INSEGNANTE (visto da uno studente)
Alvin Palmi, studente scienze motorie (Bologna)

Dai testi di Scienze della Formazione apprendiamo che l’attività di un insegnante deriva dall’interazione di approcci, metodi e stili. Per approccio si intende il modo di porsi di fronte all’insegnamento, e le due direttrici di pensiero fondamentali vengono indicate nel costruttivismo (che considera ogni relazione educativa come unica e irripetibile e mette in risalto l’importanza dell’ambiente educativo) e nel “più moderno” cognitivismo (che tratta in modo “scientifico” e “oggettivo” i processi di apprendimento). Parlando di metodi si entra nello specifico del “come insegnare” e i due estremi di riferimento sono i metodi induttivo e deduttivo o sintetico e analitico. Lo stile invece si colloca tra gli estremi negativi di “autoritario” e “non autoritario”, dove per non autoritario si intende impropriamente un atteggiamento buonista e lassista.

Quando un insegnante entra per la prima volta in una classe, però, i suoi primi problemi sono altri: si tratta di istituire un canale di dialogo con gli studenti, di portarli ad avere un impatto positivo con la materia, di stimolarne la curiosità. Credo infatti che la prima impressione fornita da un insegnante alla classe sia fondamentale per il proseguo del rapporto didattico-educativo. Di tutto ciò difficilmente si trova traccia nei suddetti testi.
Le relazioni personali, le dinamiche di gruppo, le infinite interazioni insegnante-studente, ma anche studente-studente e insegnante-insegnante non sono catalogabili, prevedibili né tantomeno predeterminabili, ma sono un aspetto fondamentale della relazione educativa. Ed è qui che il paradigma neo-positivista del cognitivismo va in crisi: quando le variabili diventano troppe e soprattutto quando si tratta di variabili non quantificabili e impossibili da modificare a piacimento. I teorici cognitivisti a questo punto si limitano generalmente a ignorare il problema, ponendo l’accento solo sulle variabili più facili da determinare: il numero di ore di lezione, la sequenza degli argomenti trattati, il numero di esercizi, il punteggio ottenuto in un test valutativo… Tutti elementi, peraltro, controllabili anche attraverso un programma informatico, e per questo alle teorie cognitiviste si accompagna spesso un’esaltazione acritica dell’e-learning.
Ma perché uno studente impari realmente (cioè capisca realmente cosa sta imparando e perché) non basta che esegua un certo numero di esercizi: è importante che qualcuno abbia destato il suo interesse, che lo abbia accompagnato nel processo di apprendimento, che abbia interagito con lui valorizzando le sue eventuali proposte, che lo abbia aiutato a capire i suoi errori e non solo a correggerli, magari addirittura (ma questo pensando alla scuola italiana sembra un sogno) qualcuno che gli abbia dato la possibilità di scegliere almeno in parte cosa imparare. Per questo credo che il ruolo dell’insegnante resti centrale, così come lo è (e potrebbe esserlo molto di più) il ruolo dei compagni di classe. Il tutto a patto, però, di non intendere l’insegnamento secondo una concezione depositaria, ma accettando di vivere la sfida di un’educazione dialogica, in cui, come sosteneva l’educatore brasiliano Paulo Freire “Nessuno educa nessuno. Nessuno educa se stesso. Gli uomini si educano in comunione, attraverso la mediazione del mondo”.
Per questo alla presunta onnipotenza del cognitivismo preferisco l’umiltà del costruttivismo, che lascia spazio alla creatività nel processo didattico e alla soggettività delle persone che partecipano alla relazione, incentivando gli scambi e non la pura trasmissione unidirezionale di nozioni.

Una simile relazione educativa, ovviamente, presuppone anche uno stile non-autoritario. Personalmente non accetto l’idea della giusta via di mezzo tra autoritarismo e non-autoritarismo, che è figlia di una sorta di rassegnazione al fatto che la relazione didattica possa essere utile e produttiva solo se viene mantenuto un certo grado di “disciplina”, attraverso il rispetto di un’autorità, magari non troppo opprimente. L’anti-autoritarismo non è lassismo o disinteresse per ciò che accade nella classe, è un’idea diversa di relazione che si basa sul presupposto che una relazione asimmetrica (come è necessariamente quella insegnante-studente, che anzi si fonda sull’asimmetria) non debba necessariamente tramutarsi in una relazione gerarchica. E’ questa la direzione in cui muoversi, non solo perché un sistema di punizioni e/o valutazioni punitive non aiuta la relazione didattica, ma anche perché la scuola fornisce comunque dei modelli che gli studenti colgono e introiettano. Rendere questi modelli (e non mi riferisco solo alle relazioni insegnate-studente, ma anche a quelle tra insegnanti, o tra dirigente scolastico e lavoratori della scuola) collegiali e cooperativi, non gerarchici e non autoritari, in una parola più simili a una comunità che ad un’azienda è una delle grandi scommesse per chi vuole realmente cambiare la scuola italiana.

Vedi anche: insegnanti (visti da una insegnante), potere