GRUPPI DI LIVELLO
Luca Castrignanò, insegnante s
cuola media, Bologna

Per gruppo di livello si intende abitualmente in ambito didattico un gruppo di studenti omogeneo per le abilità e le capacità possedute. L’idea di organizzare la scuola pubblica secondo gruppi omogenei è stata sottoposta nei decenni passati a una critica radicale poiché rappresentava un limite strutturale alla costruzione di una scuola democratica fondata sul richiamo costituzionale a superare gli ostacoli di ordine sociale ed economico che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini. I gruppi omogenei finivano infatti per riprodurre e consolidare le differenze socioculturali di partenza degli alunni, mentre la scuola di tutti e di ciascuno avrebbe dovuto essere la scuola in cui ognuno, nella sua specificità, si confrontava con gli altri in un contesto plurale e rispettoso delle differenze individuali. Di qui discendeva anche la critica ai meccanismi selettivi e omologanti dei voti e degli standard di prestazione. Da diversi anni però questa modello organizzativo è ricomparso in modo più o meno esplicito nel dibattito pedagogico e nei testi fondamentali della normativa sulla Scuola, in particolare la Legge sull’autonomia. Esso si presenta nella forma dell’organizzazione di una didattica per gruppi flessibili che supera la tradizionale suddivisione degli studenti in classi e si richiama alla necessità di assicurare a tutti una proposta didattica calibrata sulle capacità personali e in definitiva a garantire quella uguaglianza di opportunità che il modello pluralistico avrebbe garantito solo nella forma. Le sperimentazioni delle cosiddette classi aperte organizzate secondo il modello modulare hanno finito infatti per convergere nella stragrande maggioranza dei casi sulla scelta del gruppo di livello come criterio per la definizione dei nuovi gruppi incontrando anche una certa adesione da parte di molti insegnanti. La persistenza di dati allarmanti che riguardano il numero dei fallimenti scolastici induce inoltre alcuni a pensare che si debbano costituire gruppi omogenei per capacità, conoscenze e competenze in modo tale da programmare attività più specifiche e mirate (ciò garantirebbe allo stesso tempo proposte didattiche adeguate a valorizzare gli alunni eccellenti).
Le obiezioni che questa ipotesi solleva si articolano su diversi piani.
Innanzitutto va considerato il carattere esclusivo dell’ambito cognitivo come criterio per la costituzione dei gruppi di livello. L’esperienza scolastica degli studenti è in realtà molto più ricca e complessa ma proprio per questo non può essere codificata in standard di prestazione, nessuno ad esempio prende in considerazione la variabile comunicativo-relazionale nella definizione di un gruppo di livello perché non avrebbe nessun senso (salvo quello di assumere principi di disciplina militareschi o di riproporre i gruppi dei disadatti alla scuola). In questo modo si occulta la pluralità di dimensioni dell’apprendimento e della cooperazione tra pari. Ogni alunno in una classe ha sempre qualcosa da ricevere e da dare nell’interazione con gli altri. Una classe di "secchioni", costretti alla competizione come regola sociale al pari di una classe di "zucconi" costretti alla devianza, costituisce invece un fattore di disagio e di limitazione delle opportunità di apprendimento e di maturazione. Questa esclusività del principio cognitivo finisce per operare una drastica semplificazione della relazione di insegnamento-apprendimento riducendola a una procedura tecnica di acquisizione di conoscenze escludendo o comunque subordinando una progettualità che si riferisca alla dimensione socio-affettiva.
Anche sul piano cognitivo inoltre è del tutto opinabile che il processo di apprendimento sia riducibile a una procedura tecnica; dobbiamo riconoscere che nella maggioranza dei casi non sappiamo dire che cosa veramente abbia portato al raggiungimento dei risultati positivi, nonostante il nostro impiego delle tecniche più collaudate. Non si tratta qui di un rifiuto idealista e un po’ naïf delle metodologie didattiche, ma di non essere tanto ingenui da credere di poter controllare demiurgicamente il nostro operato di insegnanti. Riconoscere questo statuto di oscurità e imprevedibilità al processo di apprendimento non è una posizione di modestia o di pigrizia, bensì il riconoscimento di uno degli aspetti più affascinanti del nostro lavoro. Il gruppo di livello presuppone invece che sia possibile stabilire una condizione ottimale di apprendimento valida per tutti e che questa condizione sia appunto l’omogeneità del livello di competenze di partenza. La nostra esperienza, a partire dall’osservazione dei bambini che giocano nei giardini, è invece ricca di prove contrarie, delle conquiste ottenute proprio grazie alla presenza di situazione di eterogeneità delle abilità di partenza, così come degli esiti negativi delle situazioni fortemente omogenee per disagio sociale e scolastico.
Infine l’aspetto forse più problematico della definizione di gruppi di livello è però legata all’identità. La definizione di gruppi omogenei tende a cristallizzare le differenze individuali in gruppi di appartenenza che condizionano a priori non solo il processo di acquisizione delle conoscenze ma anche strutturazione dell’identità. L’esperienza dell’integrazione degli alunni portatori di handicap viene disconosciuta e trasfigurata. Essa si fondava sulla valorizzazione di ogni differenza individuale e sull’importanza della coesistenza delle diversità di ciascuno. La scelta del gruppo di livello vuole darsi la maschera del rispetto delle differenze ma opera in realtà uno slittamento dal piano della differenza individuale, irriducibile e non misurabile, a quello della differenza dei gruppi, foriera di nuove ghettizzazioni. L’importanza per tutti dell’inserimento degli alunni con handicap in classe è stata quella di portare scompiglio nelle mappature delle identità sociali, incrinando le barriere tra sé e gli altri. Essa è stata una risorsa per tutti proprio nella misura in cui ha messo in luce una comunione più profonda di quella fondata sull’omogeneità (di status, di aspetto fisico, di nazionalità, di capacità scolastiche, ecc.), una comunione fondata sull’idea che ciascuno è portatore di una singolarità e che proprio perché siamo tutti diversi possiamo essere tutti uguali. Si tratta di una esperienza di democrazia reale che la scuola italiana dovrebbe rivendicare a livello europeo come elemento di forza e di civiltà, ed è stata praticabile solo grazie al rifiuto dell’omogeneità dei livelli di apprendimento come criterio per la definizione dei gruppi di allievi. La pratica di una didattica personalizzata che tenga conto delle potenzialità specifiche di ciascuno andrebbe estesa a tutti gli alunni, a prescindere dalla certificazione dell’handicap, in alternativa alla falsa idea di una uguaglianza misurata su obiettivi standard che riproduce e acuisce all’interno della scuola gli svantaggi sociali di partenza. Bisognerebbe pensare a una forte incentivazione delle risorse per consentire percorsi di compresenza di più insegnanti tali da garantire una effettiva praticabilità della didattica personalizzata all’interno di un contesto plurale e rifiutare così con forza l’ipocrisia di chi maschera la riproposizione di gruppi differenziali per il rispetto dei bisogni e delle differenze individuali.

Vedi anche: autonomia, classe (vista da una insegnante), classe (vista da una studentessa), handicap disabili diversamente abili, modularità, personalizzazione.