Come si fa a non essere ottimisti? imbonisce il Poeta indicandoci
la via maestra alla felicità zigzagante tra lavatrici silenziose e monitor
ultrapiatti, vetrine immense e commessi impeccabili - belli, gentili, disponibili
proprio per te, persona amante della vita, sorridente al futuro, libera.
Dallo schermo televisivo, Tonino Guerra, poeta – così nel sottotitolo
– vende trenta secondi di supermercato. Poi un bambino impila mattoni
di polisterolo e costruisce la nuova scuola, quella che cresce proprio come
lui. E’ un bambino solo, nella sua scuola senza classi, compagni, maestri,
eppure, anche lui, sorridente e ottimista perché può scegliere
i suoi mattoni. Liberamente.
Ottimismo, libertà, crescita, futuro, persona.
Nella scuola morattiana si declinano in facoltativo e opzionale, personalizzazione,
portfolio, tutor, gruppi di livello.
Nel lavoro maroniano divengono occupazione intermittente, a coppie, a progetto…
Tutto “su misura”, tutto a “domanda individuale”.
La Famiglia – non i/le bambini/e – è l’utente privilegiato
del sapere/merce acquistabile nella scuola che vorrebbero costruire. La famiglia
al singolare, come singolare è il bambino dello spot “informativo”.
Una famiglia che sceglie, tra molteplici offerte, quella consona alla migliore
formazione del proprio figlio. Una famiglia che si rapporta ad un insegnante/commesso
presentatore di prodotti, il tutor; che è liberata dalla fastidiosa incombenza
di convivere in una collettività variegata per sensibilità, bisogni,
conoscenze. Una famiglia che, se ha fretta, può risparmiare tempi inutili,
inserendo prima i figli a scuola. E, magari, sottraendoveli prima.
Una famiglia arcaica, primordiale, nucleo chiuso e timoroso della contaminazione
con l’altro. Una famiglia arrogantemente autosufficiente, segnata dalla
predestinazione, dalle proprie immodificabili certezze, dalle rigidità
di ruoli e destini predefiniti. Una famiglia che sa, a priori, quale sia l’offerta
che le conviene di più (alla Famiglia, non al/alla bambino/a, potenzialmente
frustrato e stritolato da scelte comunque altrui) e che ha un rapporto individuale
e solitario con la scuola con la quale contratta e patteggia, se possiede gli
strumenti per farlo. Regime di libera concorrenza: tra scuole, tra insegnanti,
tra famiglie, tra bambini. Una famiglia somma di egoismi “per la quale”
si modella una scuola della concorrenzialità e degli egoismi. Una famiglia
che oscilla tra lo stereotipo mieloso delle pubblicità natalizie e la
brutalità aziendalista della produttività, dell’efficienza,
della funzionalità, cui corrisponde una scuola che, mentre si ammanta
di attenzione alla “persona”, si struttura sulla valorizzazione
dell’eccellenza e lo scarico dei “pesi morti”.
Fuori dalle coperture ideologiche, la scuola morattiana è la scuola della
ratificazione dell’esistente. Cancellata come obsoleta l’utopia
delle pari opportunità formative, della scuola come tentativo di superamento
dei gap socio-economico-culturali, si tenta di imporre la “modernità”
del sapere merce a vendita personalizzata. Chi può, acquista. Chi non
può, è libero di scegliere le passerelle personalizzate verso
l’espulsione. Ad attenderlo, fuori dalla “nuova” scuola, c’è
il “nuovo” mercato del lavoro cui serve manodopera flessibile, ricattabile,
a basso valore contrattuale. Senza titoli di studio, senza pretese salariali,
senza fastidiose abitudini a ragionare in termini di diritti collettivi. Formata,
fin dall’asilo, ad essere sola, perennemente in concorrenza con l’altro,
specialmente se simile.
La scuola neoliberista – non solo quella morattiana – ha bisogno
di imporre un rapporto individuale con un sapere ridotto a pillole informative
funzionali. Ne ha bisogno per costruire ideologia, per condizionare la futura
manodopera e, anche, per ridurre i costi. Una scuola che forma tutti, che si
pone l’obiettivo della crescita individuale e collettiva, che pone in
relazione soggetti che crescono insieme, è una scuola che ha bisogno
di tempi, di pluralità, di confronto, di spazi fisici. E’ una scuola
che si rapporta ai/alle bambini/e e, anche, alle loro mamme e ai loro papà,
che sono tanti e molto diversi fra loro. E tutto questo è fastidiosamente
antieconomico. Perché la scuola non sia un “costo”, deve
divenire una merce. Perché non sia una palestra di crescita collettiva,
deve spacciare nozioni. Risparmio e ideologia sono due volti dello stesso mostro.
Come la legge 53 e la legge 30.
Se è la “Famiglia” l’apparente soggetto di riferimento
in nome della quale distruggere la scuola pubblica di qualità, le famiglie
– plurale, collettivo – si sono invece dimostrate un intralcio.
Hanno alzato la voce, preoccupandosi in prima istanza per il tempo scuola, poi
per la qualità di questo tempo, qualità non riducibile ad astratta
somma di nuclei orari. Donne e uomini - che sono mamme e papà - hanno
ripensato il senso della scuola, hanno riscoperto il portato del tempo pieno
non solo come “tempo senza i figli disponibile per il lavoro” ma
anche come progetto possibile di rapporto altro con i saperi, con le culture,
con la crescita, con la partecipazione.
Donne e uomini che sono anche lavoratrici e lavoratori, spesso precarizzati,
consapevoli della pericolosità intrinseca di una scuola dell’eccellenza,
che gerarchizza i bambini in gruppi di livello e i loro insegnanti in tutor
e subalterni, che appalta alla precarietà esterna fette consistenti di
insegnamento e di lavoro, che rinuncia alla progettualità collettiva
in nome di ideologiche valorizzazioni della persona, che sostituisce la formazione
culturale a tutto tondo con l’informazione spicciola e funzionale alla
produttività futura.
Miur e governo hanno cercato di ridurre questa consapevolezza crescente ad una
rivendicazione minoritaria per un pugno di ore scuola. Sappiamo – e sanno
– che in ballo c’è l’opposizione ad un modello di scuola
che è modello societario. Per questo abbiamo riempito le piazze e occupato
centinaia di scuole.
Vedi anche: genitori/famiglia
1, genitori/famiglia
3, mercificazione
dell'insegnamento, precario/a-precarizzazione