DIRIGENTE
Renata Puleo (Roma)

I presidi e i direttori didattici sono diventati dirigenti a contratto a tempo determinato nel 2002. Un cambiamento a 360 gradi rispetto alla collocazione precedente come funzionari dello stato di tipo direttivo, interni quindi ad un’amministrazione a “tratto fortemente derivato”, vale a dire, fuor di burocratese, soggetti, non solo alla norma generale, ma anche alla supremazia gerarchica. Un’analisi dell’attuale posizione mediante una tecnica definita “carotaggio”, ci serve per capire meglio le contraddizioni di questo cambiamento (Auriemma). Il carotaggio è l’operazione con la quale un geologo analizza i sedimenti e le stratificazioni di un ammasso roccioso. Una buona metafora che ci può aiutare a comprendere in quale intreccio giuridico si trovi ad operare la figura dirigenziale nella scuola. Il problema che si pone è sostanzialmente quello del rapporto fra l’autonomia decisionale del DS e il comando politico e di indirizzo da parte degli organi di Governo. Questo tema si è mostrato particolarmente urgente nel caldissimo periodo di gestazione e di prima applicazione della legge 28 marzo 2003 n 53, meglio nota come Riforma Moratti. La posizione di molti docenti e di alcuni DDSS è stata di netta opposizione a tutto il disegno, per le ricadute organizzative, ma soprattutto per il quadro valoriale in cui è inserito. Alcuni operatori della scuola, hanno comunque provato, da destra e da sinistra, a cimentarsi con la Riforma mettendo spesso a valore una indubbia competenza. E’ accaduto anche perché la scuola italiana ha sempre conosciuto modificazioni strutturali operate a spezzoni, con disarticolazioni del percorso dai primi gradi alla università. Un vero e proprio “doppio vincolo” lo hanno vissuto i DDSS che, investiti dalla Amministrazione centrale dai compiti di divulgazione assistita, di presentazione del testo morattiano a genitori e a insegnanti, mentre ancora non aveva vigenza di legge, non potevano condividere - per storia politica e culturale -lo spirito e la pratica della Riforma. Il “doppio vincolo” è la percezione di trovarsi in un stallo, di sapersi in una posizione dalla quale ogni risposta ad un problema risulterà sbagliata, o per lo meno “oscillante”. Un paradosso del comportamento dunque, che va a colpire la nostra fiducia nella stabilità delle relazioni logiche e emotive e la stessa conoscenza che ne abbiamo (Bateson). Il rapporto fiduciario fra DDSS e Amministrazione ha assunto accenti paradossali: è di tipo privatistico, eppure mantiene i dirigenti all’interno di una istituzione di diritto pubblico. Altre questioni fanno da sfondo e contribuiscono a creare il doppio vincolo: il rapporto fra legittimità e legittimazione; il rapporto fra diritto e giustizia; il problema dell’incardinamento gerarchico fra le fonti giuridiche. In una cornice ancora più ampia: il nesso fra autorità e potere, fra governo e magistratura, fra garanzie determinate dalla Legge e la sua “sospensione eccezionale” (Schmitt; Benjamin; Agamben). Un DS a contratto a tempo determinato, sottoposto a valutazione di risultato, cessa di esser un soggetto politico portatore di giudizio, di valutazioni, di azioni politiche autonome? La sua eventuale “militanza” può essere solo privata? Come può distogliersi dal continuo riferimento alla politica quando la sua professione riguarda ciò che è politico per eccellenza, ovvero l’educazione delle nuove generazioni? Diciamo che tale problema esisteva da tempo, almeno dall’approvazione della legge Bassanini. Eppure, rimaneva come intoccabile, per chiunque fosse chiamato ad un’azione pubblica, il principio di fedeltà alla Costituzione. Chi proviene dal ruolo magistrale ricorda la “promessa” e il “giuramento” (ora aboliti) a cui fu obbligato entrando nelle fila degli insegnanti statali. La formula riportava quasi a specchio il contenuto dell’art 54 della Costituzione, dove il termine “fedeltà” comprometteva il soggetto “congiurato” solo con la Repubblica e con la sua Costituzione, vale a dire con “res publica”. I comportamenti resistenti sulla questione del tutor, dei libri di testo, della organizzazione preesistente, costituiscono una rottura del patto fiduciario, sono fratture di quel rapporto di “fedeltà” che, fin dal diritto arcaico, costituisce la “bona fides” a cui deve attenersi il buon funzionario statale?
Sono molti i DDSS che si riparano senza discutere sotto il cappello delle regole della democrazia rappresentativa. “Se una legge è stata approvata si applica e basta”. Un rapporto con la legge che chiamiamo perverso (Zizek), un legame con il Nome del Padre, vale a dire con la fonte massima di emanazione della legge e della proibizione, non elaborato criticamente. Eppure la figura del DS emerge, proprio dopo l’autonomia, come una sorta di magistratura. Deve conoscere la norma e la giurisprudenza ed essere capace di quella capacità di giudizio che costituisce l’essenza del diritto. La Legge applicata al caso. Un po’ come la “langue” e la “parole” del linguaggio umano: il corpo delle regole impersonali della grammatica e la realizzazione della parola come atto.
