che non riesce, provvede subito ad accarezzare negativamente
l’allievo e in maniera incondizionata. Si può dire nello stesso
modo, che è a se stesso che indirizza quella carezza negativa? E’
sempre lui che determina la realtà della situazione, è l’allievo
che ne fa le spese. Ed è così che si deteriora il rapporto pedagogico.
Imparare ad “accarezzare” positivamente l’altro non è
cosa comune. Tuttavia ciò rafforzerebbe la sua motivazione, gli darebbe
fiducia e lo condurrebbe verso la riuscita. Una pedagogia fondata su carezze
positive è molto più efficace di una pedagogia repressiva fondata
su transazioni di dipendenza e subalternità (Genitore Critico –
Bambino Adattato) , e la relazione interpersonale così creata è
positiva sia per l’insegnante che per l’allievo.
Vedi anche: discussione,
relazione,
silenzi,
tempo