Nei (pochi) interventi che hanno deplorato la riscrittura
degli obiettivi di storia nelle Indicazioni Nazionali c’è
un errore di prospettiva. I critici della Moratti, giustamente, si applicano
a confrontare i contenuti dei “vecchi” programmi (’79, ’85,
’96) e quelli delle indicazioni: mostrano la limitazione dell’orizzonte
spaziale alla sola Europa e l’omissione di grandi tematiche irrinunciabili
come colonialismo, imperialismo, la stessa conquista dell’America; rivelano
come eccessivo e unilaterale fondare l’identità comune Europea
sulle radici religiose cristiane; sottolineano l’assurda assenza di
riferimenti alla dimensione economica e sociale della storia (saltano concetti
come feudalesimo, rivoluzione industriale, movimento operaio e socialista);
mostrano l’assurdità di eliminare la distinzione tra nazismo,
fascismo e comunismo annegandone le determinazioni nel mare indistinto della
categoria dei totalitarismi, ecc.
Questo esercizio di comparazione è utile e indispensabile, ma non è
sufficiente. Tutti gli interventi si muovono come se il vulnus tra la buona
e la cattiva storia partisse da lì, dalla stesura delle Indicazioni,
come se l’errore fosse attribuibile allo sconosciuto estensore del testo
mentre, se fossero stati ascoltati gli “storici laureati” e valorizzate
le esperienze di ricerca didattica (qualche rara volta sono citate), allora
la ferita sarebbe ricomposta.
Ma la ferita che ha prodotto questi programmi non è recente. Lo scontro
si è aperto nella società e sui mass media circa 15 anni fa,
in occasione di non piccoli avvenimenti mondiali e nazionali che hanno avuto
una ricezione nei mezzi di comunicazione di massa talmente priva di distinzioni
e di ricorso al dibattito scientifico che ha lasciato tutti tramortiti. E’
lì che stanno le radici politiche e culturali dell’anonimo estensore
dei programmi della Moratti; è in quel contesto che gli storici accademici
hanno dovuto vivere l’emarginazione totale da parte dei nuovi e potentissimi
produttori di storia-usa-e-getta: gli operatori della comunicazione.
Gli storici più avvertiti se ne sono accorti e hanno risposto aprendo
percorsi di indagine e confronto su questo campo di confine tra ricerca storiografica
e riflessione sulla sua comunicazione, nell’ambito dei poteri massmediatici.
Che cosa sono altrimenti i saggi sull’uso pubblico della storia? Ma
anche tanti altri soggetti hanno cominciato a rifletterci, oscurati dall’impossibilità
di allargare il confronto oltre le dimensioni che si vedevano assegnate nella
gerarchia del sistema di potere dominante. Lì sono nate le premesse
per marginalizzare sempre più lo stesso ruolo degli insegnanti, sopraffatti
dalla storia subliminale che occupava tutti gli spazi liberi dell’immaginario
quotidiano. Pochi in questi anni (ma oggi sembra che nulla cambi) si sono
sforzati di riflettere sull’unico ruolo che con successo può
assumere l’insegnante serio: quello di critico della storiografia di
consumo, della sua unilateralità, delle sue finalità nascoste,
in nome della consapevolezza; quello di critico della “storia oggettiva”
per mostrare che l’unica oggettività si costruisce nel laboratorio
dello storico, tra dubbi metodici, dichiarazioni della propria parzialità,
lavoro e rispetto delle fonti. Una nuova versione - aggiornata a recenti e
ben più potenti falsificatori - di quella critica delle fonti di cui
ci parlava anche Marc Bloch.
Essere al “governo”, nella stanza dei bottoni, non dà nessuna
garanzia di questo tipo. Ricordo che negli anni recenti del Centro-Sinistra
il ministero insieme all’Enciclopedia italiana e al Landis organizzò
un bel concorso per elaborati sul tempo; peccato che l’ottica fosse
quella di cercare i “talenti” (selezioni di scuola, poi provinciali,
poi nazionali e una bella enciclopedia al migliore) invece di concentrarsi
sui “peggiori”, sugli errori. Bisogna essere ben ciechi per non
partire da un’occasione fantastica come questa per costruire preziosi
archivi di mappe concettuali errate, per aprire ricchi cantieri di scavo sulla
misconoscenza storica, per comprenderla nelle sue matrici e pensare alla prevenzione
e ad interventi anticiclici.
Credere di ristabilire la “giustizia” riscrivendo le Indicazioni
significa vivere in un mondo di sogni. Pensare che la didattica dipenda più
dalle Indicazioni che dall’ultimo talk show è molto ingenuo e
la dice lunga su quanto ancora l’accademia ignori la quotidianità
scolastica. L’estensore di manuali che “sa annusare l’aria
che tira” ha già parificato da tempo nazismo e comunismo, la
categoria del totalitarismo ha vinto prima da Maurizio Costanzo che sulle
cattedre di storia contemporanea e il fatto che arrivi ora nei testi ministeriali
significa che il senso comune ne è già pregno! Non c’è
da essere ottimisti, anche perché una parte della posta si gioca –
come sempre – fuori, nella società.
Vedi anche: darwin,
economia in
classe