E qui entra in gioco quanto della scuola come pratica conoscano i DDSS. Quanto credano nel valore del patrimonio culturale nato dalla cooperazione educatica, dalle esperienze di tempo pieno nella scuola di base. Quanto, come dicevamo, abbiano ragionato sulla questione del potere, soprattutto a partire da sé. Come siano riusciti a portare a valore il patrimonio di esperienze didattiche e organizzative elaborato dalla parte femminile, maggioritaria fra i docenti. Una esperienza basata sulla relazione, sulla qualità contro la quantità dei saperi, sulla circolazione del potere. E quindi come si siano rapportati, non solo con la collegialità espressa nell’impianto normativo che regola gli Organi Collegiali e quindi impone degli atti dovuti, ma con quella che nasce dal confronto quotidiano di pratiche di lavoro.
Proviamo ad evidenziare alcuni aspetti di quel patrimonio che, malgrado le forti disomogeneità nelle diverse realtà italiane, sono risultati diffusi ed emergenti. Come si detto, innanzi tutto la cooperazione come fattore del lavoro fra colleghi, fra docenti e contesto sociale. La cooperazione intesa anche come potenzialità nei rapporti fra pari, nei gruppi di bambine e bambini. Dove l’espressione “tutorato” ha la sua origine nella riflessione di Vygotskij sull’apprendimento relazionale. Ancora, l’autorevolezza della parola Materna nel lavoro di Cura, l’importanza della Lingua Materna, i concetti di Spazio e di Tempo riletti in un’ottica coevolutiva.
Certamente, tutto questo non ha riguardato tutti i livelli di scuola. La frattura culturale fra ordini di scuola ha mostrato i suoi effetti quando la Dirigenza proveniva dagli organici della scuola superiore e doveva occuparsi di istituti della fascia dell’obbligo e della scuola dell’infanzia. D’altra parte, con la filosofia della organizzazione di tipo aziendale, la dirigenza, ha comunque spiccato il salto della divisione definitiva dal ruolo di precedente appartenenza e ha perduto – o sta perdendo – la connotazione di coordinamento e di guida educativa e didattica. Il profilo del Direttore Didattico nella scuola di base aveva una specificità centrata sulla garanzia dovuta ai piccoli alunni di un buon intervento. Recentemente, si poteva leggere su un foglio sindacale che “è bene che i vecchi direttori si convertano alle nuove funzioni richieste e abbandonino ogni tentazione pedagogica”.
Un altro livello di analisi è quello sulla presenza femminile. Se nei ranghi della dirigenza sono relativamente più numerosi i maschi, per contro il disagio è largamente diffuso soprattutto fra le donne. E’ un disagio spesso non elaborato, frutto della lacerazione fra il desiderio personale di emergere e la difficoltà ad adattarsi ad un luogo simbolico dove la relazione fra donne non è più fondativa. Il discorso sull’ambizione femminile, sulla sua dignità e sulla necessità che si renda visibile finalmente, è stato affrontato dalla riflessione femminista degli ultimi anni, con esiti molto diversi e contraddittori. Possiamo solo brevemente dire che anche le donne dirigenti della scuola soffrono sotto il “tetto di cristallo”. La locuzione, utilizzata in un convegno su donne e potere (2001), ci mostra donne a cui si spezza il volo contro una barriera rappresentata da ciò che, pur essendo in vista, non è dato raggiungere. Per mille motivi, compresi quelli più intriganti che riguardano il non accettare un volo che tanto distanzia dalla presa con il corpo e con la vita. Le donne non salgono, o salgono in modo maldestro e sofferente, non solo perché schiacciate dalla presenza maschile, ma perché vorrebbero giocarsi un ruolo autorevole, non con le modalità degli uomini. Contraddittoriamente, l’omologazione al maschile, come unico modello di potere socialmente ammesso, le spinge verso una identità professionale competitiva. Nella scuola la spinta alla competizione e l’uso spesso subdolo del potere si manifestano nei rapporti interni con le docenti e fra colleghe, magari di scuole dello stesso territorio. Donne dunque oppresse da una cultura del dirigere e del governare che non le rappresenta in quanto donne e di cui spesso esse non rappresentano la parte migliore, malgrado il dispendio di energie. Forse il “carotaggio” sulla dirigenza scolastica avrebbe bisogno anche di un approfondimento sincronico e diacronico con gli strumenti della lettura di genere. Sarebbe necessario assumere l’evidenza che tutto sta in relazione. Quando emerge nel contesto una sconnessione, lì si è creato un spazio vuoto in cui si incunea il Discorso sul Potere e si evidenzia la sua vocazione a ricreare legami.

Vedi anche: aziendalizzazione della scuola, gerarchizzazione, potere, relazione, staff,