GENITORI / FAMIGLIA - 2
Marta Calamia, Pisa

Come si fa a non essere ottimisti? imbonisce il Poeta indicandoci la via maestra alla felicità zigzagante tra lavatrici silenziose e monitor ultrapiatti, vetrine immense e commessi impeccabili - belli, gentili, disponibili proprio per te, persona amante della vita, sorridente al futuro, libera.
Dallo schermo televisivo, Tonino Guerra, poeta – così nel sottotitolo – vende trenta secondi di supermercato. Poi un bambino impila mattoni di polisterolo e costruisce la nuova scuola, quella che cresce proprio come lui. E’ un bambino solo, nella sua scuola senza classi, compagni, maestri, eppure, anche lui, sorridente e ottimista perché può scegliere i suoi mattoni. Liberamente.
Ottimismo, libertà, crescita, futuro, persona.
Nella scuola morattiana si declinano in facoltativo e opzionale, personalizzazione, portfolio, tutor, gruppi di livello.
Nel lavoro maroniano divengono occupazione intermittente, a coppie, a progetto…
Tutto “su misura”, tutto a “domanda individuale”.
La Famiglia – non i/le bambini/e – è l’utente privilegiato del sapere/merce acquistabile nella scuola che vorrebbero costruire. La famiglia al singolare, come singolare è il bambino dello spot “informativo”. Una famiglia che sceglie, tra molteplici offerte, quella consona alla migliore formazione del proprio figlio. Una famiglia che si rapporta ad un insegnante/commesso presentatore di prodotti, il tutor; che è liberata dalla fastidiosa incombenza di convivere in una collettività variegata per sensibilità, bisogni, conoscenze. Una famiglia che, se ha fretta, può risparmiare tempi inutili, inserendo prima i figli a scuola. E, magari, sottraendoveli prima.
Una famiglia arcaica, primordiale, nucleo chiuso e timoroso della contaminazione con l’altro. Una famiglia arrogantemente autosufficiente, segnata dalla predestinazione, dalle proprie immodificabili certezze, dalle rigidità di ruoli e destini predefiniti. Una famiglia che sa, a priori, quale sia l’offerta che le conviene di più (alla Famiglia, non al/alla bambino/a, potenzialmente frustrato e stritolato da scelte comunque altrui) e che ha un rapporto individuale e solitario con la scuola con la quale contratta e patteggia, se possiede gli strumenti per farlo. Regime di libera concorrenza: tra scuole, tra insegnanti, tra famiglie, tra bambini. Una famiglia somma di egoismi “per la quale” si modella una scuola della concorrenzialità e degli egoismi. Una famiglia che oscilla tra lo stereotipo mieloso delle pubblicità natalizie e la brutalità aziendalista della produttività, dell’efficienza, della funzionalità, cui corrisponde una scuola che, mentre si ammanta di attenzione alla “persona”, si struttura sulla valorizzazione dell’eccellenza e lo scarico dei “pesi morti”.
Fuori dalle coperture ideologiche, la scuola morattiana è la scuola della ratificazione dell’esistente. Cancellata come obsoleta l’utopia delle pari opportunità formative, della scuola come tentativo di superamento dei gap socio-economico-culturali, si tenta di imporre la “modernità” del sapere merce a vendita personalizzata. Chi può, acquista. Chi non può, è libero di scegliere le passerelle personalizzate verso l’espulsione. Ad attenderlo, fuori dalla “nuova” scuola, c’è il “nuovo” mercato del lavoro cui serve manodopera flessibile, ricattabile, a basso valore contrattuale. Senza titoli di studio, senza pretese salariali, senza fastidiose abitudini a ragionare in termini di diritti collettivi. Formata, fin dall’asilo, ad essere sola, perennemente in concorrenza con l’altro, specialmente se simile.
La scuola neoliberista – non solo quella morattiana – ha bisogno di imporre un rapporto individuale con un sapere ridotto a pillole informative funzionali. Ne ha bisogno per costruire ideologia, per condizionare la futura manodopera e, anche, per ridurre i costi. Una scuola che forma tutti, che si pone l’obiettivo della crescita individuale e collettiva, che pone in relazione soggetti che crescono insieme, è una scuola che ha bisogno di tempi, di pluralità, di confronto, di spazi fisici. E’ una scuola che si rapporta ai/alle bambini/e e, anche, alle loro mamme e ai loro papà, che sono tanti e molto diversi fra loro. E tutto questo è fastidiosamente antieconomico. Perché la scuola non sia un “costo”, deve divenire una merce. Perché non sia una palestra di crescita collettiva, deve spacciare nozioni. Risparmio e ideologia sono due volti dello stesso mostro. Come la legge 53 e la legge 30.
Se è la “Famiglia” l’apparente soggetto di riferimento in nome della quale distruggere la scuola pubblica di qualità, le famiglie – plurale, collettivo – si sono invece dimostrate un intralcio. Hanno alzato la voce, preoccupandosi in prima istanza per il tempo scuola, poi per la qualità di questo tempo, qualità non riducibile ad astratta somma di nuclei orari. Donne e uomini - che sono mamme e papà - hanno ripensato il senso della scuola, hanno riscoperto il portato del tempo pieno non solo come “tempo senza i figli disponibile per il lavoro” ma anche come progetto possibile di rapporto altro con i saperi, con le culture, con la crescita, con la partecipazione.
Donne e uomini che sono anche lavoratrici e lavoratori, spesso precarizzati, consapevoli della pericolosità intrinseca di una scuola dell’eccellenza, che gerarchizza i bambini in gruppi di livello e i loro insegnanti in tutor e subalterni, che appalta alla precarietà esterna fette consistenti di insegnamento e di lavoro, che rinuncia alla progettualità collettiva in nome di ideologiche valorizzazioni della persona, che sostituisce la formazione culturale a tutto tondo con l’informazione spicciola e funzionale alla produttività futura.
Miur e governo hanno cercato di ridurre questa consapevolezza crescente ad una rivendicazione minoritaria per un pugno di ore scuola. Sappiamo – e sanno – che in ballo c’è l’opposizione ad un modello di scuola che è modello societario. Per questo abbiamo riempito le piazze e occupato centinaia di scuole.

Vedi anche: genitori/famiglia 1, genitori/famiglia 3, mercificazione dell'insegnamento, precario/a-precarizzazione