Per gruppo di livello si intende abitualmente in ambito didattico
un gruppo di studenti omogeneo per le abilità e le capacità possedute.
L’idea di organizzare la scuola pubblica secondo gruppi omogenei è
stata sottoposta nei decenni passati a una critica radicale poiché rappresentava
un limite strutturale alla costruzione di una scuola democratica fondata sul
richiamo costituzionale a superare gli ostacoli di ordine sociale ed economico
che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini. I gruppi
omogenei finivano infatti per riprodurre e consolidare le differenze socioculturali
di partenza degli alunni, mentre la scuola di tutti e di ciascuno avrebbe dovuto
essere la scuola in cui ognuno, nella sua specificità, si confrontava
con gli altri in un contesto plurale e rispettoso delle differenze individuali.
Di qui discendeva anche la critica ai meccanismi selettivi e omologanti dei
voti e degli standard di prestazione. Da diversi anni però questa modello
organizzativo è ricomparso in modo più o meno esplicito nel dibattito
pedagogico e nei testi fondamentali della normativa sulla Scuola, in particolare
la Legge sull’autonomia. Esso si presenta nella forma dell’organizzazione
di una didattica per gruppi flessibili che supera la tradizionale suddivisione
degli studenti in classi e si richiama alla necessità di assicurare a
tutti una proposta didattica calibrata sulle capacità personali e in
definitiva a garantire quella uguaglianza di opportunità che il modello
pluralistico avrebbe garantito solo nella forma. Le sperimentazioni delle cosiddette
classi aperte organizzate secondo il modello modulare hanno finito infatti per
convergere nella stragrande maggioranza dei casi sulla scelta del gruppo di
livello come criterio per la definizione dei nuovi gruppi incontrando anche
una certa adesione da parte di molti insegnanti. La persistenza di dati allarmanti
che riguardano il numero dei fallimenti scolastici induce inoltre alcuni a pensare
che si debbano costituire gruppi omogenei per capacità, conoscenze e
competenze in modo tale da programmare attività più specifiche
e mirate (ciò garantirebbe allo stesso tempo proposte didattiche adeguate
a valorizzare gli alunni eccellenti).
Le obiezioni che questa ipotesi solleva si articolano su diversi piani.
Innanzitutto va considerato il carattere esclusivo dell’ambito cognitivo
come criterio per la costituzione dei gruppi di livello. L’esperienza
scolastica degli studenti è in realtà molto più ricca e
complessa ma proprio per questo non può essere codificata in standard
di prestazione, nessuno ad esempio prende in considerazione la variabile comunicativo-relazionale
nella definizione di un gruppo di livello perché non avrebbe nessun senso
(salvo quello di assumere principi di disciplina militareschi o di riproporre
i gruppi dei disadatti alla scuola). In questo modo si occulta la pluralità
di dimensioni dell’apprendimento e della cooperazione tra pari. Ogni alunno
in una classe ha sempre qualcosa da ricevere e da dare nell’interazione
con gli altri. Una classe di "secchioni", costretti alla competizione
come regola sociale al pari di una classe di "zucconi" costretti alla
devianza, costituisce invece un fattore di disagio e di limitazione delle opportunità
di apprendimento e di maturazione. Questa esclusività del principio cognitivo
finisce per operare una drastica semplificazione della relazione di insegnamento-apprendimento
riducendola a una procedura tecnica di acquisizione di conoscenze escludendo
o comunque subordinando una progettualità che si riferisca alla dimensione
socio-affettiva.
Anche sul piano cognitivo inoltre è del tutto opinabile che il processo
di apprendimento sia riducibile a una procedura tecnica; dobbiamo riconoscere
che nella maggioranza dei casi non sappiamo dire che cosa veramente abbia portato
al raggiungimento dei risultati positivi, nonostante il nostro impiego delle
tecniche più collaudate. Non si tratta qui di un rifiuto idealista e
un po’ naïf delle metodologie didattiche, ma di non essere tanto
ingenui da credere di poter controllare demiurgicamente il nostro operato di
insegnanti. Riconoscere questo statuto di oscurità e imprevedibilità
al processo di apprendimento non è una posizione di modestia o di pigrizia,
bensì il riconoscimento di uno degli aspetti più affascinanti
del nostro lavoro. Il gruppo di livello presuppone invece che sia possibile
stabilire una condizione ottimale di apprendimento valida per tutti e che questa
condizione sia appunto l’omogeneità del livello di competenze di
partenza. La nostra esperienza, a partire dall’osservazione dei bambini
che giocano nei giardini, è invece ricca di prove contrarie, delle conquiste
ottenute proprio grazie alla presenza di situazione di eterogeneità delle
abilità di partenza, così come degli esiti negativi delle situazioni
fortemente omogenee per disagio sociale e scolastico.
Infine l’aspetto forse più problematico della definizione di gruppi
di livello è però legata all’identità. La definizione
di gruppi omogenei tende a cristallizzare le differenze individuali in gruppi
di appartenenza che condizionano a priori non solo il processo di acquisizione
delle conoscenze ma anche strutturazione dell’identità. L’esperienza
dell’integrazione degli alunni portatori di handicap viene disconosciuta
e trasfigurata. Essa si fondava sulla valorizzazione di ogni differenza individuale
e sull’importanza della coesistenza delle diversità di ciascuno.
La scelta del gruppo di livello vuole darsi la maschera del rispetto delle differenze
ma opera in realtà uno slittamento dal piano della differenza individuale,
irriducibile e non misurabile, a quello della differenza dei gruppi, foriera
di nuove ghettizzazioni. L’importanza per tutti dell’inserimento
degli alunni con handicap in classe è stata quella di portare scompiglio
nelle mappature delle identità sociali, incrinando le barriere tra sé
e gli altri. Essa è stata una risorsa per tutti proprio nella misura
in cui ha messo in luce una comunione più profonda di quella fondata
sull’omogeneità (di status, di aspetto fisico, di nazionalità,
di capacità scolastiche, ecc.), una comunione fondata sull’idea
che ciascuno è portatore di una singolarità e che proprio perché
siamo tutti diversi possiamo essere tutti uguali. Si tratta di una esperienza
di democrazia reale che la scuola italiana dovrebbe rivendicare a livello europeo
come elemento di forza e di civiltà, ed è stata praticabile solo
grazie al rifiuto dell’omogeneità dei livelli di apprendimento
come criterio per la definizione dei gruppi di allievi. La pratica di una didattica
personalizzata che tenga conto delle potenzialità specifiche di ciascuno
andrebbe estesa a tutti gli alunni, a prescindere dalla certificazione dell’handicap,
in alternativa alla falsa idea di una uguaglianza misurata su obiettivi standard
che riproduce e acuisce all’interno della scuola gli svantaggi sociali
di partenza. Bisognerebbe pensare a una forte incentivazione delle risorse per
consentire percorsi di compresenza di più insegnanti tali da garantire
una effettiva praticabilità della didattica personalizzata all’interno
di un contesto plurale e rifiutare così con forza l’ipocrisia di
chi maschera la riproposizione di gruppi differenziali per il rispetto dei bisogni
e delle differenze individuali.
Vedi anche: autonomia,
classe
(vista da una insegnante), classe
(vista da una studentessa), handicap
disabili diversamente abili, modularità,
personalizzazione.