STORIA
Gianluca Gabrielli (insegnante elementare, Bologna)

Nei (pochi) interventi che hanno deplorato la riscrittura degli obiettivi di storia nelle Indicazioni Nazionali c’è un errore di prospettiva. I critici della Moratti, giustamente, si applicano a confrontare i contenuti dei “vecchi” programmi (’79, ’85, ’96) e quelli delle indicazioni: mostrano la limitazione dell’orizzonte spaziale alla sola Europa e l’omissione di grandi tematiche irrinunciabili come colonialismo, imperialismo, la stessa conquista dell’America; rivelano come eccessivo e unilaterale fondare l’identità comune Europea sulle radici religiose cristiane; sottolineano l’assurda assenza di riferimenti alla dimensione economica e sociale della storia (saltano concetti come feudalesimo, rivoluzione industriale, movimento operaio e socialista); mostrano l’assurdità di eliminare la distinzione tra nazismo, fascismo e comunismo annegandone le determinazioni nel mare indistinto della categoria dei totalitarismi, ecc.
Questo esercizio di comparazione è utile e indispensabile, ma non è sufficiente. Tutti gli interventi si muovono come se il vulnus tra la buona e la cattiva storia partisse da lì, dalla stesura delle Indicazioni, come se l’errore fosse attribuibile allo sconosciuto estensore del testo mentre, se fossero stati ascoltati gli “storici laureati” e valorizzate le esperienze di ricerca didattica (qualche rara volta sono citate), allora la ferita sarebbe ricomposta.
Ma la ferita che ha prodotto questi programmi non è recente. Lo scontro si è aperto nella società e sui mass media circa 15 anni fa, in occasione di non piccoli avvenimenti mondiali e nazionali che hanno avuto una ricezione nei mezzi di comunicazione di massa talmente priva di distinzioni e di ricorso al dibattito scientifico che ha lasciato tutti tramortiti. E’ lì che stanno le radici politiche e culturali dell’anonimo estensore dei programmi della Moratti; è in quel contesto che gli storici accademici hanno dovuto vivere l’emarginazione totale da parte dei nuovi e potentissimi produttori di storia-usa-e-getta: gli operatori della comunicazione.
Gli storici più avvertiti se ne sono accorti e hanno risposto aprendo percorsi di indagine e confronto su questo campo di confine tra ricerca storiografica e riflessione sulla sua comunicazione, nell’ambito dei poteri massmediatici. Che cosa sono altrimenti i saggi sull’uso pubblico della storia? Ma anche tanti altri soggetti hanno cominciato a rifletterci, oscurati dall’impossibilità di allargare il confronto oltre le dimensioni che si vedevano assegnate nella gerarchia del sistema di potere dominante. Lì sono nate le premesse per marginalizzare sempre più lo stesso ruolo degli insegnanti, sopraffatti dalla storia subliminale che occupava tutti gli spazi liberi dell’immaginario quotidiano. Pochi in questi anni (ma oggi sembra che nulla cambi) si sono sforzati di riflettere sull’unico ruolo che con successo può assumere l’insegnante serio: quello di critico della storiografia di consumo, della sua unilateralità, delle sue finalità nascoste, in nome della consapevolezza; quello di critico della “storia oggettiva” per mostrare che l’unica oggettività si costruisce nel laboratorio dello storico, tra dubbi metodici, dichiarazioni della propria parzialità, lavoro e rispetto delle fonti. Una nuova versione - aggiornata a recenti e ben più potenti falsificatori - di quella critica delle fonti di cui ci parlava anche Marc Bloch.
Essere al “governo”, nella stanza dei bottoni, non dà nessuna garanzia di questo tipo. Ricordo che negli anni recenti del Centro-Sinistra il ministero insieme all’Enciclopedia italiana e al Landis organizzò un bel concorso per elaborati sul tempo; peccato che l’ottica fosse quella di cercare i “talenti” (selezioni di scuola, poi provinciali, poi nazionali e una bella enciclopedia al migliore) invece di concentrarsi sui “peggiori”, sugli errori. Bisogna essere ben ciechi per non partire da un’occasione fantastica come questa per costruire preziosi archivi di mappe concettuali errate, per aprire ricchi cantieri di scavo sulla misconoscenza storica, per comprenderla nelle sue matrici e pensare alla prevenzione e ad interventi anticiclici.
Credere di ristabilire la “giustizia” riscrivendo le Indicazioni significa vivere in un mondo di sogni. Pensare che la didattica dipenda più dalle Indicazioni che dall’ultimo talk show è molto ingenuo e la dice lunga su quanto ancora l’accademia ignori la quotidianità scolastica. L’estensore di manuali che “sa annusare l’aria che tira” ha già parificato da tempo nazismo e comunismo, la categoria del totalitarismo ha vinto prima da Maurizio Costanzo che sulle cattedre di storia contemporanea e il fatto che arrivi ora nei testi ministeriali significa che il senso comune ne è già pregno! Non c’è da essere ottimisti, anche perché una parte della posta si gioca – come sempre – fuori, nella società.

Vedi anche: darwin, economia in classe